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Rimini, Fellini di Predrag Matvejevic'

[Un testo inedito che farà parte del libro sull'Adriatico]

Sul lungo molo, rinforzato da massicciate di pietra, si leva la Torre del Faro. La si vede da lontano, dal mare aperto e da terra. Si trova all'ingresso del porto di Rimini - nel canale dove scorreva la Marecchia. Il fiume ha cambiato il suo corso e ha trovato una nuova foce. Gli abitanti ne hanno allargato e scavato l'alveo trasformandolo in un approdo. Diversi porti sono nati così su questa costa, dritta e piatta.
I moli nel canale sono in parte di mattoni, in parte di pietra: sopra c'è una fila di bitte, a cui sono attaccate funi di bordo, catene, attrezzi, ancore. In alcune ore del giorno e in certe stagioni dell'anno, puoi trovare due o anche tre barche una affiancata all'altra, o sulla destra o sulla sinistra. E il passaggio in mezzo diventa stretto. Gli equipaggi devono mettersi d'accordo fra loro o con la Capitaneria di Porto per poter entrare o uscire, e per darsi la precedenza. Le navi di maggiori dimensioni accostano ad una parte del molo che si spinge verso il mare più profondo. Le più piccole, invece, entrano nel canale fino al ponte romano, fatto erigere dall'imperatore Tiberio: le sue cinque campate poggiano su basamenti di pietra bianca d'Istria, dalle cave di Canfanar. I vecchi trabaccoli con le murate corrose dalla ruggine e la coperta ormai fradicia, trovano qui riparo dal maltempo e dalle intemperie. Di notte escono per pescare, tranne quando soffiano i venti freddi e forti. Tornano poi di prima mattina, insieme col sole che su questa sponda esce dal mare, e con i gabbiani che li incrociano. Come sulla riva orientale, anche qui soffiano le forti bore e gli scirocchi. I pescatori sostengono che il monte Titano, che si trova a occidente, li protegge dalla tramontana.
Ma il canale, come s'è: già detto, è stretto e scomodo, d'inverno come d'estate. E soprattutto d'estate.
La città di Rimini è vecchia e nuova al tempo stesso. La storia ha contrassegnato la sua parte anziana, la moderna sembra essere senza storia. Dall'entrata della pianura padana passavano cinque strade consolari. Presso l'arco di Augusto termina la Via Flaminia, comincia la Via Emilia. Accanto alle mura romane ci sono quelle malatestiane; non lontano dalle rovine dell'antico anfiteatro sono state innalzate le costruzioni rinascimentali; accanto ad esse la fontana e la vecchia pescheria.
(Chi prende il largo verso il mare aperto si ricorderà a lungo della cappella che si trova nel tempio Malatestiano chiamata Madonna dell'Acqua, di San Girolamo che prega in un deserto simile alla vastità del mare, nel castello di Sigismondo).
La parte nuova della città - la marina - è molto più grande di quella vecchia. Se ne stacca e sembra non tenere a quel contatto. La ferrovia adriatica, che passa di là, non fa che confermare questa separazione. La riva si trasforma in riviera, prolungandosi verso nord e verso sud, collegandosi con la più grande spiaggia di sabbia dell'Adriatico e forse dell'intera costa settentrionale del Mediterraneo.
"Francesca da Rimini", gli ospiti che passeggiano per il lido (la marina qualche volta viene chiamata anche così), in direzione del molo e del Faro, pronunciano il suo nome con un accento straniero. Ma lei qui non c'è stata e non ci sarà mai.
Alla città basta uno stretto canale, alla marina invece serve il mare aperto. "Questa è la città del doppio", così scrivono di Rimini, ragionando della sua "dicotomia, eterogeneità ed eterotipia", "della disarmonia e dell'incoerenza" delle sue componenti, dell'eclettica architettura in cui ogni parte è incompiuta o distrutta per la presenza stessa dell'altra parte: "le città nella città". Da un canto prevale l'eccezionalità del passato, dall'altro la mediocrità del presente. Il romagnese e il riminese si compenetrano e si respingono al tempo stesso, qui in maggiore e là in minore misura. L'egemonia della città vecchia sulla nuova si può riconoscere, ma non altrettanto realizzare.
Chi soggiorna a lungo nel porto sentirà, oltre a tante altre cose, la leggenda dell'incomparabile teatro all'italiana, costruito nel secolo scorso, di dimensioni forse superiori a quelle della "Scala" e della "Fenice": le sue misure non corrispondevano ne alla destinazione ne alle esigenze della città; venne abbandonato prima di andare in rovina, sostituito dal più modesto e adeguato teatro "Politeama". Nel destino e nell'immaginario della città s'intreccia anche la costruzione del Grand Hôtel, che ha contrassegnato la belle époque, insieme ad altre costruzioni del genere che sono state realizzate successivamente attorno ad esso.
Questa tendenza al grottesco e all'iperbole non è priva d'ascendente e di significato: a Rimini è nato Federico Fellini. Tornava raramente nella città natale; la casa che, come si suol dire, gli è stata assegnata dal Comune, non gli apparteneva quando era vivo. Che ruolo avranno giocato in tutto questo la divisione e la spaccatura su cui si insiste tanto? A questa domanda non possono rispondere quelli che restano qui poco tempo, con la barca all'ancora in porto, nel suo stretto canale.
Nell'ultima guerra passava proprio accanto a Rimini e tagliava in due la città la "Linea gotica". Fu un gran disastro. Anche questa potrebbe essere una delle ragioni che ne impediscono la sutura. Le vittime che hanno contribuito alla sua liberazione vengono ricordate dalle scritte murate sulla facciata del Municipio esposte nei parchi della Rimembranza. Le immagini autunnali della marina sono nostalgiche: una parte dell'estate resta anche dopo l'estate, si conserva qua e là ma non dura più; tutto è già successo, e bisogna aspettare che forse si ripeta; le spiagge sono deserte, le cabine vuote, i bagnanti lontani. Il sole tramonta prima del tempo. Si sofferma sulla collina di Covignano, che assomiglia agli ondulati e dolci rilievi delle Marche - troppo piccola per mettere al riparo la città. I grandi alberghi gettano le loro ombre, innaturali e bizzarre, più sulla sabbia che sul mare. Fellini se ne ricordava di sicuro.
Non si riesce ad arrivare mai da un capo all'altro della spiaggia - che si stende in una direzione fino a Cervia, nell'altra fino a Gabicce. La sabbia non è più calda, ma non è ancora fredda. Qua e là è increspata. Di quando in quando ci s'imbatte in qualche piccola duna, non sapresti dire se creata dal vento o dalle onde, o forse persino dai custodi che cercano di proteggere la costa.
Non è facile determinare il colore della sabbia, se sia più giallognolo-grigia o grigio-bruna. Là dove è rimasta umida o ancora bagnata, è più scura, in qualche punto grigio-nera. Il mare vi espelle un mucchio di conchiglie, di tutte le dimensioni, per lo più aperte e secche. Ce ne sono di bianche, di brune, di nere. Alcune sono levigate e raschiate come ciottoli. Altre, benché già vuote, odorano ancora di mare. Qui non ci sono grandi conchiglie, la sabbia fine le rompe e le sbriciola. Qua e là ci s'imbatte in qualche tronco fradicio, una tavola di nave, un ramo, una canna. È difficile resistere alla tentazione di togliersi le scarpe e continuare ad andare scalzo. La sabbia è piacevole, le orme ci si stampano, mentre si continua a camminare a lungo, lontano. Le impronte verranno cancellate da un'onda o dal vento, dopo, quando ce ne andremo. La notte le livellerà. Se tornassimo la mattina dopo non le troveremo più.
Qui il mare è pallido per il suo fondo sabbioso. Qua e là spunta un cespo di erbe sottomarine o di alghe. Solo più lontano si scorge qualche isoletta più scura, là dove comincia la profondità che ha la meglio sulla sabbia. Quando mi dicono che anche qui il mare si guasta, non ci voglio credere. (Che cosa ne avrebbe pensato Fellini...) Viaggiatore, se la tua nave fa sosta in questo luogo, nel angusto porto, cerca sulle rocce e sulle rupi del Titano "l'azzurra vision di San Marino", come si esprime il poeta Pascoli, che è nato da queste parti: vai a vedere la piccola città-repubblica fondata dal leggendario Marin, nativo dell'isola di Arbe (Rab) che di mestiere faceva il tagliapietre. Dall'altro versante vedrai la Romagna, diversa da Rimini ma ad essa somigliante.
Sulla vicina radura di San Leo, c'è una fortezza con una torre dove fu incarcerato e finì i suoi giorni l'irriducibile Cagliostro, isolano di nascita, negromante di carattere, libero muratore di rito egizio. Doveva avvertire certamente la vicinanza del mare e questo gli dava la forza di sfidare e di non pentirsi, la voglia di opporsi e di vivere pericolosamente. "L'azzurra vision", come disse il poeta di questi posti, vi aiuta.

(Traduzione di Silvio Ferrari)