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Reale come favola
Incontri con Ravenna
di Predrag Matvejevic

Ho raggiunto per la prima volta la città dal mare, attraverso il canale. Ravenna è "una città del silenzio", non so più dove l'ho sentito dire, forse l'ho letto in una raccolta di d'Annunzio. In effetti mi è sembrata più silenziosa della gran parte delle città italiane. Ho cercato di capirne la ragione. Non sarà forse perchè si &eàgrave; staccata dal mare? (M'interessavano particolarmente in quel momento le città che una volta stavano sul mare e ora non c'erano più.) Il cronista bizantino Procopio riferisce che il mare distava dalle mura di Ravenna solo "due stadii". Sette secoli più tardi, Boccaccio scrive che la città si trova "a due miglia" dalla costa. Ora, è già a dodici chilometri, forse persino tredici.Il grande ramo del Po - che si chiamava il Padusa o flumen Padenna - ha accumulato in mare il suo alluvio - fango, terra, sabbia. Ravenna ha avuto un destino simile a quello di Adria, di Spina, delle Valli di Comacchio. Si tratta di un lavoro che non avrebbero potuto compiere da soli gli esigui torrenti della Romagna. Il Montone e il Ronco allagavano di tanto in tanto le mura, prima che i prudenti ravennati non ne deviassero il corso. Il Santerno, il Serio e il Lamone che scorrono nei dintorni portano con sé troppo pochi detriti. Mi ero preparato all'incontro con Ravenna. Avevo osservato le immagini dei suoi mosaici, ricordavo i titoli delle basiliche, imparavo i nomi dei sovrani. Ero giovane e desideroso di sapere, quando ci sono arrivato per la prima volta. A molte questioni non riuscivo a trovare la risposta. (Del resto, a talune di esse neppure gli abitanti che ne sapevano di più sono stati in grado di rispondere). In che punto si trovava l'enorme faro che aveva visto Plinio (XXXI, 83)? è rimasta o no nella chiesa di Santa Maria in Porto Fuori una parte delle sue fondamenta, come presupponeva il mio maestro padre Coronelli, cartografo dei gloriosi tempi veneziani? Quali sono i sette mari ("septem maria") menzionati nell'"Itinerarium Antonini"? Dove passava la Via Faventina, e in quale punto s'incrociava con la Via Emilia? E la Via Popilia portava veramente ad Adria? Com'è che Classis è diventata il porto della flotta militare romana, in grado di misurarsi con quello di Miseno dalla parte opposta degli Appennini? In che modo erano collegate Classis e Cesarea da unificarsi poi con la stessa Ravenna? Cosa riuscì a trasferire Venezia in questa città (ho attraversato in fretta la sua piazza principale) durante il periodo in cui vi esercitò il suo potere? E quanto di tutto ciò è rimasto? Chi ha distrutto l'acquedotto Traiano che raccoglieva la limpida e fredda acqua del Ronco? Sul rilievo della colonna Traiana è incisa una barca, all'aspetto di tipo liburnico, sulla quale l'imperatore romano salpa appunto da Ravenna, cioè da uno dei suoi porti (scene LXXIX e LXXX). Non sappiamo dove sia sbarcato sull'altra sponda dell'Adriatico, diretto verso il Danubio e la Dacia, alla conquista dell'entroterra balcanico. Un mito di quella terra, forse per vendetta, attribuisce allo zar Traiano orecchie di capra. Chi naviga non riesce a visitare i monumenti.

A Ravenna ce ne sono tanti - pagani, paleocristiani, cristiani e altri ancora. Al tempo dei Romani fecero qui la loro comparsa i culti d'oriente, soprattutto quelli di Mitra e di Ario. (Sono entrato nel Battistero degli Ariani, restando sorpreso). Cosa ne rimane? Un particolare rapporto nei confronti dell'Oriente? Il silenzio? Bisanzio nel passato di Ravenna era più presente di Roma. I templi e i monumenti ne sono testimoni: Galla Placidia, San Vitale, San Severo, Sant'Apollinare in Classe, Sant'Apollinare Nuovo... Non sono riuscito a vederli come si conviene (i mosaici di Via d'Azeglio non erano ancora stati scoperti). È come se qui non ci fosse stato scontro fra impero d'oriente e d'occidente, cioè a dire fra chiesa ortodossa e cattolica, come se non ci fosse stato lo scisma cristiano. Lo stacco era diverso. Chi arriva dalla sponda balcanica, soprattutto al crepuscolo quando l'oro dei mosaici splende ancora di più, non riesce a crederci. Ravenna - capitale dell'"Italia bizantina"... Quando perdette potere e importanza, la Romagna rimase vedova. Forse è per questo che la città diventò più silenziosa delle altre.(Stavano già tirando su l'ancora quando giunsi all'"Hydra". Dovrò tornare in questa città). Il mio secondo incontro con Ravenna fu del tutto diverso.
Non avevo fretta di andare altrove, non mi stava aspettando nessuno. Compresi che, durante la mia prima visita, le questioni attinenti le foci dei fiumi mi occupavano più della città stessa. Non avevo visto Ravenna. Incontrai inaspettatamente il poeta russo Josif Brodskij. Egli aveva già pubblicato il suo "Fuga da Bisanzio", stava scrivendo un libro su Venezia: "Fondamenta degli Incurabili". "Viaggiare sull'acqua, persino quando si arriva con una piccola barca, e non si va lontano, ha sempre qualcosa di primordiale", mi ripeté diverse volte (l'ha scritto anche nel suo libro). Gli interessava questa continuazione di Bisanzio fuori della stessa Bisanzio. E anche a me. Ci conoscevamo da tempo. C'eravamo incontrati la prima volta in America Latina, a qualche riunione di scrittori. Quando venne espulso dall'Unione Sovietica con l'accusa di essere un teppista, scrissi una lettera a Breznev pregandolo di non cacciarlo. Con me Josif non fu cinico, come aveva l'abitudine di essere. Guardammo a lungo le basiliche, ognuno a suo modo, senza disturbarci a vicenda. Nella chiesa di San Vitale restammo due ore intere. Davanti alla tomba di Dante ci mettemmo a discutere di Mandelstam: sapeva poco l'italiano, ma aveva scritto delle straordinarie pagine sull'autore dell'"Inferno"! Parlavamo russo, a momenti con toni troppo forti. La gente si girava a guardarci. "Questa è una città silenziosa", lo ammonii. Andammo verso il canale e il porto, raggiungendo la Pineta che era venuta su proprio sul terreno depositato dal fiume, giungendo finalmente alla riva del mare. Le alghe richiamarono a Josif il suo "cantuccio di Baltico, attraverso il quale poteva introdursi a malapena l'anguilla". Alghe pronunciava compiaciuto il termine russo vodorosli.
Gli venne in mente una poesia di Umberto Saba che aveva tentato una volta di tradurre in russo: "In fondo all'Adriatico selvaggio"...Cosa c'è di "selvaggio" sull'Adriatico? La domanda mi sorprese. Forse, in primo luogo, il suo entroterra. Non riesce ad adattarsi al mare, non gli si accosta, gli volta le spalle. Le rive adriatiche, dall'una come dall'altra parte, forse tranne che a Venezia, finchè essa fu indipendente, non ebbero fortuna nello Stato al quale appartenevano. (Dissi qualcosa di simile, tentando di spiegare...).Sulla sponda orientale dell'Adriatico il sole s'affonda proprio nel mare. Su quella occidentale, scende dietro ai monti. I crepuscoli sono diversi sulle due rive, e anche le ombre lo sono, e neppure all'imbrunire ci sono gli stessi colori. (E forse è per questo che gli italiani hanno creato il termine tramonto e i croati invece la parola suton). Queste immagini provocano varie forme di apparenze, dall'una come dall'altra parte.Tornammo in città proprio quando il sole stava tramontando. Convinsi senza molti sforzi il mio compagno di viaggio a visitare il tempio di Galla Placidia. Lo chiamano mausoleo, ma in realtà sono i resti di una chiesa, un ex voto che la reggente bizantina fece erigere in segno di gratitudine al Signore che aveva salvato lei e i suoi figli da un naufragio in Adriatico, durante la navigazione da Costantinopoli a Ravenna. Tutta l'ampiezza della finestra, invece di una vetrata, è coperta da una lastra trasparente di alabastro. La luce che vi filtra è densa e insolita (soprattutto al crepuscolo), e cade sui sarcofagi, sulle figure dei mosaici, sui visi degli apostoli, sulle foglie di acanto, di alloro, di vite. Mi aspettavo che da un momento all'altro un coro nascosto nella navata della chiesetta, intonasse l'antica liturgia che mio padre aveva imparato e portato da Odessa, e che da lui avevo sentito nella mia infanzia.Al cospetto di quella scena, l'intolleranza latino-bizantina, o meglio cattolico-ortodossa dei Balcani, mi appariva peccaminosa e insensata. La ferita dell'Europa, la frattura del Mediterraneo, la crepa del cristianesimo nella quale si è inserito l'Islam: non volevo parlarne in questa circostanza. (Non era ancora cominciata la guerra in Jugoslavia. Ero convinto, nonostante tutto, che non ci saremmo arrivati. Ravenna mi infondeva una sorta di fiducia). Brodskij il giorno dopo tornò a Venezia, a scrivere il suo libro. Dovevamo vederci ancora una volta in Francia, un anno dopo. Ci ricordammo entrambi dell'incontro a Ravenna. Eravamo circondati da gente noiosa e non riuscivamo a conversare. (Queste righe le ho annotate dopo aver ricevuto la notizia della sua morte. Non me la sono sentita di scrivere il necrologio di Josif Brodskij. Al defunto non piacevano). La terza volta sono arrivato a Ravenna da Bari. Era autunno inoltrato quando approdai nel porto. Il mare era impraticabile, mi diressi alla volta di Barletta via terra. In quella cittadina è stata costruita una necropoli dedicata ai partigiani che avevano tentato di salvarsi passando dalle sponde della Dalmazia a quelle italiane. Molti erano stati feriti, alcuni si erano ammalati di tifo. Non erano tutti partigiani, c'erano giovanotti e ragazze le cui famiglie avevano cercato di metterli al riparo; c'erano anche degli italiani che volevano tornare ai loro casolari; e degli ebrei che erano riusciti a nascondersi. (Dopo la capitolazione dell'Italia le SS e gli Ustascia erano tornati sulle coste dalmate).Ci si metteva in mare di notte su vecchi trabaccoli che diventavano facilmente preda delle navi di sorveglianza. Li affondarono uno dopo l'altro, e tuttavia alcuni - due o tre trabaccoli su dieci - riuscirono ad arrivare sulla sponda italiana già liberata. Centinaia di questi viaggiatori ammalati, forse anche un migliaio o più, sopravvissero. Una parte invece morì negli ospedali dell'armata alleata. Guardavano rivolti da Bari verso Spalato e Sebenico, Curzola, Brazza e Lesina, verso il mare e la loro terra. La speranza di tornare si spegneva insieme ai loro sguardi, nei crepuscoli. Dopo la guerra, venne eretta in loro onore a Barletta un'enorme necropoli, una monumentale tomba comune in forma di nave, scolpita nella pietra proveniente dall'isola di Brazza. All'ingresso ci sono lastre di rame con l'elenco di quelli che erano stati riconosciuti dopo la morte. Non tutti. Accanto a numerosi nomi croati, dalmati - Ive, Frane, Sime, Tonci, Jure, Mate e altri ancora - si trovano altresì i soprannomi dati a quelli sconosciuti: "una compagna della Vojvodina", "un compagno del Montenegro", "un bosniaco dei nostri". La guerra era tornata ad infuriare nel mio paese, quando sono giunto qui.
Non c'erano state energie né volontà capaci di impedire a popoli dall'origine comune e dai linguaggi affini, di scagliarsi gli uni contro gli altri, e persino contro se stessi. Lo Stato che li aveva tenuti insieme si era disfatto: nessuno sembrava avere più a cuore, soprattutto fra i capi dei belligeranti, il ricordo di quelli che avevano lottato per costruirlo. La necropoli partigiana è rimasta deserta e abbandonata, coperta di foglie secche e di corone ormai marcite, nonchè della cera delle candele consumate. Nel vicino cimitero m'imbattei in una vecchia i cui occhi erano rimasti giovani. Cominciammo una breve conversazione. Veniva spesso lì fra gli ulivi e i trulli vicino al mare, guardava le navi e i gabbiani, pregava. Durante la guerra aveva perso il marito. Era un marinaio. Si chiamava Rocco, nativo della Puglia. Era caduto da partigiano, nella battaglia per liberare Ravenna, nell'autunno del 1944. La pregai di trovare qualcuno che potesse ripulire e tenere in ordine la necropoli. Le lasciai tutto quello che avevo con me e promisi di mandarle quanto sarebbe stato necessario. L'anno dopo ci trovammo a Ravenna accanto al monumento ai caduti in guerra, sul quale era scolpito anche il nome di suo marito. "Il vostro cimitero adesso è pulito", mi disse con orgoglio.
Ci recammo insieme nella chiesa di San Severo. Lei cominciò a pregare; io le stavo accanto, in raccoglimento. Si chiamava Angelina, nativa degli Abruzzi. A Ravenna ho cominciato a guardare l'Italia in un altro modo. è breve la distanza fra le due sponde dell'Adriatico, quella orientale e quella occidentale.

Ecos n. 5 - 1996