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Sull'Adriatico, il Kosovo

Predrag Matvejevic'

L'Adriatico meridionale sul versante italiano, gran parte della Puglia, sembrava vivere più del passato che del presente. Il Salento, “penisola nella penisola”, è venuto in qualche modo a trovarsi al centro dell'attenzione, disabituato com'era a occupare un simile ruolo. Questi ultimi anni doveva fare i conti con scene tragiche - i motoscafi e i gommoni trasportavano fuggiaschi da una costa all'altra. E non è possibile accogliere né mandare indietro tutti quelli che compiono la traversata.
Nei giorni di bel tempo, soprattutto dopo la pioggia che ripulisce l'aria e il vento che disperde la foschia, si scorgono da qui le cime dei monti albanesi. Al crepuscolo diventano rosei, poi si oscurano per sprofondare nella notte. L'Albania negli ultimi decenni è stata molto più lontana dall'Italia di quanto non sia la vera distanza che le divide. In un'ora si può percorrerla nel punto più stretto, fra Linguetta e Punta Palascia, da Valona (Vlorë) fino a Otranto. Gli Slavi del sud chiamano quel passaggio "porta", gli Italiani "canale". E' difficile dire quale termine risponda meglio - forse entrambi.
Per questa via, nota fin dai tempi più lontani, si fuggiva dai luoghi della sciagura alla volta di quelli che apparivano più felici. Di qui negli ultimi anni gli Albanesi tentano di fuggire da se stessi, dal loro passato, quello remoto e quello vicinissimo. Ad essi si sono aggiunti anche altri: appartenenti a "popoli senza stato" come i Kurdi, esuli e profughi da paesi lontani - dall'Asia Minore o persino dall'Oriente asiatico, dalla Cina. E da ultimo hanno condiviso questo destino anche i Kosovari, provenienti dall'ex Jugoslavia, da quella odierna.
Sono partito alla volta di Otranto all'inizio di questa primavera, verso le coste dove giungevano quotidianamente ospiti non invitati. Siccome non era più possibile visitare il Kosovo, sono andato incontro ai Kosovari che vivevano insieme a noi nello stesso Stato, fra i quali avevo degli amici. Quel giorno c'erano meno vento, meno onde e meno freddo. La notte precedente erano giunti in barca un'ottantina di uomini, donne e bambini. Qualche volta ne passavano anche di più, persino centinaia: dai più piccoli, ancora allattati dalle madri, ai più vecchi che figlie e figli non hanno voluto abbandonare.
Sono sbarcati all'alba camminando sul basso fondale della riva o scivolando nel tentativo di arrampicarsi sugli scogli. Hanno atteso per ore di essere individuati dalla guardia costiera e trasportati nel campo di raccolta più vicino - "Campo Don Tonino Bello". (E' stato intitolato così alla memoria di un sacerdote, perito in missione di soccorso). Ho trascorso una parte della notte e tutto il giorno sulla riva del mare e nel centro di accoglienza, fra la gente riunita qui dalla sfortuna. I "custodi della sponda” separano subito gli Albanesi (quelli provenienti dall'Albania vera e propria) con l'intenzione di rimandarli indietro - essi non ricevono più asilo. Li ho visti e sentiti piangere e pregare - chiedendo di poter rimanere, di lasciarli restare. I Kurdi e i Kosovari sono rimasti, li hanno lasciati. Non so come sia possibile descrivere e presentare i visi dei genitori che portano i bambini in braccio, le mani che trattengono in fagotto quanto resta delle loro proprietà - di tutta una vita. In questa circostanza la letteratura importa meno del resto.
Siamo rimasti a sedere gli uni accanto agli altri, nel "campo", alzandoci e camminando senza smettere di conversare, e poi tornando a sederci di nuovo, in silenzio. Mi si è avvicinato tra i primi un Cinese, con occhiali dalle lenti spesse. Deve aver pensato che potessi essere un funzionario del centro d’accoglienza. Come è arrivato fin qui? Non deve aver percorso a piedi la "via della seta", traversando deserti e steppe? In un inglese smozzicato mi dice che lo hanno aiutato dei cugini dall'estero, consentedogli di comprare un biglietto aereo per l'Albania e di pagarsi il passaggio in barca. "Spero che non mi rimanderanno indietro", ha ripetuto più volte. Non lo hanno respinto. Arrivano ogni tanto gruppi di Cinesi e di altri abitanti del lontano Oriente. Vorrebbero andare in un posto qualsiasi, a fare quello che capita, comunque altrove. “In America”...
Un gruppo consistente di Kurdi se ne sta in disparte: sono solo uomini, di aspetto prestante, i baffi folti, silenziosi. Per quali vie saranno riusciti ad arrivare, e per dove mai potranno riuscire a proseguire? Forse è proprio a questo che stanno pensando - senza svelare in alcun modo i loro pensieri. Provo a fare un cenno col braccio, che somiglia ad un saluto. Ma non mi avvicino, non saprei cosa dirgli. Devono averne abbastanza anche di sé.
Ho dedicato tutta la mia attenzione ai nostri Kosovari. I più vecchi parlano serbo, i più giovani lo capiscono ancora, i bambini sanno qualche parola: per dieci anni non c'è stato insegnamento nelle scuole del Kosovo - per dieci anni non si è studiata la lingua ufficiale dello stato in cui vivevano. Anche in questo si riflette l'irragionevolezza dei governanti: come si può dirigere quelli con i quali non riesci neppure a intenderti? Ma i tiranni sembrano non tener conto di queste cose.
I Kosovari si sono divisi in gruppi più o meno grandi, probabilmente secondo affinità e parentele. Si sono rifocillati dopo la fatica e la tensione della notte, lavati e cambiati. Nel lungo corridoio del centro di raccolta c'è molta roba usata, scarpe e vestiti, e ognuno ha diritto di scegliersi lo stretto necessario. Prendono giacche a vento che riscaldano e sono impermeabili - ma non ce n'è abbastanza per tutti. I bambini tengono in mano delle fette di panettone, ma esitano prima di addentarlo, come stessero domandandosi se è proprio per loro.
Dopo un breve riposo e un superficiale controllo medico, si svolgono le verifiche amministrative: provengono effettivamente dal Kosovo o sono Albanesi con documenti kosovari? Non riesco a capire come e da cosa li possano distinguere - parlano la stessa lingua, si somigliano fra di loro, sono tutti stanchi ed esauriti. Chi hanno in Italia o in Europa? Dove vorrebbero andare? Alle domande rispondono come possono e come sanno. Non è facile capirsi. Ma d'altra parte bisogna verbalizzare tutto, perché è su questa base che vengono rilasciati i documenti. Quel giorno, per giunta, non c'era il traduttore dall'albanese - e così mi sono messo ad aiutare, aiutato a mia volta dai Kosovari che parlano serbo. Parlando una lingua che resta straniera riescono ad aiutare se stessi. E' una cosa paradossale che succede spesso, che ho visto e vissuto tante volte nell’emigrazione.
Da principio mi guardavano con diffidenza, finché non ho detto loro che ero nativo della Bosnia, che me ne ero "andato anch'io” e che sapevo come si sta quando si lascia il proprio paese. Il primo con cui parlai si chiama Isa Alickaj: ha quarantasette anni; ha portato con se la moglie e tre figli; faceva l'insegnante di chimica a De_ani. Abitava in un paese vicino che è stato bruciato. "La casa non me l'ha incendiata un colpo di granata, ma la mano di qualcuno". Quando gli dissi di esser nato a Mostar, comincio’ a esprimersi più liberamente. Ha fatto il servizio militare a Trebinje , è stato più volte sul Vecchio Ponte mostarese, restando a guardare i ragazzi che si tuffavano dall'alto nella Neretva. "Lo hanno distrutto". Se l'è passata male prima di decidersi a partire. Qualche anno senza paga, continuando a svolgere un po' di insegnamento per i bambini albanesi in case private. Di tanto in tanto riceveva un sussidio “sociale”, negli ultimi tempi anche “un po' di viveri” dalle istituzioni umanitarie: "Non si poteva più andare avanti". Per sé e per la moglie ha dovuto pagare la traversata 800 marchi a testa, "e per i tre figli piccoli come per un adulto". Hanno camminato due giorni e due notti nei monti dell'Albania. Si sono stancati, sono stremati.
Ram Alickaj, suo cugino, faceva l'insegnante anche lui. Lavorava a Pe_, e abitava nel vicino paese di Ljod ("si chiama anche Ravno Selo"), che è stato bruciato anch'esso. "Sapete cosa sarà di noi?" chiede angosciato. Ha perso i denti, quando parla non lo si capisce, continua a camminare avanti e indietro. Anche lui è là con la moglie e i figli. "Tutto quel che c'è rimasto è in quei due fagotti!".
Bajram Talaj viveva invece a Prilep. E lavorava nella scuola anche lui. Ha con sé la moglie, una figlia e un figlio. A Djakovica ha lasciato un fratello con due bambini piccoli e la vecchia madre. “Non siamo stati in grado di trovare i soldi per tutti”. Anche la loro casa è stata incendiata.
Parlo a lungo col gruppetto che si è fatto intorno a noi. Sono passati attraverso il Montenegro, il confine fra Kosovo e Albania era in questo momento bloccato e minato. "Non ti puoi avvicinare alla frontiera, sparano." Come li hanno accolti i Montenegrini? "Non ci possiamo lamentare. Ci hanno trasportato in autobus fino al confine con l'Albania. Ci hanno dato poco pane da mangiare. Non ci hanno obbligato né a tornare indietro né a partire. Una parte dei nostri è rimasta, avevano dei parenti. Anche là c'è tanta povera gente. Ma in Albania è ancora peggio." Quando arrivano alla costa, prendono in affitto una stanza nelle case del posto, e pagano abbastanza, ne trovi anche dieci o più in un solo locale. Poi aspettano di passare sulla costa italiana.
Intanto che parliamo, si è sentita male Hairija, la moglie di Bajram. Ha delle fitte al cuore, conati di vomito e perde di tanto in tanto i sensi. Mi chiama Francesco Mancarella, un medico che lavora come volontario nel centro di raccolta, chiedendomi di aiutarlo a ricostruire una qualche anamnesi. Ma l'ammalata parla solo albanese, e così dobbiamo convocare suo marito che sa il serbo. Ma lui si è agitato, guarda con un senso di impotenza la moglie, e parla in modo incomprensibile. Cerco di trasmettere qualcosa in italiano. I gemiti e i singhiozzi non li devo tradurre. "Ci sono molti casi di stress come questo", dice il dottore. "I Kosovari sono abbastanza sani, e la maggior parte è in grado di sopportare viaggi difficili come questo". Però quelli che soggiornano più a lungo in Albania, dove le condizioni igieniche sono insopportabili, arrivano spesso con malattie della pelle, scabbia, pidocchi, forse anche tuberculosi.
Dzevad Delije, un trentenne, è venuto con la sua bella giovane moglie e con due bambini piccoli. Faceva il commerciante a Pe_, ma negli ultimi quattro-cinque anni "dal commercio non ci usciva niente". La moglie ha tre fratelli in Germania, si sono già mossi da Hannover per venirgli incontro, solo che non sanno precisamente dove verrà condotto con la sua famiglia “per poterli avvertire in tempo”, in modo che possano incontrarsi. Mi ha pregato di chiederlo ai funzionari. Hanno detto che nel corso della giornata verranno smistati a Lecce e Squinzano. Sono posti non lontani da qui, non sarà difficile trovarli. Cosi’ cerco di calmarli.
Al mio accompagnatore, e agli altri Italiani che hanno fatto cerchio attorno a noi e pensano che questa gente, lacera e trascurata, sia la più povera del Kosovo, stento a spiegare che questi - ahimè! - sono al contrario la parte "privilegiata" della popolazione: una specie di “élite”. Come devono vivere e in quale miseria quelli che non riescono a procurarsi neanche il pane, altro che due o tre mila marchi o anche di più per pagarsi questo passaggio!
Riesco a capire nel corso della conversazione che questi tipi di "viaggio al termine della notte" si fanno in diverse tappe. E' difficile persino dire quale sia la peggiore. Per prima, occorre arrivare alla frontiera albanese; poi bisogna raggiungere la costa, con qualche camion, un carro o addirittura a piedi; poi si deve contrattare con i “proprietari delle barche” (collegati con le mafie - quella albanese, italiana, montenegrina - che governano buona parte del lavoro); e infine attraversare l'Adriatico. Ognuna di queste tappe è a suo modo penosa. E una vera via crucis.
Per alcuni è la prima volta che vedono il mare. Un vecchio poeta nativo dei Balcani, suddito turco, avvertiva alcuni secoli fa’ coloro che s’avvicinavano alle sponde: "Quando avrai attraversato balze, dirupi e vaste pianure e ad un tratto scorgerai le grandi acque più azzurre del cielo - non essere sorpreso." Loro sono rimasti sconfitti. Sbigottiti nel buio della notte, tremando dal freddo e dall'umidità, rannicchiati nell'angusto battello, stipati gli uni accanto agli altri, i bambini stretti al petto, proteggendo con il loro corpo i corpi dei più vicini. Tormentati, oltre che da quanto li circondava, anche dal pensiero di dove e come sarebbero approdati, e di chi e cosa li attendeva in seguito.
Non tutti vogliono presentarsi nel corso della chiacchierata, ma non è la cosa più importante. "Forse dobbiamo tornare in breve tempo, ed è meglio che non si sappia il nostro nome". Così parlano più liberamente, e hanno meno paura. Non ho udito neanche una cattiva parola rivolta ai "vicini” (Serbi del Kosovo), ma quando nominano l'esercito ne parlano come di un grande guaio. "Gli Albanesi insorti non hanno sparato neppure un colpo sui monasteri ortodossi, sulle chiese o le icone... Invece quelli in Bosnia hanno distrutto le moschee dovunque gli è riuscito di farlo... Gli si ritorcerà contro... Milo_evi_ la pagherà". Non cerco in nessun modo di diffendere il satrapo, e non solo in questa circostanza. Ha minacciato e ha realizzato le sue minacce. Ha promesso di "imprigionare" e ha riempito le prigioni. Ha annunciato la guerra e la sta facendo.
Alcuni dei presenti ascoltano le mie parole con sospetto. Forse sto provocando, chissà? Si voltano a guardare se c'è qualcuno che ci sta a sentire. Un giovane, chiaramente più istruito, accusa anche Tudjman: "All'inizio da Zagabria i giornalisti kosovari mandavano in onda le notizie informandoci di tutto. Ma lui in seguito, mettendosi d'accordo col capo serbo, ha ordinato la soppressione di queste trasmissioni scacciando per giunta i nostri giornalisti". Aggiunge a proposito di separatismo: "Noi eravamo gli unici a portare le effigi del Tito nelle manifestazioni di questi ultimi anni. In Kosovo a nessuno veniva in mente di separarsi realmente. In Albania si stava molto peggio". E a proposito delle condizioni di vita: "Ci hanno perseguitato mandandoci via dai posti di lavoro, umiliandoci, mettendoci in prigione, e adesso ci uccidono. Non si può più andare avanti così". Cerco di dirgli che anche la posizione dei Serbi del Kosovo non è invidiabile: anch'essi si sentono oppressi, minoranza in mezzo ad una minoranza dieci volte più grande di loro. Prendono la via della Serbia che è già piena di rifugiati, costretti a vagabondare da un disagio all'altro, a rifugiarsi in baracche, containers, capannoni, a vivere di aiuto e di elemosina. I Serbi kosovari invidiano quelli che sono riusciti a vendere in tempo la loro terra ai kosovari Albanesi e a comprarsene qualche parcella in territori più sicuri. Per non parlare poi dei Serbi della Krajina, rimasti senza nulla di nulla, espulsi dalla Croazia, fuggiti dinanzi alla «Tempesta» , Milosevic li ha indirizzati proprio verso il Kosovo per ristabilire l'«equilibrio etnico». I miei interlocutori tacciono. A ognuno la propria pena sembra quella più grande.
Chi nei Balcani non ha colpe verso gli altri, persino verso se stesso?! Solo che una colpa non ne può giustificare un'altra. ( Ho parlato al telefono con un amico di Belgrado, disperato. Rispondeva con rassegnazione: “ Neanche quelli di UCK non sono angeli. Per alcuni di loro, Stalin, Mao o Hoxha sono ancora riferimenti ”...) La maggior parte della gente che è qui si trova in una condizione in cui non conta più nessuna politica. Perché è rimasta solo la vita nuda: "Dove andremo?" "Cosa faremo?" "Come vivremo?"
Il giorno è molto più lungo del tempo che misurano le lancette sull'orologio. Occorre partire per Lecce. Hairija si è tirata su. Bisogna andare, non c'è niente da fare. Al momento del distacco vorrei dare un piccolo aiuto a quelli che ho conosciuto. L'insegnante di Prilep esita ad accettare. E' gente che non ha perduto la dignità, quella che si apprezza al loro paese. Do ai bambini quello che ho con me. Questa è l'abitudine che non si respinge. Un vecchio mi chiede di lasciargli l'indirizzo, mi scriverà quando gli sarà possibile. Una donna si è messa a piangere. E io cerco di trattenere le lacrime.
Ho vissuto con persone come loro per tanti anni nella stessa terra, alcuni allievi kosovari erano con me in scuola, ho fatto il militare insieme a loro. Sono stato tante volte in Kosovo prima che tutto questo cominciasse. Non mi resta che augurargli buona fortuna...
Così arrivano e se ne vanno. E ogni giorno ce n'è sempre di più. E' una delle scene più tristi che mi sia capitato di vedere - e in questi sette otto anni da quando vivo in emigrazione ne ho viste di tutti i colori. Nella Sarajevo assediata, durante quel breve periodo che ho trascorso sotto le granate e i tiri dei cecchini, mi sembrava comunque più sopportabile, o forse meno umiliante. Ma le categorie del "più " e del "meno” non hanno lo stesso significato nei tempi tragici e nella vita di tutti i giorni.

La prima parte di questo poco allegro racconto è stata stesa prima dell'inizio delle operazioni militari della NATO, dei pesanti bombardamenti della Serbia e di altre parti dell’odierna Jugoslavia, dopo l'insuccesso delle trattative a Rambouillet. Fra qualche giorno la costa italiana sarà bloccata, i voli dell'aviazione civile verranno sospesi. L'Adriatico verrà percorso in qua e in là dalle grandi navi da guerra dotate delle loro armi micidiali, e tutta l'atmosfera si riempirà di rimbombi, inquietudine e furore. In questo momento era ancora possibile visitare i luoghi degli sbarchi, li’ con ogni probabilità torneranno a scendere gli infelici dalla sponda opposta. Il mio amico italiano ha una barchetta con cui mi porta a vedere questi posti dove i traghettatori gettano fuori i loro insoliti viaggiatori o li spingono le onde - posti che sono invece attraenti, quasi inconciliabili con le scene che vi si svolgono.
A poca distanza da Otranto, in direzione sud, si trova Porto Badisco, in una baia idonea all'accosto, fra rocce che somigliano a moli, e una spiaggia di sabbia nel mezzo. E' un posto noto da tempo immemorabile. I letterati ritengono che proprio qui sia sbarcato l'antenato dei Romani, almeno a giudicare dalla descrizione che ne fa Virgilio nell'Eneide. ("Dove due rocce spumeggiano d'acqua salata, mentre il porto rimane nascosto" - III, 552). Quando soffia lo scirocco e si alzano le onde, torna dalle rocce una forte risacca: in questo stesso posto alcuni anni fa è affondata una decrepita nave albanese, e sono annegati un'ottantina di clandestini che stava trasportando. Non è lontana l'insenatura chiamata Imperia - si tratta in realtà di più insenature di piccole dimensioni, una collegata all'altra e di una grande rupe a forma di piramide (dalla quale probabilmente hanno ricevuto il nome "Imperia"); accanto al "Mulino d'acqua", si può sbarcare in più punti sugli scogli, solo che è difficile - se non si sa scegliere il passaggio giusto - riuscire ad arrampicarsi su per la costa ripida, alta fino a venti metri. Su queste superfici, rocciose e scivolose, si deve attendere, sotto le intemperie e al freddo, l'arrivo dei soccorritori - il cui dovere è poi quello di rimandarti indietro da dove sei venuto. Nelle vicinanze c'è Frassinato, con le sue spiagge di ciottoli massicci, alle quali ci si può avvicinare più facilmente. Non sappiamo quanti siano stati qui - se non li hanno dilatati ed esagerati i mezzi di comunicazione – i casi in cui qualcuno da bordo ha osato gettare in mare i bambini per impietosire i custodi. Guardando queste madri che si stringono al petto i loro bambini, sono convinto che si è trattato solo di patologiche eccezioni, che spesso accompagnano le tragedie. (Gente informata mi ha detto che in quei casi c'è di mezzo, con ogni probabilità, anche il commercio dei bambini - quelli che li buttano in acqua non sono i loro genitori.) Vicino alle antiche paludi ora prosciugate, che portano il vecchio nome greco di Alimini, c'è una spiaggia larga, a occhio si direbbe di sette-otto chilometri. Sabbiosa e di basso fondale – la nave deve fermarsi lontano dalla riva, bisogna scendere e portare in braccio i bambini e i fagotti. Se le onde sono forti spingono il corpo in avanti o indietro. Tutt'attorno incrociano le pattuglie marittime...(Il naviglio da guerra era già nelle acque dell'Adriatico, ma non si faceva vedere. Avevamo ancora la speranza di evitare questa guerra , e di vedere il frutto delle trattative).

Prima di partire avevo sentito tante altre cose che non riuscivo a vedere. I battelli con cui si attraversava il canale (motoscafi, gommoni) venivano spesso sottratti ai proprietari stranieri e venduti a basso prezzo ai "commercianti locali “, che a loro volta li rivendevano agli Albanesi. E' roba che del resto viene prodotta in Italia. Le barche le guidavano talvolta gli stessi Italiani. Sono visti persino i timonieri minorenni, d’origine albanese, che secondo la legge italiana non possono essere condannati. Al lavoro hanno partecipato finora "partners" di varia provenienza - e veniva trasportata, oltre ai viaggiatori, anche "merce speciale" (droga, armi, sigarette, e così via). Ne hanno già scritto gli altri, non è per questo che ero venuto qui. Questa è una terra dove, passata l'estate e le vacanze, per quasi otto mesi molti restano senza lavoro. La Puglia non può sostituirsi all'Italia, l'Italia non può da sola compiere gli oblighi dell’Europa, l'Europa è quella che è. Qui si è fatto un "buco dell'Europa", attraverso cui cerca di passare chi ci riesce, tentando di proseguire . E più lontano da qui, le strade continuano ad intrecciarsi in vari modi - aprendosi e chiudendosi.
Ho incontrato, nonostante tutto, in questa terra come nelle altre, uomini e donne che vogliono e cercano di aiutare gli infelici che hanno dovuto sopportare e che ancora subiscono la tragedia dell'ex Jugoslavia. Essi continuano a guardare questo paese vicino nel suo insieme, benché non sia più possibile ricomporne le parti che lo costituivano. Si meravigliano talvolta se io, che continuo ad avere lo stesso rapporto fraterno che avevo anche prima di questa guerra con tutti quelli che in esso vivevano, non riesco a vedere la possibilità di uno Stato unitario. "Ma forse tuttavia, un giorno", dice un caro amico. Per questa e per la generazione seguente non vedo possibilità del genere. E le generazioni che verranno dopo di noi decideranno da sole - non abbiamo il diritto di decidere per loro.
"Ma forse tuttavia"... Nel paese dove vivo oggi, ho conosciuto in effetti due Italie: una ufficiale e burocratica, pigra e guardinga; l'altra amichevole e affettuosa, mediterranea, capace di entusiasmare, talvolta anche di deludere. Da nessun'altra parte del mondo sono venute tante associazioni umanitarie, gruppi di volontariato, ad aiutare e sostenere le vittime, senza guardare alla loro nazionalità o religione, quante invece ne sono giunte da qui - da queste sponde vicine.
Torno via Brindisi con uno degli ultimi voli prima della chiusura delle linee aeree adriatiche, "a causa delle operazioni militari", come verrà detto nel comunicato. Si vedono ancora le colonne che indicavano il termine dell’antica Via Appia - qui si scaricava e si proseguiva il viaggio via mare verso la sponda opposta. Da dove la Via Egnatia apriva il cammino verso i Balcani e la Grecia, una volta molto più ricca spiritualmente di Roma. E i Balcani erano la culla dell'Europa: faccio fatica a immaginare l’Unione Europea senza questa culla. Non mi vergogno di essere balcanico e mi piace provocare, sottolineandolo, i miei connazionali: i nazionalisti feroci che sottovalutano la nostra appartenenza ai Balcani.

Non ero ancora riuscito a sistemare questi appunti al momento in cui sono cominciate a cadere le bombe sulla Serbia, il Kosovo, il Montenegro – su quello che è rimasto della Jugoslavia e che ne ha conserva solo il nome. Sono sempre stato e sono rimasto contrario ai bombardamenti dei luoghi vicino ai quali vive la gente comune, che non ha colpe per ciò che commettono i suoi governanti. Ho scritto con urgenza e pubblicato su un giornale romano un testo dal titolo "ELIMINARE IL SATRAPO, RISPARMIARE IL POPOLO" (“Messaggero”, 26.III.1999). Non ho cessato di avere un rapporto di fraternità con il popolo serbo, nonostante tutto ciò che è accaduto fra noi nel corso di questi anni. Disprezzo coloro che, in Croazia o altrove, si rallegreranno del fatto che esso sia colpito. E' miserabile il patriottismo privo di umanità, la fede che non conosce la pietas. Vado a parlare in televisione e alla radio, commento, spiego, annoto, condanno o difendo, scrivo queste righe - che altro potrei fare?
Guardiamo le immagini. Uomini, donne e bambini che fuggono in massa. Li chiamano profughi, rifugiati, deportati, spostati, esiliati, clandestini, emigrati, fuggiaschi ecc. – sono tanti nomi, vecchi e nuovi, per esprimere la posizione o il destino. Si parla dei numeri dell'esodo e si ragiona di alcune centinaia di migliaia di Albanesi del Kosovo. E l'esercito di Milosevic gli spara addosso. Cercano di raggiungere la costa adriatica. Camminano in gruppi, per monti ancora coperti di neve, aiutano i vecchi e i bambini a sopportare la fatica. La Macedonia ha aperto i confini per ricevere un numero determinatodi Kosovari, poi li ha di nuovo chiusi : si teme li’ un “squilibrio etnico”. Le navi militari che incrociano nell'Adriatico creano un'ulteriore difficoltà al passaggio. In queste notti ne sono traversati pochi da una sponda all'altra, molto meno di prima. A Valona e a Durazzo, lungo tutta la costa albanese, si raccolgono ogni ora migliaia di quelli che finalmente raggiungono la costa. L'Italia cerca un aiuto dall'Europa per riceverli e curarsi di loro. Sentiamo finalmente alcune voci ragionevoli: trasportiamoli con le nostre navi, impediamo gli sporchi affari dei contrabbandieri, risparmiamo i rischi alla poeragente.
Alla televisione mi hanno fatto sentire, per commentarlo, il discorso di Milosevic alla nazione serba. Cosa non hanno dovuto ascoltare e sopportare queste nostre nazioni dell’ex-Jugoslavia! Mi tornano dei ricordi, già trasformati in memoria. Nel 1990, un anno prima dell'inizio della guerra e dell'attacco a Vukovar, avevo scritto e pubblicato una lettera aperta al satrapo concludendola con una proposta: le dimissioni possono ancora salvargli la faccia, "domani potrà farlo solo il suicidio" ("BORBA - LOTTA", 8.IX.1990). Neppure il suicidio sarebbe più sufficiente, aggiunsi in un libro che non poté uscire nel mio ex-paese.
Uno in queste circostanze cerca di interrogare se stesso. Quel che ha fatto, se poteva fare di più. Si può sempre fare di più. Dopo la prima protesta degli studenti a Pristina nel 1981, quando si sentirono smodate accuse rivolte a tutti gli intellettuali del Kosovo, ho cercato di mettere in guardia sulle possibili conseguenze. Pubblicai una lettera aperta, sul giornale "POLITIKA" : chiesi che gli Albanesi della Jugoslavia restassero "partecipi a pari diritto", che anche ad essi "venissero applicati i criteri che avevamo creato unitariamente... L'opzione verso questi criteri li associa a noi, forse più di qualsiasi altra cosa ... Bisogna conservare il senno e pensare a quel che viene, e che durerà" (Belgrado, 25.VII.1981).
Dal comizio miloseviciano del Gazimestan in poi, "i criteri" diventavano sempre più unilaterali e insopportabili. Il "senno" venne soffocato dalla passione. La ragione indietreggiò di fronte all'irrazionalità. Dall'esiguo numero di possibilità che le cose volgessero al meglio, il “senno politico” del celebrato capo scelse le peggiori.
Ho letto una toccante confessione del poeta serbo Ljubomir Simovi_, di cui apprezzo l'opera pur ritenendo l'autore troppo nazionalmente orientato. La cito a memoria: non c'è fra noi uomo che possa “essere interlocutore” in un vero dialogo con i Kosovari di nazionalità albanese. Il potere ha reso impossibile la comparsa di un uomo del genere, gli ha impedito di trovare il modo di esprimersi. I Kosovari avevano finora Ibrahim Rugova, accusato da loro stessi di esser troppo pacifista.
Le navi continueranno ancora a traversare il canale di Otranto. Non dimentico neppure i duecentomila Serbi che sconteranno per ciò che da soli non volevano che capitasse. Ci sono scontri che cominciano in continuazione e si concludono senza una vera vittoria o una vera sconfitta. Essi durano nella memoria. Le persecuzioni e le bombe li possono solo aizzare.
Di "senno politico" ne è mancato anche da parte croata, e non solo nei confronti della Bosnia ed Erzegovina. L'uomo che si vantava che la sua moglie non fosse “né Serba, né Ebrea" (4), ha rimosso e allontanato da sé chiunque potesse anche solo concepire l'idea di un dialogo sincero con le centinaia di migliaia di Serbi che da secoli vivevano con noi in Croazia. Egli non ritiene di soddisfare le esigenze di quella stessa Europa di cui considera che siamo parte integrante ( il suo"antemurale"), la quale chiede alla Croazia di consentire in maniera civile il ritorno dei suoi ex-abitanti, con i quali dividiamo origine, lingua e storia. Anche qui non riusciamo a vedere nessun interlocutore, credibile e accettabile dall’altra parte, neppure fra gli ex-compagni che fino a ieri giuravano sulla "fratellanza e l'unità" o i cristiani che predicano “l’amore verso il prossimo".
Nel fratempo, continua a scorrere la fiumana dei profughi. E in fase di piena, senza un vero sbocco. E noi non siamo riusciti ad abbattere i satrapi e il loro entourage che ne sono responsabili. E non possiamo fermare le bombe che cadono non soltanto sugli obiettivi militari, ma anche sulle città e sui loro abitanti, a Belgrado, a Pristina e nel Montenegro. E non abbiamo il coraggio di riconoscere la nostra impotenza. E non basta più accusare l’inettitudine di coloro che gestiscono il monismo arrogante del “nuovo ordine mondiale” che vorebbe sostituire l’insupportabile manicheismo del mondo di ieri.
Nei Balcani e nello spazio che è opportuno chiamare "parabalcanico", la parola dialogo ha perso significato. Sulle facciate delle nostre case sventoleranno a lungo le bandiere abbrunate. Molti se ne andranno, e pochi torneranno dietro.
E' difficile tornare sul luogo di tanti stermini.


Note:
l) Località dell’Erzegovina, non lontana da Mostar (N.d.t.).
2) Nome dell’operazione militare compiuta nel 1995, con cui è stato ripulito etnicamente il territorio della Krajina in Croazia (N.d.T.).
3) Il riferimento è all’imponente manifestazione di stampo nazionalista indetta nel 1989 da Slobodan Milosevic, in occasione dell’anniversario della battaglia di Kosovo Polje ( 15. VI. 1389), svoltasi appunto nella località che fu teatro dello scontro fra Serbi e Turchi ( N.d.t.).
4) Frammento di una dichiarazione di Franjo Tudjman,fatta durante un comizio della HDZ - Comunità democratica croata ( N.d.t.).

(Traduzione e note di Silvio Ferrari)