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Predrag Matvejevic'

I Balcani

Chi approda nei Balcani non tarda a rendersi conto delle loro contraddizioni. Sono una penisola vera e propria o un grosso blocco del Continente immerso nel bacino mediterraneo? L’una e l’altra cosa alternativamente o, a seconda del luogo, sia l’uno sia l’altra? Sono tanti i mari che lambiscono queste coste – l’Adriatico, lo Ionio, l’Egeo con, ai suoi confini, quello che viene chiamato Mar Nero e quello, più piccolo, il Mar di Marmara. Il litorale non è tutto marittimo. L’entroterra è per la maggior parte montagnoso. Nessuno dei cinque mari che lo circondano aveva dato il nome a questi spazi, ma i rilievi del loro interno, per gli antichi geografi erano Haemus e catena mundi, per gli Slavi «Vecchio Monte» (Stara planina), che i Turchi hanno tradotto nella loro lingua con Balcani.
In passato, i Balcani si chiamavano anche Penisola Illirica, Greca, Bizantina e, più di recente, «Turchia europea»: ciò rivela, fra l’altro, le diverse appropriazioni o appartenenze di questi territori. A differenza delle cugine appenninica e iberica, separate dal Continente da catene montuose, come le Alpi e i Pirenei, la Penisola Balcanica non offre, di fronte all’Europa centrale, una barriera difficile da superare. Per vari geografi e storici sarebbero i corsi d’acqua – Danubio, Sava e Kupa – a delimitare le frontiere verso il Nord e l’Ovest. Quanto al litorale, sarebbero, da un lato, i golfi del Quarnero, di Fiume o addirittura quello di Trieste (ciò vale soprattutto per i mappamondi più antichi). Dall’altro lato, a est, la linea che noi esiteremmo a tracciare passerebbe probabilmente attraverso la Dobrugia e si fermerebbe non lontano dall’enigmatico delta denubiano. Queste delimitazioni sono relative e spesso arbitrarie. Coloro che le propongono o le ratificano raramente concordano gli uni con gli altri. I tracciati che indicano sulle carte variano da un’epoca a un’altra.
I Balcani vengono spesso identificati a oriente dell’Europa, in funzione dell’angolazione dalla quale li si osserva e dal punto di vista che si adotta. E’ stato detto e ripetuto più volte che, vista dal centro del nostro Continente, questa “zona turbolenta” comincia già a Monaco di Baviera o a Vienna (si riporta la famosa battuta di Metternich che riguardava una Vienna più balcanica che mitteleuropea); gli abitanti di queste due città spostano questa “frontiera incerta” verso Lubiana e Zagabria (lo scrittore croato Miroslav Krle_a ne vedeva il punto di partenza nel prestigioso Hôtel de l’Esplanade al centro di questa città), mentre gli Sloveni o gli stessi Croati la spingono ben più a est, verso Belgrado o Sarajevo, non senza qualche secondo fine. Dal lato orientale della penisola, persone più avvedute replicano talvolta che nei Balcani è nata la stessa Europa.
Questa zona è soggetta a grandi movimenti tellurici. Qui i terremoti sono frequenti e i loro effetti devastanti. Più di mille anni fa, Giuseppe l’Innografo, di orgine bizantina, compose un commovente Canone sul timore del sisma: «Dal sisma, dal gladio, dalla dura prigionia, dallo scivolamento del terreno, dalla fame..., o Maestro misericordioso, preserva la Tua città». Molte città della costa sono state inghiottite dalle onde, provenienti sia dal mare che dalla storia. Nicéphore Grégoras, testimone del crepuscolo di Bisanzio, ne offre un’immagine apocalittica: «A quell’epoca si verificarono sismi e ribollimenti marini straordinari... Crollarono le case, come pure la maggior parte dei bastioni di Bisanzio...
Sommersero parecchi territori, con gli stessi uomini, gli armenti con i loro attacchi. I flutti si riversarono sulla terra ferma e trascinarono con sé anche le navi che si trovavano in prossimità dei porti».
Alcune isole vicine sono scomparse o hanno cambiato posto da tempi immemorabili, mitologici. In molti luoghi si crede di scorgere sul fondo delle acque, in prossimità delle rive, le rovine di antichi palazzi, di porti e di moli vicino ai quali si trovano probabilmente dei relitti pieni di tesori favolosi. (Inutile cercarne i carichi, sono già stati portati via da pirati appartenenti Dio solo sa a quali etnie, tribù o nazioni.) Le scosse sismiche e le variazioni tettoniche da esse provocate non solo all’occorrenza semplici metafore. Alcuni collegano questi fenomeni alle mentalità e agli umori degli abitanti dei dintorni. Più di un argomento potrebbe indurci a questo genere di ipotesi, più seducenti che probabili.
La questione della molteplicità e della diversità demografica è tanto vecchia quanto gli stessi Balcani. Ha suscitato l’interesse e acceso la passione sia di illustri saggi sia di comuni ciarlatani. Si evoca spesso una curiosa ricerca fatta dal canonico di Sebenico che si faceva chiamare con un nome latino, Georgius Sisgoreus, e con un altro, croato, Juraj _i_goric_. Vissuto all’epoca del Rinascimento, cantando al tempo stesso la gloria di Venezia e raccogliendo le opere popolari slave, questo uomo erudito aveva tentato di fare il censimento delle popolazioni o delle tribù balcaniche basandosi sulle testimonianze che ci hanno lasciato gli storici e i geografi dell’antichità, al fine di presentare le origini, strane ed esotiche, dei nostri predecessori: «Encheli (Encheleae) Himani, Peuceci (Peuceciae), secondo Callimaco; Soreti, Serapilli, Iasi, Andiseti o Sandiseti (Sandisetes), Colaphiani (Calophani) e Breuci, secondo Plinio; Norici, Antintani, Ardei (Ardiei), Pallarii e Giapodi (Japodes), poi Tribali, Daysi (Daysii), Istriani (Histri), Liburni, Dalmati (Dalmatae); Cureti o Croati (Curetes)», eccetera. A questa nomenclatura si aggiungono altri Slavi, come pure le antiche popolazioni romane che loro avevano cacciato, gli Illiri e i Traci, antenati degli Albanesi, i Sarmati e i Geti (Getae), popolazioni “feroci e irsute”, stando alla descrizione che ne fa Ovidio durante il suo esilio in quei luoghi, così come i Goti, i Celti o anche i Franchi che vi fecero più di un’incursione; vi si trovavano, in primo luogo, gli antichi Greci, nostri maestri, senza dimenticare i Pellasghi che li precedettero, e persino i Peceneghi, i Gheghi, i Manii, i Morlacchi o Valacchi Neri (Mauri Volcae), accanto a tanti altri che non sono citati per mancanza di spazio in questo scritto o forse per una sorta di negligenza, voluta o involontaria, che non è rara nei Balcani.
Gli spazi balcanici sono disseminati delle vestigia degli imperi sovranazionali e dei resti dei nuovi Stati, definiti in seguito ad accordi e programmi nazionali; idee di nazione che datano al XIX secolo e ideologie internazionaliste nate dal socialismo reale del XX secolo; eredità di due guerre mondiali e di una guerra fredda; vicissitudini dell’Europa dell’Est e di quella dell’Ovest; relazioni ambivalenti fra Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo; tangenti e trasversali Est-Ovest e Nord-Sud, legami e fratture fra il Mediterraneo e l’Europa, l’Unione europea e “l’altra Europa”. Tante divisioni e faglie, linee di demarcazione o di frontiera, materiali e spirituali, politiche, sociali, culturali e altre ancora. Alcune parti di questo territorio recano marchi o ferite, inflitti sia dalla storia che da un passato al quale non è stato dato di essere realmente storico. Ogni volontà di allargarsi a scapito dell’altro si rivela in fin dei conti illusoria, o finisce nella follia nazionalista: non c’è posto per una «grande Serbia», un’«Albania allargata», una Croazia comprendente la Bosnia-Erzegovina o una Bulgaria che si appropria della Macedonia, eccetera. La penisola è troppo ridotta per grandezze di questo genere, scomoda per simili ambizioni. Le sue frontiere sono già fissate, al suo interno e all’esterno. I giochi sono fatti.
Alle differenze etniche e linguistiche si aggiungono divergenze immaginarie e mitologiche. Ognuno pretende di avere radici più profonde dell’altro, ragioni più convincenti per impadronirsi dei territori vicini: uno Stato e un potere che affondano nelle brume del passato, dominando le tribù disperse nei dintorni. Gli avvenimenti reali e le loro rappresentazioni fittizie si sostituiscono così gli uni alle altre. La storia e il mito si confondono – le rivendicazioni si basano tanto sulla prima quanto sul secondo, a volte su entrambi contemporaneamente. Gli argomenti che si invocano e le “prove” che vengono fornite sono considerati irrefutabili o addirittura sacri: ci si impone in nome del diritto storico; oppure si rivendica in nome del diritto naturale. Con la pretesa degli uni di detenere la verità della storia e degli altri di possedere il diritto assoluto. I Balcani ne sono stati vittime tante volte, molto spesso per loro stessa colpa.
Il lavoro degli storici tradizionali ha cercato molto di più le nazioni che “arrivano” e “si installano” che quelle che si fondono sul posto o che si amalgamano con gli indigeni e i nuovi venuti. Le dispute o gli scontri che ne derivano assumono la maggiore intensità e anche la maggiore ambiguità nel momento in cui queste nazionalità rivendicano una qualifica di Stato (Stato nazionale) per recuperare i ritardi e presentarsi davanti all’anfiteatro della modernità.
Altre divergenze, meno evidenti, si mescolano a questi processi di lunga durata. Una delle fratture più profonde rimane quella provocata dallo scisma cristiano del 1054, che divise Chiese e fedi religiose, imperi e poteri, stili e scritture. Nel fossato che si è creato fra Bisanzio e la latinità, all’interno del Cristianesimo cattolico e ortodosso, si è inserito l’Islam. L’Europa e il Mediterraneo si sono scissi e sono esplosi in seno ai Balcani. Nei conflitti che sono scoppiati qui – e che continuano a ripetersi – in genere era assente la fede, ma non la discordia religiosa. Nel corso dei secoli, questa specie di differenza ha creato una divisione costante fra i credenti, la divisione si è trasformata in opposizione, e l’opposizione in intolleranza; queste, a loro volta, hanno generato ostilità e odio, che sono diventati spesso la causa di violenze e di conflitti. Così, da una fase all’altra, si può seguire un’evoluzione di questi dissensi originari. Essi implicano contenuti reali, disseminati nel tempo e nello spazio, separati dalla loro matrice religiosa. Inscritti nell’immaginario collettivo, si prestano a varie forme di manipolazione. I “signori della guerra” ne hanno fatto abbondante uso – e in particolare nel corso degli ultimi conflitti in Bosnia, in Kosovo, in Croazia, nell’ex Iugoslavia, che non hanno avuto quasi niente a che fare con le guerre di religione nell’accezione generale del termine.
La stessa balcanizzazione è legata a questi fatti che non sono sempre visibili a occhio nudo. La maggior parte delle popolazioni di questa regione non ha conosciuto delle autentiche tradizioni laiche. Non si tratta unicamente di una mancanza di laicità rispetto alla fede: si osserva un analogo atteggiamento nei confronti di un’idea nazionale concepita in senso religioso e, al tempo stesso, di un’ideologia (non solo nazionale) praticata in quanto religione. Si può osservare la trasformazione di alcuni aspetti della cultura nazionale in un’ideologia della nazione. La letteratura, a sua volta, si riduce a una “letteratura nazionale” in senso stretto. Le energie, sia individuali sia collettive, si ritrovano così assorbite dal solo nazionalismo. Questi fenomeni sono riscontrabili anche al di là della penisola, lungo tutte le coste mediterranee, e altrove.
Non è soltanto nei Balcani che la storia si scrive in primo luogo come storia nazionale. Viene spesso osservata attraverso griglie di lettura troppo particolari, folcloristiche o epiche. Anche una sconfitta o una ferita possono essere promosse al rango di «avvenimenti fondatori» o assumere proporzioni smisurate a livello di coscienza o di immaginario, nel corso dei secoli. Tanto per fare un esempio, legato all’attualità più scottante, è sufficiente ricordare il caso ben noto del Kosovo. Le questioni riguardanti il suo passato, la sua appartenenza o il suo statuto attuale vengono poste in termini molto diversi dagli storici o dai politici che appartengono alle nazioni che vi coabitano e da coloro la cui origine non è né serba né albanese. Le loro argomentazioni, anche quando partono dagli stessi dati, conducono generalmente a conclusioni diverse. Questo esempio, e la lezione che se ne può trarre nella storia dei Balcani, meritano di soffermarvisi.
Il passato geologico e la preistoria non pongono problemi: anticamente il Kosovo era un grande lago la cui natura ne conserva ancora delle tracce; il fiume Ibar ha portato le sue acque verso il Mar Nero, l’affluente Lepenac verso il Mar Egeo, lasciando attorno ai loro letti rocce svettanti e, al centro, vallate verdeggianti. Nel Medio Evo incontriamo il nome di Kosovo polje che significa «campo dei merli» (campus turdorum). Gli antenati degli Albanesi, degli Illiri o dei Traci vi hanno abitato a cominciare dalla fine del terzo millennio a.C. Nel II secolo della nostra era Tolomeo segnala, fra le montagne dell’antica Dardania e della Macedonia, la presenza degli Albanoi. Nel VI-VII secolo d.C. gli Slavi (serbi) sono arrivati in questa regione, allora percorsa anche dai Valacchi (in parte discendenti dei coloni romani) e da altre popolazioni che vivevano da nomadi attraverso i Balcani. Tra il XII e il XVI secolo questo spazio è diventato il “cuore” del regno mediovevale serbo: lo Stato di Rascia (Ra_ka – antico nome della Serbia), dopo aver conquistato alcune terre bizantine, vi si insedia nel 1180; lo zar Du_an, detto “Il Potente” (Silni), stabilisce la sua residenza a Prizren; l’arcivescovo e, in seguito, il patriarca si insediano a Pe_ e vi costruiscono il monastero di Gra_anica. Il re Stefano Uros II (1282-1321) si proclama “Re della Serbia, di Dioclea (l’odierno Montenegro), d’Albania e della costa” – il che prova anche che gli Albanesi vivevano nella stessa regione, mescolati agli altri sudditi del regno. é la situazione che precede la battaglia di Kosovo del 1389, nella quale i Serbi, nonostante l’aiuto offerto loro da alcuni vicini balcanici (fra i quali figurava anche un certo numero di Albanesi), subirono una grandiosa disfatta contro la potente armata ottomana. “Non avendo davanti agli occhi il ricordo di un passato glorioso” (utilizzo, all’occorrenza, le ricerche dello storico francese Georges Castellant, esperto di questioni balcaniche – e, fortunatamente, nato lontano da questa zona ), gli albanesi abbracciarono più facilmente la fede dei vincitori e “fornirono al Sultano un numero imponente di servitori devoti”. Quanto ai Serbi, furono costretti a effettuare una “Grande migrazione” (Velika seoba) senza abbandonare affatto la regione.
Nel 1690 l’esercito austriaco penetrò fino a Pe_, distribuendo un proclama a “Serbi, Albanesi, Mesi, Bulgari, Illiri, Macedoni e Rasci” per invitarli a sollevarsi contro gli Ottomani. In questa vicenda i Serbi ricoprirono un ruolo importante, trascinati dal patriarca Arsenio III _rnojevi_. Gli insorti dovettero ripiegare ed emigrare (le fonti, che si possono ritenere obiettive, parlano all’incirca di 70-80 mila persone), beneficiando dell’asilo concesso loro da Leopoldo I nei suoi Stati. Così il loro numero nel Kosovo diminuì una volta di più, e in maniera abbastanza consistente.
Nel 1903, il Consolato austro-ungarico di Prizren effettua – non si sa come – il censimento della popolazione dal quale essa risulta composta per il 45% da Serbi e per il 55% da Albanesi. Si tratta probabilmente di una cifra approssimativa. In seguito alle guerre dei Balcani, lo Stato serbo occupò la regione nel 1912 e, dopo la Prima guerra mondiale, attuò una riforma agraria togliendo agli antichi proprietari turchi le loro terre e distribuendole ai nuovi colonizzatori serbi e montenegrini, a scapito degli abitanti albanesi che vivevano lì poveri e indifesi. Di conseguenza, dopo la Seconda guerra mondiale, il tasso di crescita più elevato in Europa registrato dalla popolazione albanese, arricchita dal lavoro all’estero dopo l’apertura delle frontiere da parte della ex Iugoslavia, spinse i Serbi del Kosovo a un lento e inesorabile esodo: prima dell’inizio di quest’ultima guerra e della mostruosa “pulizia etnica” messa in atto dalle milizie di Milo_evi_, nella regione era rimasto circa il 90% degli Albanesi contro il 10% di Serbi. Nessuno dispone di dati affidabili riguardanti l’oggi, all’inizio di un nuovo secolo e del Terzo Millennio dell’era cristiana.
La vicina Albania non riesce più a stabilire l’ordine indispensabile a uno Stato moderno, soccombendo sotto il peso del suo stesso passato.
E i Balcani sembrano apparentmente abituarsi a queste catastrofi storiche, così come ai cataclismi tellurici , riuscendo a sopravvivervi. Ne trovo ancor una testimonianza, fornita da un monaco bizantino del Medio Evo, di nome Georgios Pachymeros, che descrive un sisma analogo subito dall’antica Dyrrachion (Durës, l’odierna Durazzo, sulla costa albanese): «Si trattò di una scossa sotto forma di pulsazioni successive... Gli sconvolgimenti inconsueti con i rumorri che, nella lingua comune, si sarebbero chiamati gemiti e che erano i segni evidenti dell'avvicinarssi d'una disgrazia… Ed ecco che, caduta la notte sui schricchiolii che avevano sconvoloto il giorno, sopraggiunse un terribile sisma sicché, in un batter d'occhio, l'intera città crollò fino all'ultima pietra …senza che nessuno trovasse il modo di fuggire.»
Questa descrizione forse completa i fatti storici ai quali abbiamo appena accennato in modo sommario. Talvolta è possibile cogliere, da un atto all’altro di una simile tragedia, il ruolo del Destino. E pericoloso d'intederlo come un mito.
La situazione si presta, come si vede, a interpretazioni molto diverse, a seconda del punto di vista di chi la osserva e ne trae le conclusioni. In questo contesto, un tema è particolarmente penoso e difficile da affrontare: quello della crudeltà, di cui ci hanno dato di recente una testimonianza le immagini riprese dal vivo. Alcuni si rifiutano di parlarne per non offendere una popolazione la cui maggioranza non ne è affatto responsabile; altri, originari di questi Paesi, preferiscono tacere perché se ne vergognano. Permetteteci di affrontare questo triste discorso partendo da una delle scene più atroci della letteratura del nostro secolo.
Uno dei primi capitoli de Il ponte sulla Drina (1945), l’opera di Ivo Andri_ (scrittore di origine croata e bosniaca, serbo di adozione e iugoslavo di vocazione, premio Nobel per la Letteratura nel 1961), descrive spietatamente l’impalamento di un serbo ribelle sotto l’impero ottomano: «Un palo di quercia lungo circa tre metri, ricoperto di ferro battuto, con una punta sottile e aguzza»; un uomo vivo, «infilzato a questo palo come un agnello allo spiedo, solo che la punta non gli usciva dalla bocca, ma dalla schiena, – e non erano stati lesi in modo grave né l’intestino, né il cuore, né i polmoni». Occorre un’operazione grandemente professionale e sofisticata per evitare le lesioni degli organi vitali; occorrono diversi strumenti – una decina di martelli e martelletti con cui spingere a poco a poco il palo nel corpo. La vittima deve sopravvivere così alcuni giorni: «gonfia, impettita e nuda fino alla cintola», «fissata tra due travi» sputando «una schiuma bianca», gridando e ringhiando. È la sorte che aspetta il ribelle.
Se ne possono immaginare a migliaia di questi esseri nel corso dei secoli, lungo le strade fangose dei Balcani, nei loro crocevia variopinti. La sofferenza incarnata dalla sorte, “il male interiorizzato” in questo modo, la rivolta o la vendetta che suscitano, tutto ciò non è “conservato” o “decantato” solo all’interno del corpo o nel fondo della memoria, ma anche da qualche altra parte: non sappiamo esattamente né dove né come! Un giorno le circostanze risvegliano questi stati torbidi e traumatizzanti, li attivano sotto forma di resistenza o di aggressione, di sacrificio o di crudeltà.
A scuola ci hanno insegnato che, proprio grazie ai supplizi subiti dai nostri avi, Vienna non è mai stata conquistata dalle «orde asiatiche», così come Venezia o Trieste: che senza questi sacrifici non ci sarebbero stati il Rinascimento in Italia e nemmeno la prosperità della Mitteleuropa. «L’abbiamo pagata con il nostro sangue». Abbiamo contribuito così a «salvare l’Europa e la sua civiltà». Più a nord, furono “i nostri fratelli russi” a frapporre uno scudo analogo, ancora più resistente, alle crudeli invasioni dei popoli delle steppe al di là degli Urali, proteggendo così i Paesi che sarebbero diventati la parte più progredita del Continente. Mi ricordo che quando ero adolescente seguivo questo insegnamento e accettavo – ahimè! – con un certo orgoglio alcune delle sue argomentazioni.
Chiudiamo questa triste parentesi, rendendoci conto del genere di conclusioni a cui possono portare simili tesi. Alcune esperienze tragiche, come quelle che ho appena evocato, persistono a lungo in seno a una tribù o a una nazione. La loro sopravvivenza dipende da circostanze che non sono unicamente storiche e da altre condizioni, spesso difficili da determinare.
Le ultime guerre dei Balcani hanno fatto ricomparire molti ragionamenti simili provenienti da differenti annali nazionali. Un buon numero di Serbi non ha mancato di ricordare non solo l’epoca tragica dell’occupazione turca, ma anche gli odiosi massacri compiuti dagli ustascia croati nella Seconda guerra mondiale. Quanto agli Albanesi, abbiamo avuto spesso occasione di sentire i vecchi discorsi sui loro antichi usi e costumi, «il toglimento di sangue» (gjakmarrja) da essi praticato o le vendette pretese dai loro “Canoni” tradizionali (Kanuni i Lekë Dukagjinit). Allo stesso modo, più di un Croato, o Bosniaco, o perfino Montenegrino invoca la “dittatura” o lo “sfruttamento” praticati dal loro “grande fratello” serbo. I nazionalisti di ogni matrice si scagliano accuse reciproche in modo parziale, esagerato, caricaturale – per condannare gli altri o giustificare se stessi. Le coscienze che tentano di ergersi “al di sopra della mischia” generalmente sono considerate “traditrici della nazione”. E per questo vengono punite.
Un passato lontano e molti avvenimenti recenti hanno lasciato nei Balcani piaghe che continuano a sanguinare. Le esperienze acquisite sotto i regimi imposti dal “comunismo staliniano” occultano un’altra eredità dolorosa. Accanto ad alcuni tentativi positivi dell’”edificazione socialista” – industrializzazione, aumento di produzione, sicurezza sociale allargata, occupazione e scolarità più accessibili, alfabetizzazione, eccetera – un alto numero di fallimenti aggrava irrimediabilmente il bilancio: l’Albania di Enver Hoxha, la Romania di Nicolae Ceausescu, la Bulgaria di Todor _ivkov, persino la Iugoslavia titina, affatto più prospera degli altri Paesi dell’Est, che non ha resistito ai regolamenti di conti nazionalisti. Accanto a loro, nel cuore dei Balcani, si trovano anche una Grecia con i suoi “malesseri” così come la fragile enclave della Rumelia turca, due Paesi che non sono stati esposti alle violenze di un “comunismo” che ha calpestato i propri ideali.
Queste nazioni hanno conosciuto alcuni problemi che oltrepassano le loro frontiere particolari e si ripercuotono al di là dei loro territori: rapporti fra la Bulgaria e la Macedonia, tensioni fra la Serbia e il Montenegro in una nuova Federazione iugoslava, conflitti fra Kosovari serbi e albanesi, separazione delle nazionalità in Bosnia-Erzegovina, disordini interni in Albania, rapporti tesi fra Grecia e Turchia, questione ungherese in Transilvania, rumena in Moldavia, greca a Cipro, macedone in Grecia, serba in Croazia, turca in Bulgaria, più di due milioni di esuli o di “profughi” della ex Iugoslavia, mille e un modo di assumere e di vivere un’“identità post-comunista”, di porre e cercare di risolvere la sempiterna “questione nazionale” o meglio di rivedere frontiere ritenute “ingiuste” e “mal tracciate”, di opporsi, in fine dei conti, alla famosa “balcanizzazione” che, al modo del Destino nelle tragedie nate sotto questi cieli, continua a separare anche ciò che sembrava indiviso e indivisibile.
Al di fuori e al di là di questa panoplia bisognerebbe citare una ricchissima produzione letteraria e artistica, autentici tesori a cui si è dato vita nonostante le condizioni di cui si è parlato. Ho già fatto i nomi di Andri_ e di Krle_a (quest’ultimo, pur nato a Zagabria, non ha mai perso di vista la realtà balcanica). Il romanziere serbo Milo_ Crnjanski merita un posto accanto a loro, come pure lo scomparso Danilo Ki_, mio amico, “ibrido” ebreo e montenegrino, iugoslavo ed europeo a tutti gli effetti. I greci Nikos Kazantzakis con la sua prosa, Seféris o Rítsos con la loro poesia si rivelano degni della grande eredità ellenica. L’Albania ci ha dato un romanziere geniale, Ismail Kadare, che figura fra i più importanti autori contemporanei europei. Ivan Vazov e Georgi Karaslavov hanno aperto la strada maestra al romanzo bulgaro che altri, prosatori e poeti, hanno saputo percorrere dopo di loro. I poeti macedoni Aco _opov e Bla_e Koneski hanno contribuito con le loro opere a codificare la lingua della loro nazione. Grazie alla sua opera e al suo esempio, il “gigante turco” Jachar Kemal è letto e apprezzato in egual misura sulle due coste del Bosforo. La letteratura rumena ha varcato le proprie frontiere, consacrando, fra gli altri, alcuni grandi autori di lingua francese: Panaït Istrati, “meteco” greco-rumeno, Tzara, Ionesco, Cioran... Interrompo qui questo elenco che, nei limiti di questo scritto, non può evitare di restare incompleto, di parte, se non addirittura parziale.
Ecco uno dei molti modi di presentare i Balcani, “questo spazio che produce più storia di quanta possa consumarne”, per gli uni la “vetrina” del nostro Continente, per gli altri il suo “termometro”, la “culla d’Europa” o la sua “polveriera”.


II

ESSERE NEI BALCANI

Dopo ogni spartizione è rimasto qualcosa di insoluto e di incompiuto. Dall'irrisolto o dal sospeso scaturisce spesso qualcosa di storto o di sbagliato. La "verità" serba, bulgara, anche greca, croata, albanese, musulmana, cattolica, ortodossa e le altre svariate "verità" particolari sono state considerate le uniche e giuste ciascuna per sé. In tal modo la Verità sui Balcani è stata relativizzata negli stessi Balcani e fuori di essi.
Parte del lavoro, talvolta la più importante, è rimasta sempre rinviata ad altri, "più favorevoli" tempi. Tempi che arrivavano troppo tardi o non arrivavano mai. Gli eventi non riuscivano così ad essere portati a compimento, realizzati fino in fondo: venivano perciò a crearsi periodi incompiuti e un passato incompleto. Una storia monca.
Negli spazi balcanici non sempre allo scorrere del passato è stato concesso di diventare storia. Ciononostante il passato è stato proclamato storia. La difettosa coscienza della storia ha prodotto e stimolato svariate interpretazioni del passato. La storia nazionale sceglie le interpretazioni apparentemente più favorevoli, evitando, nel farlo, l'obiettività o trascurando i valori. Nel territorio in cui il passato sommerge la storia, gli eventi si perdono da soli, oppure si perde il controllo su di essi.
La coscienza ideologizzata crea i propri scenari del passato, inducendo gli adepti o sudditi ad accettarli ed a credere in essi. Si appoggia più alla mitologia che alla realtà, identifica il mito con la vittoria sul mito. Perfino gli "eventi fondati" diventano preda di una determinata narrazione o finzione e, come tali, difficilmente riescono ad offrire una base a intraprese positive.
I popoli che più tardi degli altri sono diventati nazione, sopratutto Stati nazionali, vivono a lungo in se stessi una specie di dualismo o dualità: si comportano al tempo stesso come popolo e come nazione. E' difficile stabilire un criterio sicuro di identificazione in questo caso; è difficile perfino là dove ci serviamo di una lingua che è più o meno la stessa: fino a che punto siamo una cosa e da che punto siamo l'altra, che cosa siamo di più in una determinata occasione e che cosa siamo di meno in un'altra, quanto e in che modo siamo ambedue le cose allo stesso tempo. Le terminologie usate nei diversi periodi (tribù, comunità, etnìa, popolo, nazionalità, nazione, gruppo nazionale ecc.) portavano esse stesse in sé degli elementi da cui scaturivano equivoci e malintesi.
Gli ibridi del passato e della storia crescono spesso insieme o si congiungono artificialmente, creando ostacoli ai nuovi processi o ai successivi procedimenti. La memoria che le varie generazioni cercano di difendere viene a raffrontarsi con la memoria dalle cui conseguenze bisogna difendersi. Il patrimonio che abbiamo cercato di salvare porta in sé anche parti del patrimonio dal quale bisogna essere salvati o salvaguardati. Il pericolo che si presenta in tali situazioni ci è stato fatto presente da uno dei migliori conoscitori dei Balcani, Jovan Cviji_, che si è servito della metafora del “ragno” nel suo celebre saggio “La penisola Balcanica” scritto all’inizio del Ventesimo secolo nelle lingue francese e serba: “Simili al ragno, gli uomini tessono intorno a sé una ragnatela di pregiudizi storici, di vanaglorie nazionali, di alterati modi di vivere; e questa ragnatela può isolarli spiritualmente dal resto del mondo e far sì che diventino arcaici... Gli istinti nazionali ereditati dalle precedenti epoche storiche, anche quelli più profondamente primitivi, fino a ieri addormentati, cominciano a risvegliarsi...”. Questo ammonimento dello studioso serbo si è rivelato profetico: il “ragno” ha avvolto nella ragnatela gran parte della penisola balcanica.&&&
La regione centrale dei Balcani non si incontrò con il Rinascimento, come invece accadde per il litorale sul quale dominò Venezia e fiorì la Repubblica di Ragusa esposta alle forti influenze della sponda occidentale dell’Adriatico. L’illuminismo è arrivato in ritardo in tutta la penisola, differenziandosi da un territorio all’altro e restando quasi dappertutto privo di laicità. Le nazioni si sono formate con ritardo e subendo interruzioni, cercando di conquistare il maggiore spazio possibile per i propri Stati, trascurando gli interessi o i diritti dei vicini. I programmi nazionali, perfino quelli che erano essenziali e positivi entro le proprie cornici, sono stati accolti dai vicini più prossimi come minacce o congiure.
I tentativi delle potenze straniere di sistemare la situazione, di stabilire le regole di comportamento e di disegnare i confini, operazioni compiute in nome dei propri interessi e obiettivi, hanno suscitato di volta in volta il malcontento di coloro i quali si sono sentiti lesi nei propri diritti o inascoltati. La storia dei Balcani è stata “regolata” da accordi internazionali, e ciascuno di essi si è lasciato dietro determinate questioni insolute, in grado di produrre nuovi eventi a loro volta incompiuti e controversi. Somigliavano a quel gioco nel quale la posta viene continuamente aumentata o diminuita, ritirata o trasferita da un giocatore all’altro.
La pace di Pressburg (l’odierna Bratislava) consegnò a Napoleone, insieme a Venezia, la costa orientale adriatica e le “Provincie Illiriche”.Il congresso di Vienna, come è noto, permise all’Austria di occupare tutti i territori che erano stati dominio del fallito imperatore; al tempo stesso fu negato l’aiuto alla Serbia dove l’insurrezione fu soffocata nel sangue dalle scimitarre ottomane. Il Congresso di Berlino si dimostrò abbastanza benevolo verso il Principato di Serbia a danno della Bulgaria, rendendo al tempo stesso possibile alla Turchia di mantenere ancora per un certo periodo il proprio dominio sulla Bosnia. Le guerre balcaniche terminarono una dopo l’altra più con armistizi che con vere paci. La pace di Versaglia favorì la Serbia alleata dei francesi, confermando la nascita dello Stato dei Serbi, Croati e Sloveni (successivamente denominato Regno di Jugoslavia), senza tener conto delle altre comunità nazionali presenti nella Slavia meridionale e trascurando soprattutto i piccoli popoli confinanti. La Conferenza tripartita di Jalta nella seconda guerra mondiale tentò di dividere i Balcani in due zone di interesse, inseguendo la simmetria là dove era impossibile che ci fosse. Nella serie rientrano pure gli Accordi di Dayton che se da un lato misero fine alla guerra in Bosnia e poi nel Kosovo, oggi non sono più produttivi e tanto meno sufficienti. Sulla scacchiera ogni mossa, ogni spostamento di figure, cambia la posizione complessiva ed apre il gioco in una direzione diversa, talvolta del tutto inaspettata.
La carattersitica del panorama balcanico sta proprio nella sua instabilità e nelle contraddizioni che, invece di essere eliminate, il più delle volte vengono potenziate. Sono titubante nella scelta del punto di partenza, ma comincerò dalla Romania. Esposta da varie parti - ad est, verso la Moldavia, dove il confine è nazionalmente indeterminato, e all’ovest, in Transilvania, dove risiede una nutrita minoranza ungherese - la Romania ha subito una dopo l’altra due dittature: dapprima quella fascista e poi la comunista di stampo stalinista. La sorte della Bulgaria, passata da una monarchia retrograda a una repubblica di tipo sovietico, è stata in qualche modo simile a quella della Romania: ha subito il fardello dei rapporti difficili con la comunità etnica turca e dei tentativi, quasi sempre infelici, di risolvere la questione di quella comunità con sistemi violenti, fino al “trasloco umanitario” a dirla con una definizione tudjmaniana della pulizia etnica. Alla stregua dei Serbi e dei Montenegrini, i Bulgari guardano sempre in direzione della Russia, spesso invocandone l’aiuto e l’appoggio. Sapevano ben poco, fino a ieri, delle sofferenze russe e pretendevano troppo. È un‘inclinazione fondamentalmente pura, e mi riferisco non soltanto agli ortodossi della Slavia meridionale, ma anche ai Croati, agli Sloveni, ai Bosniaci, che hanno sempre guardato con fiducia alla Russia specialmente nei periodi difficili della nostra storia. E’ difficile dire come questi legami potevano fruttare di più nelle date circostanze. Dovrebbero prima di tutto cambiare le circostanze stesse, e questo non è stato possibile.
La più recente storia della Grecia, delineata con poca chiarezza alla Conferenza di Jalta, è stata contraddistinta dalle conseguenze della Resistenza e del collaborazionismo nella seconda guerra mondiale, da un tentativo di rivoluzione comunista e dal colpo di stato fascista dei colonnelli. Anche per la Grecia, poi, sono insorte questioni di confini, e non soltanto a Cipro, accompagnate da un senso di frustrazione, di sconfitta, al quale la memoria greca del passato dà un’impronta particolare.
Sotto il fardello di troppe disgrazie, esposta alle pressioni sulle sue regioni litoranee, posta ai margini del continente, divisa in vari modi e perfino dalle diverse tradizioni tribali, l’Albania è rimasta a lungo isolata dal resto del mondo ed oppressa da una delle più brutali dittature che il mondo abbia conosciuto.
La parte turca dei Balcani, la Rumelia, è vissuta ai margini del proprio Stato la sorte di un impero finito in frantumi, esposta da una parte ai terremoti balcanici e dall’altra alle convulsioni della parte maggiore posta al di la del Bosforo, dove a lungo si sono alternate la volontà della tirannia e il desiderio della democrazia.
Degli Slavi meridionali, della loro vita e vicende comuni e dei reciproci scontri ho scritto con profusione di particolari in altri testi.&&&
In tali situazioni, come detto all’inizio, gli eventi di solito restano incompiuti o subiscono interruzioni. Creano un passato anch’esso incompiuto e parziale, privo di forme che si prestino ad essere determinate o fondanti. Lo scorrere informe del tempo non può essere facilmente armonizzato con i criteri della storia. Nei febbrili tentativi di raggiungere comunque una qualche corrispondenza, vengono scritte storie parastoriche, fondate su fonti insicure e incontrollabili e su testi apocrifi. Una tale operazione viene poi giustificata col fatto che parti delle singole storie sono state indotte quasi sempre dalla storia altrui, da quella prodotta da altri, più forti e più influenti.
I punti di vista sui Balcani sono condizionati, fra l’altro, dalle suddette involuzioni. Vengono considerati una regione in cui sono presenti al massimo grado l’Oriente e le usanze orientali oppure dove l’Islam e il dominio ottomano hanno lasciato le tracce più evidenti. Però spesso si dimenticano molte altre demarcazioni, geografiche e storiche nel più stretto senso della parola.
Nei paesi ai margini della Mitteleuropa si suole attribuire un carattere balcanico a quasi tutti i contrassegni bizantini; si trascura la circostanza che quelle caratteristiche sono presenti, soprattutto nell’architettura e nelle arti figurative, anche in Istria (Basilica eufrasiana di Parenzo) e sulla costa occidentale dell’Adriatico (Venezia, Ravenna, ecc.). Nella stessa Grecia ci imbattiamo in particolari opinioni sul conto della penisola balcanica, considerata uno spazio originale, diverso dalle regioni contermini, che ad onta delle devastazioni portatevi da stranieri, ha conservato le sue forme antiche, alle quali l’ortodossia cristiana ha impresso la propria impronta. (Non è diffucile notare, qui come altrove, una certa dose di partigianeria nazionalistica). In Bulgaria incontriamo una certa adesione ai Balcani ma a condizione che il concetto venga depurato dall’Islam e dalle tracce turche. La medesima cosa va detta per la Romania, dove parte degli intellettuali di orientamento romanzo si rassegna al concetto balcanico mettendoci una certa dose di ironia.
Nella parte occidentale della penisola balcanica si devono fare i conti con i nazionalismi di tipo cattolico-clericale, che avversano contemporaneamente l’ortodossia cristiana e l’islam, e manifestano l’inclinazione alla “fuga dai Blacani”. Ciò non gli impedisce di vantare il primato dei loro ducati, principati e reami, fondati guarda caso proprio dall’altra parte dei confini balcanici e parabalcanici. I nazionalisti di religione ortodossa - come del resto i cattolici - esaltano il ruolo da essi avuto in passato nella difesa dell’Europa contro il pericolo islamico, ruolo che gli è servito come pretesto, nella recente guerra, per un regolamento dei conti con il popolo slavo-musulmano di Bosnia, con il quale condividono le comuni radici.
Questi malintesi presenti nella stessa area balcanica si trasferiscono e vengono gonfiati al di fuori dei suoi confini reali o inventati. Reagendo ed opponendomi a tali concezioni, spesso mi è parso saggio dichiarare: sono Balcanico, sono nato su questa terra che ha tanto sofferto.
L’eccessiva esaltazione del più prossimo ambiente occidentale, che non sempre riesce a nascondere un certo disprezzo verso i “primitivi vicini balcanici”, difficilmente può resistere a un serio esame critico. Lo studioso ungherese Istvàn Bibò, scrivendo sul tema nella prima metà del Ventesimo secolo, ci ha offerto una descrizione impietosa del carattere predominante nell’area medio-europea, purtroppo imitato, nella loro vangloria, da certi uomini politici e da intellettuali Slavi meridionali, e non soltanto da loro. Egli stigmatizzò “il carattere violento e grezzo del nazionalismo”, “l’odio di una comunità verso l’altra”, “gli isterismi che restringono gli orizzonti intellettuali”, “la tendenza dell’irrealtà”, gli “insensati e inconcepibili litigi linguistici”, le “scoperte arcaiche”, la creazione di confuse teorie e filosofie “che avvelenano la vita della collettività”, “la retorica e il pensiero caotici, fondati su erronee categorie”, “l’irresponsabilità dimostrata nelle grandi questioni europee”, “le simulazioni con particolari tendenze alla spettacolarità e alle parate”, “l’ossessione della nazionalità che non contribuisce alla liberazione dell’individuo”.

Nei Balcani, spesso si comincia daccapo invece di continuare. Non si riesce a conservare quanto si è ottenuto. Si cercano le giustificazioni nei tempi trascorsi, con i quali si sono rotti i legami. Si perde tempo nel rifiutarsi di ammettere che la rotta lungo la quale si navigava era sbagliata, oppure che della nave è rimasta soltanto una carcassa dopo il naufragio. Le alleanze contratte con gli altri vengono recise senza validi motivi, gli accordi annullati senza alcuna necessità. Il ricorso alle tradizioni da tempo esaurite od alle ideologie ormai consunte crea l'illusione della stabilità, durevolezza o costanza. Quasi sempre si tratta di fuga all'indietro.
Le potenze straniere indirizzarono i loro interessi verso questa regione, estesero o si spartirono le sfere di influenza nel territorio, attizzarono il fuoco degli scontri, portarono al potere o sostennero il dominio dei propri «amici». E' questo è uno dei motivi, non l'unico, per cui qui si è facilmente diffuso il concetto del «nemico esterno» o della «congiura internazionale». Nemici e congiurati hanno parecchi nomi. Agli eventuali alleati si rimprovera di non essere sufficientemente fedeli o operativi. «Non bisogna credere a chiunque si dice tuo amico!».