Ritorno al mio paese natale
di Predrag Matvejevic'
Nell'autunno
mi sono diretto alla volta del mio paese natale, pieno di speranze.
Ne sono tornato con i brividi addosso. Sono stato a Mostar e Sarajevo,
in Bosnia Erzegovina. Con me c'erano degli amici: una ventina
di scrittori e giornalisti italiani collegati alla Fondazione
Alberto Moravia, che insieme al "Circolo 99" di Sarajevo
ha organizzato il viaggio.
Eravamo nel
1997: il dopoguerra sembrava altrettanto duro quanto la guerra
stessa.
Ci siamo imbarcati
ad Ancona, abbiamo attraversato l'Adriatico. Da Spalato con un
pullman siamo andati verso Mostar. Erano giorni insolitamente
chiari, come se l'estate li avesse conservati per donarli al primo
autunno. Il mare in questa stagione è maturo, per essere
stato a lungo esposto al sole. Sono passato molte volte per questi
luoghi, mi sembra di conoscere ogni insenatura ai piedi del Mosor
e di Biokov, da Spalato fino a Dubrovnik. Ci siamo fermati a Makarska,
davanti all'immagine del canale di Lesina: mi scopro a contemplare
la lunga punta dell'isola di fronte; il blu molto forte fra le
due rive; vecchie funi sommerse.
Dalmazia.
Perlustriamo
l'estuario della Neretva, i piccoli e grandi rami del fiume dove
ho remato nelle "trupce", le barchette del luogo. Ci
fermiamo dinanzi alle rocce di Pocitelj: paesino musulmano, la
moschea senza minareto, l' "hamam" orientale senza fontana.
All'ingresso c'è un grande crocifisso nuovo, e ce n'è
un altro, più piccolo in cima alla fortezza turca: segni
che questo posto appartiene alla fede cristiana e non a quella
islamica, alla "Herceg-Bosna" e non alla Bosnia Erzegovina.
Incontriamo dei pellegrini venuti per inginocchiarsi davanti alla
Madonna, nel santuario di Medjugorje, vicino a questi luoghi.
Si troverà qualcuno che gli spieghi perché è
stato distrutto il tempio musulmano e chi ha messo quel crocifisso
all'entrata in Pocitelj? E chissà se vogliono sentirselo
dire o possono capirlo. Gli amici con cui viaggio chiedono spiegazioni
e io cerco di dargliele nella forma più semplice, avvertendo
che ogni mia risposta è insufficiente.
Nello spazio
che stiamo attraversando lo scisma ha spaccato l'Europa e il Mediterraneo.
Ha diviso i cristiani ortodossi dai cattolici. In questi luoghi
il cristianesimo e l'islam si sono incontrati e scontrati. La
diversità delle fedi si è andata trasformando in
contrapposizione, la contrapposizione in intolleranza, l'intolleranza
in odio.
E tuttavia
la maggioranza degli abitanti di questo territorio non si odiavano
fra loro. Vivevano e morivano gli uni accanto agli altri, per
lo più in pace e comprensione. Siamo affini per origine,
parliamo la stessa lingua, ci assomigliamo. Questa guerra l'hanno
cominciata i "serbi ortodossi", l'hanno continuata i
"croati cattolici". Metto gli uni e gli altri fra virgolette:
non si tratta infatti né di serbi né di croati e
ancora meno di ortodossi e cattolici.
Essi sono
per me solo fascisti.
Siamo passati
accanto a Zitomislici, dove è bruciato il vecchio monastero
ortodosso. Era sopravvissuto alla prepotenza turca, non a quella
odierna. Non c'è nessuno che sia in grado di dirmi se le
icone contenute nella sua raccolta siano state messe al riparo
prima dell'incendio. Neppure le chiese cattoliche sono state risparmiate.
E le moschee musulmane sono state distrutte dai cristiani dell'una
e dell'altra confessione.
Nei pressi
di Metkovic passiamo il confine e la dogana (che prima in quel
punto non c'era). Entriamo nella Bosnia Erzegovina che è
sotto controllo della Herceg-Bosna. Ci imbattiamo in grandi tabelloni
con le scritte della Comunità democratica croata: "
Restiamo uniti e insieme". Cerco di spiegare ai miei compagni
di viaggio il significato dell'espressione: restiamo "insieme"
nella Croazia, ci stacchiamo dalla Bosnia indipendentemente dal
fatto che anch'essa sia stata riconosciuta dalle Nazioni Unite,
malgrado gli accordi di Dayton che riguardano appunto la sua integrità
e che sono sottoscritti dai rappresentanti di tutte le nazionalità
presenti in questi luoghi. Un giornalista osserva che l'America
non glielo perdonerà. (Qualche giorno più tardi
verremo a sapere che il presidente croato, appunto sotto pressione
americana, ha consegnato al tribunale dell'Aja alcuni combattenti
erzegovini, accusati dei più gravi delitti. I serbi proteggono
ancora i loro criminali di guerra).
L'entrata
a Mostar mi ha scosso. Non ci venivo più da sette anni.
Sapevo che metè della cittè era distrutta, ma non
potevo credere che fosse proprio così. Sollevo da terra
schegge di pietra, sbriciolate e sparpagliate. Tasto muri, crepe
e squarci. Passo le dita su quelle superfici ruvide come fossero
ferite, e non credo ai miei occhi. "Le immagini della realtà
che abbiamo guardato per tanto tempo hanno due dimensioni: la
realtè stessa ne contiene di più. Nei quartieri
più distrutti, sono scomparsi i segni e i connotati dei
luoghi e degli spazi. Dove mi trovo, com'è questo, e qui
prima c'era? Mi tradisce quella topografia interiore che ci formiamo
nell'infanzia, ma forse sono io a tradirla.
O mia città,
sei proprio tu?
C'era gente
di ogni sorta qui come altrove, soprattutto nei dintorni, che
non aveva saputo avvicinarsi alla cittè o per contro la
città non aveva potuto attirare. Ma nonostante tutto non
c'era ragione alcuna perché tutto questo dovesse accadere,
e in questo modo: perché si distruggessero case, i templi,
i ponti, il Vecchio ponte sulla Neretva.
Ogni spiegazione
mi appare sconveniente.
La guerra
non ha bisogno di moventi particolari per cominciare e per giustificarsi
(per tentare di giustificare). Ad un certo punto si nutre della
propria insensatezza e malvagitè. Le conseguenze diventano
nuove motivazioni, e queste provocano a loro volta nuove conseguenze:
il male si rafforza e si conferma col male. Un'alternanza di tale
genere non si può arrestare. Simili guerre durano anche
dopo che sono state deposte le armi.
E tanto più
a lungo quanto più sono insensate e malvage.
La sponda
sinistra della Neretva e la breve fascia che si estende su quella
destra sono distrutte, appare evidente, con feroce decisione.
Nessuno dei miei compagni, e neppure io del resto, desidera mettere
piede sull'altra riva, dove continuano a comandare quelli che
sono colpevoli di quanto è accaduto: quelli che insistono
nel far penetrare la paura nelle ossa dei cittadini, cacciano
di casa "quelli delle altre fedi", si salutano ostentamente
alzando il braccio, alla maniera "ustasa". I primitivi
pensano di solito che queste cose "non si verranno a sapere
nel mondo". Non andremo sulla loro riva.
A Vukovar
o a Srebrenica, ci comporteremmo allo stesso modo: non tenderemmo
la mano ai "cetnici".
Lo so bene
che anche nella parte occidentale di Mostar ci sono state vittime
innocenti fra i croati, specialmente all'inizio della guerra.
(Ce ne sono state nella mia famiglia). E' stata distrutta la chiesa
cattolica con il monastero francescano, dove ho pregato devotamente
da bambino. Ma nella parte orientale è tutta una rovina.
Là tutti sono vittime.
Sulle pendici
del Podvelezjc sovrastava la città la bella chiesa ortodossa.
Esprimeva una specie di elevazione dell'animo, di fede e di fiducia
fra noi. Non ne è rimasta neppure una pietra. Non so quante
moschee siano state rase al suolo. Il monumento al più
grande poeta nato sotto questo cielo: il serbo Aleksa Santic che
amava segretamente una bella croata e cantava la musulmana Emina,
"figlia di imam", è stato abbattuto e calpestato,
è stato abbattuto e calpestato.
Anche la tomba
ne hanno profanato.
Da Mostar
è andata via tanta gente, vecchi e giovani. Sono rimasti
quelli che non avevano dove andare. Fra le rovine, la maggior
parte di essi ha perduto ogni fiducia negli altri, talvolta anche
in se stessa. Non c'è più nessuna sicurezza: quel
che si rinnova oggi si può distruggere di nuovo domani.
In città ci sono ancora pittori, attori e poeti, ma non
c'è un'intellighenzia che possa riflettere. Non ce n'era
tanta neppure prima. Non ce n'è neppure dall'altra parte,
quella che non è andata distrutta.
Nel "Teatro
dei burattini" che è stato rimesso a posto sulla sponda
sinistra della Neretva con l'aiuto dei fondi internazionali, ci
incontriamo con quel che resta del pubblico. Gente allarmata e
al tempo stesso rassegnata. Non sanno quel che si aspettano da
noi, ma gli fa piacere che siamo venuti da loro. La maggioranza
dei presenti sembrano stanchi, nervosi. I vecchi muoio uno dopo
l'altro, i giovani sono invecchiati. Quelli che ci stanno davanti
tentano di dire qualcosa, ma non riescono ad esprimersi. Parliamo
noi che siamo invece venuti per ascoltarli, più di quanto
non facciano loro che ci aspettavano. Hanno tirato fuori un pianoforte
salvato dalle granate e mi ci hanno fatto sedere davanti. Ho improvvisato
alcune variazioni sul tema "Emina", canzone di tutti
i mostarini: nella sala si fa sentire una fragile voce di donna.
Canta questa voce vicina. Intorno cominciano a spuntare le lacrime.
"E la mia ragione si perse nella nebbia"... (è
un verso della canzone, scritta proprio da Santic).
Abbiamo concluso
la serata in bellezza.
Due amici
croati, esponendosi al rischio, hanno attraversato il fiume desiderando
incontrarmi. È mancato poco che mi mettessi a piangere
quando li ho visti, dopo sette anni di assenza. Sono cambiati,
ma sono rimasti gli stessi. Non ne riporto i nomi per non nuocergli.
Anch'essi si vergognano di ciò che è stato fatto
ai musulmani della nostra terra, hanno parole di rimpianto per
quei serbi di Mostar ai quali volevamo tutti bene. Solo gente
così può salvare Mostar. Non so quanti ce ne siano,
ma so che mi sono vicini.
È che
anch'io sono uno di loro.
....(segue)
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