Impegno
e scrittura
Predrag Matvejevic:
knjizevnost, kultura i angazman. Lanx satura. Miscellanea offerta
a Predrag Matvejevic a cura di Sanja Roic i Nenad Ivic, Zagabria,
Prometej, 2003, pp. 174.
Sostiene Schopenhauer,
nel suo Sul mestiere dello scrittore e sullo stile, che vi sono
tre tipi d’autori: «coloro che scrivono senza pensare»,
gli scrittori che «mentre scrivono, pensano» ed infine
quelli «che hanno pensato prima di accingersi a scrivere».
Di loro si può dire che «scrivono soltanto perché
hanno pensato». E perciò, naturalmente, «sono
rari».
A quest’ultima categoria appartiene Predrag Matvejevic,
la cui scrittura parte sempre da una riflessione – o meglio
ancora: da un pensiero – si tratti di un testo letterario
o di un intervento politico, di un racconto di viaggio o della
critica delle idee dominanti nella società contemporanea.
Di qui l’inclassificabilità, della sua opera che
è refrattaria verso ogni forma di catalogazione rigida
e predeterminata.
Lo si capisce molto bene proprio leggendo quest’antologia
a lui dedicata in occasione del suo settantesimo genetliaco, la
quale – lungi dall’essere un omaggio formale o la
riproposizione di formule ingessate nei rituali accademici ed
istituzionali – si caratterizza come lo sforzo di studiosi
di diversi paesi e di diverse discipline di riprendere e ridiscutere
i temi proposti e sviluppati dalla sua produzione letteraria:
Rade Kalanj, Nenad Ivic, Claudio Magris, Raffaele La Capria, Milivoj
Telecan, Robert Bréchon, Gabriel Beis, Marija Mitrovic,
Riccardo Picchio, Rossana Rossanda, Sanja Roic, Melita Richter,
Sergej Roic, Boris Uspenski, Dubravko Skiljan, Slaven Ravlic,
Zarko Puhovski.
La fama internazionale di Matvejevic comincia nel 1988 con la
traduzione in italiano del Mediteranski brevijar, cui seguiranno
nel giro di pochi anni le edizioni in francese, spagnolo, tedesco,
ecc. Dobbiamo alla tempestività di lettori stranieri, come
– per esempio – Magris (la cui prefazione all’edizione
italiana è qui riportata) non soltanto l’immediata
valutazione dell’importanza della ricerca condotta da Matvejevic,
ma anche la comprensione della rete intertestuale cui quell’opera
faceva riferimento: da La Mer di Michelet a La Mediterranée
– espace et histoire di Braudel.
A distanza di molti anni, quest’ipotesi critica può
anche essere rimessa in discussione – come, del resto, fa
uno dei due curatori della scelta antologica, Nenad Ivic. Ed è
altrettanto vero che pure l’etichetta di epigono della scuola
di storiografia totale – secondo il modello delle Annales
– va ormai stretta a un autore la cui “talassologia”
– per dirla ancora con Magris – non diventa mai rifiuto
della dimensione evenemenziale della storia umana. E poi c’è
un’altra ragione che ci fa guardare con un occhio diverso
il Matvejevic antropologo, geografo e “filologo del mare”.
Anche lui – come l’orologiaio di Alessandria, uno
degli splendidi personaggi del Breviario – ha deciso di
ricostruire il catalogo di una biblioteca distrutta e dispersa:
non già la raccolta dei libri cui dette fuoco il califfo
Oman, quanto la “biblioteca” di usi, costumi, oggetti,
parole, espressioni e proverbi, insomma la civiltà sorta
intorno a questo grande mare e che il tempo ha frantumato e disperso
attraverso i secoli.
Il primo impegno di un intellettuale – sembra dirci Matvejevic
– sta proprio nel suo farsi memoria del passato e testimone
del presente. Essere «ostaggio della verità»
non significa soltanto partecipare alle polemiche politiche e
culturali del proprio tempo (“la battaglia delle idee”),
pagando anche di persona il ruolo di voce costantemente critica
del potere politico, ma anche dar vita ad una scrittura che Foucault
avrebbe chiamato: archeologia del sapere.
Il nome di Foucault non ci viene in mente per caso: Matvejevic
appartiene alla stessa generazione di scrittori e di filosofi
(quella del post-Sartre) che hanno abbattuto le frontiere tra
filosofia e storiografia, tra letteratura e critica letteraria.
Se c’è un punto in comune tra i diversi saggi raccolti
da Nenad Ivic e Sanja Roic, non ne vediamo un altro di maggior
spessore. Non a caso è proprio Robert Bréchon, uno
dei massimi studiosi mondiali di Pessoa, a trovare le parole più
giuste per sintetizzare quest’universo multiplo ed antinomico:
«Matvejevic fu nel suo cuore ugualmente “bosniaco”
quanto “croato” o “jugoslavo”, ma ciò
che una volta poteva sposarsi bene, ora non poteva più
andare insieme. Sotto la pressione dei fatti la sua identità
è diventata problematica e la sua opera molteplice e difficile
da determinare in senso univoco. […] Il lettore ingenuo
avrebbe potuto pensare che si trattava di tre autori diversi:
l’erudita, il testimone impegnato e il poeta».
A dire il vero, nascosta nella sua opera, si potrebbe reperire
ancora un’altra figura di scrittore: il narratore vero e
proprio. Anche qui non possiamo che seguire il suggerimento di
uno dei saggi dell’antologia: Predrag Matvejevic: personaggio
dal romanzo di Sergej Roic – uno scrittore che riconosce
subito l’ipotestualità narrativa e finzionale, velata
perfino tra le pieghe del saggio critico o della lettera aperta.
A noi basta ricordare la seconda delle Otvorena pisma, quella
dedicata a Karlo Stajner, laddove il ritratto dell’uomo
– che denunciò lo stalinismo, pagando di persona
con una condanna a vent’anni di gulag – non è
il presupposto di una celebrazione artificiale, di un esercizio
di facile retorica, o di un tableau alla maniera di Chateaubriand,
in cui più del soggetto rappresentato l’autore ama
compiacersi narcisisticamente (e puerilmente) del proprio io,
ma diventa anzi racconto drammatico di una vita con personaggi
(indimenticabile la figura di Sonja Efimovna Mojseeva: un’eroina
che sembra uscire da un romanzo di Platonov o Pasternak), momenti
topici e climax.
Oppure ancora non abbiamo che da riprendere in mano – il
suo ultimo successo, L’Altra Venezia (che, fra l’altro,
gli è valso nel 2003 il massimo riconoscimento italiano:
il Premio Strega per gli autori stranieri), per ritrovare giusto
appena sotto la superficie dei frammenti narrativi la struttura
del nouveau roman.
Ma anche qui dobbiamo essere cauti nelle conclusioni, giacché
l’ultima opera di Matvejevic vince la sfida di cimentarsi
con un soggetto fin troppo presente nella letteratura mondiale,
cioè Venezia, non soltanto in virtù della lezione
appresa dall’école du regard, ma anche per la lunga
frequentazione dell’autore con i formalisti russi –
a cominciare da Sklovskij – per i quali senza spaesamento
e senza estraniazione è impossibile rappresentare la realtà
in termini letterari ed artistici. Lo spiega molto bene Raffaele
La Capria nella sua prefazione all’edizione italiana: «È
dall’osservazione del piccolo ma significativo particolare,
anzi dalla sua scelta, che nasce la poesia; e così mentre
ci sembra di leggere un saggio, una descrizione, un diario, in
realtà si superano i limiti del genere e si entra in un’altra
zona che è quella della fantasia».
E tuttavia… Anche quest’ulteriore chiave di lettura
spiega solo una parte del complesso sistema letterario di Matvejevic.
La narratività non è tutto, la poesia nemmeno –
o meglio: l’uno e l’altro aspetto celato nel tessuto
delle sue opere rimandano ad una concezione della letteratura,
nonché del ruolo degli intellettuali, che fa di quella
che un tempo avremmo chiamato la “scrittura militante”,
o – per dirla con Barthes – dello scrivere un «verbo
intransitivo», la sua prima ragion d’essere. Basta
rileggere le pagine de L’epistolario dell’altra Europa
o de I signori della guerra per ritrovarvi una vis polemica ed
una capacità di indignazione che non si nascondono dietro
il fraseggio elegante o la citazione colta. Probabilmente, almeno
alle soglie del nuovo secolo, dovremmo tutti superare certi cliché
e certi luoghi comuni che hanno accompagnato il declino della
letteratura impegnata nella seconda parte del Novecento. In realtà,
l’iperletterarietà di taluni scrittori – da
Sciascia a Tabucchi – non è d’intralcio ad
una visione della letteratura che non si costituisce esclusivamente
come gioco o divertissement. Ed anzi – almeno negli esempi
di livello maggiore – vale proprio il contrario: si pensi
al Pasolini delle Lettere luterane o degli Scritti corsari (cui
inevitabilmente ripensa il lettore italiano di fronte all’Epistolario
dell’altra Europa), che non avrebbe potuto drammatizzare
la propria protesta politica senza fondarla su un’ermeneutica,
per quanto eterodossa, della religione, della religiosità
e dei testi sacri.
Allo stesso modo, Matvejevic realizza un’opera, nel senso
di macrotesto, che di volta in volta cambia e resta identica a
sé stessa: un po’ Antigone, un po’ Ulisse,
un po’ Pasolini appunto, ma anche un po’ Bernhard
e un po’ – perché no? – Borges. Di qui
lo scandalo, l’oltranza e – citando dal suo libro-intervista
– l’irriverenza dello scrittore Predrag Matvejevic,
«cittadino» secondo la bella definizione di Bréchon
«di un’introvabile Europa».
[ALESSANDRO
IOVINELLI].
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