I talebani cristiani
Predrag Matvejevic
Con una comitiva
delle rete televisiva franco-tedesca "Arte", che ha
realizzato una trasmissione dedicata ai Balcani, sono arrivato
recentemente a Mostar. Due settimane dopo ho raggiunto Sarajevo,
dove il "Centar André Malraux", francese, ha
organizzato un incontro di scrittori europei. Noi, nati in quel
paese, possiamo fare ben poco da soli: ci siamo accapigliati,
inimicati, divisi, riducendoci alla miseria. Nel mio diario le
impressioni riportate nei due viaggi si intrecciano e si accavallano.
La prima volta sono arrivato dall'Italia via mare, col traghetto
Ancona-Spalato, proseguendo lungo la valle del fiume Neretva fino
a Mostar. La seconda volta sono arrivato a Sarajevo passando per
Vienna. E da Sarajevo, in compagnia di un centinaio fra scrittori
e giornalisti, mi sono avviato verso la mia citta’ natale
- Mostar. Abbiamo viaggiato in un treno che, dopo l'ultima guerra,
fa raramente la spola su quella linea ferroviaria. Una volta i
vagoni, passeggeri e merci, passavano ogni giorno, e più
volte al giorno.
Da studente, lavorai alla costruzione del tratto di strada ferrata
fra Konjic e Jablanica con le brigate giovanili. Si chiamavano
"azioni di lavoro volontario". Il nostro accampamento
si trovava nei pressi di Ostrozac. Si andava al lavoro prima che
il sole riscaldasse fino all'arsura la terra e l'aria; dopo mezzogiorno
facevamo il bagno nei rami del fiume Neretva. Ricordo gli strani,
fiabeschi colori dell'alba, il biancore della pietra che emergeva
dalla notte, i cespugli bagnati di rugiada, le limpide acque del
fiume, i suoi vortici, le sue sponde, le rocce carsiche dell'Erzegovina.
A incoraggiarci era il sole che si levava, la luce si spandeva.
"Costruiremo il nostro paese più bello di prima",
dicevamo. Era il nostro sogno. Molti di noi credevano nella propria
fantasia. Io compreso. Invidiavo i miei compagni più forti
che erano in grado di lavorare di più e di fare meglio:
quella ferrovia collegava la Bosnia all'Erzegovina, univa la Jugoslavia.
Ricordo uno dei primi film jugoslavi, "Il treno senza orario":
raccontava la storia delle migrazioni della nostra gente che,
nell'immediato dopoguerra, si spostava dalle regioni più
povere del paese per stabilirsi in quelle più ricche, viaggiando
su “treni senza orari” - treni merci che andavano
dal Sud al Nord del paese, dal Montenegro e dall'Erzegovina fino
alla pianeggiante Vojvodina. Quest'autunno, alla stazione di Sarajevo,
distrutta durante la guerra ed ora in gran parte ricostruita,
ci siamo imbarcati su uno di quei treni. Ho provato una grande
tristezza: tutto intorno a me ricordava la guerra recente. Lungo
il viaggio l’angoscia mi abbandonava e riconquistava a intervalli.
Mostar è ancora divisa a metà, anche se adesso è
più facile passare dall'una all'altra parte del fiume Neretva,
dai quartieri in cui Croati e cattolici sono la maggioranza, ai
quartieri nei quali furono ricacciati e si sono affollati i mostarini
di origine musulmana. Il fiume scorre nel mezzo, ma il confine
non segue il corso del fiume. Grazie agli aiuti dall'estero, sono
stati ricostruiti alcuni ponti. Lo Stari Most, l'antico ponte,
simbolo della città alla quale ha dato il nome, è
completamente distrutto. Siamo andati a vederlo dapprima di notte,
sotto la pioggia illuminata da lampioni ammiccanti. Lo sostituisce
una passerella in legno simile a una palàncola gettata
sopra un grosso ruscello. Nell' oscurità le torri laterali
somigliano a fantasmi di un racconto a cui manca la fine. In prossimità
delle torri sono addossati negozietti e bugigattoli di artigiani,
per lo più orefici, e tessitori di tappeti. Questo quartiere
cittadino, chiamato alla turca "Kujundziluk" è
stato parzialmente ricostruito. "Ma chi è stato a
distruggere tutto questo?" mi chiedono quelli della televisione
franco-tedesca che filmano tutto quello in cui si imbattono: le
nuvole sulla città, le nebbie nella valle, gli scrosci
di pioggia che ci accompagnano. Sono stati gli estremisti croati,
rispondo, sottolineando la parola "estremisti" per non
confonderli con tutti i Croati, per non fare di tutta l'erba un
fascio.
L'indomani, con il cielo sereno, siamo tornati sul posto in cui
per secoli, fino al 1993, sorgeva il famoso Vecchio Ponte. Lo
spettacolo si è presentato sotto una luce diversa, ma non
più bello. I contrafforti rocciosi laterali stanno franando,
sul fondo del fiume è stata gettata una massa di cemento
per creare una solida base per la nuova costruzione. Nel vicino
caffè, che un tempo riecheggiava di inebrianti canti d'amore
bosniaci detti sevdah, pochi avventori entrano per sorseggiare
la turska kahvka, il caffé turco. Il rumoreggiare del fiume
infrange un silenzio quasi sepolcrale. Ci si avvicina un uomo
di mezza età, nervoso e agitato; implora gli stranieri
di trovargli un lavoro qualsiasi, dice di sapere più lingue,
è disposte a fargli da guida per la città, gli mostrerà
tutto quello che desiderano vedere. E' insistente, ostinato. Uno
dei nostri amici gli mette in mano due-tre marchi tedeschi e l'uomo
se ne va. Non chiedeva di più.
Ci siamo diretti verso la vicina moschea, per visitarla. Ce n'erano
parecchie prima della guerra; alcune cominciarono a distruggerle
i "Serbi" e finirono per abbatterle i "Croati"
(uso le virgolette, talvolta, parlando di nazionalisti o fascisti,
mai quando parlo del popolo al quale appartengono e al quale non
somigliano). Nessun tempio musulmano è rimasto intero a
Mostar. Ora li stanno ricostruendo: si può notare quale
parte del minareto è di antica pietra, più scura,
e quale è stata aggiunta, ricostruita, con pietra nuova,
più chiara. L'aiuto è arrivato dai paesi islamici.
Alcuni di essi hanno condizionato gli aiuti a delle concessioni:
mi accorgo di certe pratiche che presso i musulmani di queste
terre non c'erano mai state prima. Il Vecchio Ponte non univa
soltanto due sponde della città di Mostar, ma era il legame
fra Oriente e Occidente. Incontro certi amici d'infazia, Emir,
Ibro, Fatima (hanno caratteristici nomi musulmani); si sentono
"umiliati e offesi". Nessuno di noi poteva immaginare
qualcosa di simile a quanto è avvenuto. Abbiamo sottovalutato
le capacità di coloro che hanno portato a questa catastrofe.
Gli amici che, insieme a me, hanno attraversato l'ex Boulevard
della Rivoluzione e la via che porta il nome del più eminente
poeta di questa regione, Aleksa Santic, hanno riportato impressioni
terribili. Qui c'era ed è rimasto in piedi il vecchio carcere
detto "celovina". Una triste canzone così lo
ricorda:
"Ci sono in esso cento e cento celle,
ciascuna cella per un uomo-schiavo".
Un passante, avendomi riconosciuto, mi informa che quel penitenziario
è adesso "l'unica istituzione comune che ancora funziona
nella città" senza discriminazioni etniche e religiose.
Il confine è segnato dal silenzio e dal sospetto. Lo attraversa
la "prima linea" sulla quale si combattè l'insensata
battaglia. Sui muri rimasti ancora in piedi si vedono migliaia
di buchi prodotti dalle raffiche: si sparava furiosamente, con
la veemenza dell'odio, con la volontà di distruggere tutto
il possibile.
Sul Boulevard c'è anche la casa nella quale ho trascorso
l'infanzia e i miei genitori hanno vissuto la loro vecchiaia.
E' rimasta sforacchiata, come una quinta, senza tetto e senza
i pavimenti. Attraverso l'enorme fessura di quella che una volta
fu una finestra si è infilato il lungo ramo di sambuco.
Lì, sotto casa, mi fanno un'intervista: questi amici stranieri
non possono nemmeno immaginare quel che provo mentre rispondo
alle loro domande. E non si tratta solo di vergogna.
I luoghi di culto accanto ai quali passiamo hanno subito gravissimi
guasti. La chiesa cattolica dei santi Pietro e Paolo venne centrata
già all'inizio degli scontri, verso la metà del
1992, dalle granate dell' "esercito jugoslavo" che all'epoca
aveva già subito una "pulizia etnica" e risultava
serbizzato, condito di "riservisti" raccolti Dio sa
come nelle regioni dell'Erzegovina orientale e nel Montenegro.
In questa chiesa ci andavo da ragazzo a implorare il Signore di
far tornare vivo mio padre dal lager nazista in Germania. Anche
questa chiesa è stata ricostruita grazie agli aiuti venuti
da varie parti del mondo, probabilmente anche col denaro raccolto
fra i pellegrini di Medjugorje. Il nuovo campanile è più
alto perfino di quello della cattedrale di Zagabria. Goffo, disamornico,
brutto, è stato costruito con l'intento di superare in
altezza tutti i minareti delle moschee e dimostrare la superiorità
di una religione sull'altra. Sulla collina detta Hum che sovrasta
la città, non lungi dal luogo in cui un tempo sorgeva una
fortezza austriaca, è stata eretta un'enorme croce che
si vede da ogni parte: anch'essa è stata posta lassù
perchè riconfermi la propria supremazia in una città
nella quale noi cristiani non siamo stati mai maggioranza della
popolazione, prima d'ora. Da una parte c'è un vescovo cattolico
che si comporta da villanzone, intollerante, indegno della missione
sacerdotale, a dall'altra c'è la Provincia erzegovese dell'ordine
francescano che difende i propri interessi materiali, infischiandosene
di quelli spirituali: l'uno e l'altra da tempo si scontrano e
si combattono gettando fango sulla fede stessa. Il cardinale che
ha sede a Sarajevo non riesce a trovare un farmaco che guarisca
la gangrena. Egli stesso è stato eletto a quella carica
in circostanze nelle quali sembrava migliore di quello che è.
I Francescani bosniaci, della Provincia detta di "Bosnia
Argentina", sono di gran lunga più nobili e più
attaccati ai valori del cristianesimo, ma non possono influire
sui loro confratelli erzegovesi.
Abbiamo oltrepassato il fiume servendoci del ponte provvisorio,
arrampicandoci fino al luogo dove, nella parte orientale della
città, sorgeva la chiesa ortodossa. La ricordo bene: si
distingueva per la sua posizione e la sua bellezza. Non ne è
rimasto nulla. Dopo che da questa località fu cacciato
l'esercito cetnico (“serbo”), i crociati “croati”
dapprima la bombardarono a lungo con i mortai, poi la fecero saltare
in aria con la dinamite trasformandola in un mucchio di macerie,
terra brulla. (Alla stessa maniera i "Serbi" di Banjaluka
hanno raso al suolo quella che fu un tempo la maestosa Moschea
di Ferhadija; e, come se non bastasse, hanno trasformato in parcheggio
per automobili lo spazio che prima occupava.) Accanto al rottame
della porta principale del tempio serbo è rimasta una grande
croce di ferro battuto, buttata per terra, calpestata, arrugginita.
Almeno la croce di Cristo dovrebbe essere comune ad ambedue le
confessioni cristiane!
Ho condottola numerosa brigata su per l'erto fianco dell'altura
verso il luogo in cui una piccola, antica chiesa ortodossa era
rimasta per secoli radicata al suolo, recintata. I Turchi, nei
quattro secoli del loro dominio, l'avevano tollerata, a condizione
che non svettasse, non emergesse troppo nel panorama. Anch'essa
è stata gravemente danneggiata. L'Amministrazione europea
di Mostar ha finanziariamente contribuito alla sua ricostruzione.
Due o tre icone, molto belle, si sono salvate dalla distruzione
e sono state reinserite nell'iconostasi. La porta d'ingresso ci
è stata aperta dal guardiano di piccola statura, sorpreso
e perfino un po' spaventato di fronte a tanti visitatori. Ho attaccato
discorso, ricordandomi subito della consuetudine dei miei genitori:
lasciare qualche obolo per la manutezione del tempio, non importa
a quale religione appartenga. Uscendo dalla chiesetta, quel sagrestano
mi ha detto che non poteva accettare l'elemosina. "Sapete
- ha spiegato - io sono musulmano. E qui è stato pericoloso
per un ortodosso fare il guardiano di una chiesa ortodossa! Mi
chiamo Regjep Gashi". Il nome, chiaramente, è musulmano,
il cognome potrebbe anche essere albanese. Gli ho stretto la mano.
Mi sono ricordato di alcuni viaggi compiuti nel Kosovo negli anni
Ottanta, quando coltivavamo l'illusione che fosse ancora possibile
fare qualcosa per migliorare i rapporti già avvelenati
fra Serbi ed Albanesi in Jugoslavia. Incontrai allora, visitando
il monastero di Decani, il monaco ortodosso Justin Djuki_, un
uomo di bell'aspetto e di alta statura, nativo della Bosnia. Mi
accompagnò nelle sale in cui erano custoditi i tesori del
monastero, mi mostrò quelle opere preziose. "Come
avete fatto, padre – gli chiesi – a salvare tutto
questo? Con tanti eserciti che sono passati per queste contrade
saccheggiandole?". "Sono stati gli Albanesi di queste
parti a salvare i nostri tesori", mi rispose. "Li hanno
tenuti nascosti nelle loro case, tramandondoli di padre in figlio,
di generazione in generazione, come sacre reliquie. Dicevano che
gli portavano fortuna, raccolti abbondanti, figli sani. Ed oggi...
ecco, oggi ci siamo scapestrati noi e loro". Disse così,
umilmente, e tacque. L'angoscia del musulmano Redjep incontrato
nella piccola chiesa ortodossa di Mostar mi ha fatto ricordare
la generosità del monaco Justin nel monastero kosovaro.
Queste sono eccezioni rare. Ci meravigliamo di noi stessi quando
veniamo a trovarci di fronte a questi casi.
Seguendo il corso della Neretva, ci siamo avviati verso il Sud.
Un amico aggregatosi alla nostra comitiva a Mostar ci ha indicato
i punti in cui, durante la guerra recente, gli ustascia crearono
i campi di concentramento per i musulmani: "Ecco, questo
è il malfamato Heliodrom (l'elioporto) e più in
là seguivano i lager di Dretelj, Gabela e Ljubuski".
Non si conosce esattamente il numero dei musulmani uccisi in quei
lager. L'estate erzegovese con il caldo soffocante, l' affollamento,
le torture, la fame, le malattie, la dissenteria falciava i miseri
prigionieri denutriti e stremati. "Eravamo costretti a scavare
trincee per i nostri carcerieri sulla prima linea del fronte.
Talvolta, dal fronte opposto, i nostri non ci riconoscevano e
ci sparavano addosso", mi disse un testimone di fede islamica.
Passiamo accanto al graande Aluminijski Kombinat, lo stabilimento
in cui dalla bauxite si ricava l'alluminio. Dopo anni di inattività,
finalmente ha ripreso a produrre grazie anche all'aiuto di azionisti
stranieri. Una volta ci lavoravano operai, tecnici e ingegneri
di varie nazionalità e confessioni religiose, ora è
stato etnicamente "ripulito", è accessibile quasi
esclusivamente ai cattolici “croati”.
Si viaggia su due piccoli bus presi a noleggio. Propongo di fare
tappa a Zitomislic, un paese reso celebre da un monastero ortodosso.
Nell 1941, qualche mese dopo la creazione dello "Stato Indipendente
Croato" da parte delle potenze dell'Asse, le milizie ustascia
massacrarono tutti i monaci sopresi nel cenobio, quaranta e più.
In seguito, dopo la seconda guerra mondiale, il monastero fu ripristinato,
le icone tornarono al loro posto, ripresero i riti liturgici;
in un edificio non lontano da quello centrale fu istituito un
convento femminile. Le monache trascorrevano la giornata tra la
preghiera e il lavoro, coltivando campicelli e vigneti lungo il
corso della Neretva. Nell'ultima guerra sia il monastero che il
convento femminile sono stati prima bersagliati dai mortai e poi
incendiati dai estremistsi cattolici d’Erzegovina.
Attraverso gli squarci nei soffitti e nei muri scendeva la pioggia.
Ho sollevato da terra un tizzo spento; un pezzetto di quella che
era stata una icona, una finestra, la cornice di un quadro, non
lo so. Dove lo metto? L'ho restituito alle rovine dell'incendio.
Sul palmo della mano mi è rimasto un segno nero di carbone.
Tutto intorno c'era il fango. Quello che era stato un monastero
era avvolto dalla malerba e da gramigne, la macchia era cresciuta
e sbarrava il passo. Per fortuna il fuoco aveva risparmiato i
cipressi che, snelli ed alti, rimanevano muti testimoni di un
misfatto.
Sullo scalino di pietra della soglia d'ingresso al chiostro una
donna anziana aveva acceso una candela. Mi sono avvicinato, l'ho
salutata chiamandola "madre"; si usa così da
quelle nostre parti in segno di rispetto verso le donne anziane.
Le ho chiesto se erano state salvate almeno le icone della chiesa.
Mi ha risposto: "Io non ne so nulla", ed era spaventata.
Ho continuato a parlarle, le ho chiesto se potevo esserle di aiuto
in qualche modo. E' scoppiata a piangere. Alla fine mi ha rivelato:
"Io sono una delle monache ortodosse che coltivavano questa
terra. Non ho voluto andar via. Non avrei saputo nemmeno dove
andare. Mi ha accolto sotto il suo tetto una buona e onesta famiglia
cattolica, qui nel villaggio croato vicino. Che Iddio li protegga!".
Ho pensato alla mia famiglia, originaria di quella regione per
linea materna, cattolica: nell'altra guerra salvarono dalle fosse
comuni e dalla camere a gas Serbi ed Ebrei. Ho chiesto perciò
di conoscere la famiglia croata che aveva dato ospitalità
alla monaca ortodossa, ma non c'è stato il tempo. Non c'è
mai tempo per le cose più importanti da fare: gli amici
della Televisione avevano fretta ed è stato necessario
proseguire il cammino.
Seguendo sempre il fiume Neretva, una decina di chilometri più
a Sud, siamo arrivati alla cittadina di Pocitelj descritta in
una delle prose più brillanti di Ivo Andric, Sulla pietra
a Pocitelj. Qui una volta, tanti anni addietro, le sentinelle
turche montavano la guardia nel punto in cui il fiume si restringe,
serrato tra due colline, su una delle quali, sovrastante la sponda
sinistra, dominava una fortezza. A Pocitelj c'erano pure una bella
moschea, un grande haman o bagno pubblico alla turca, un'antica
scuola religiosa islamica, e case pittoresche per il loro aspetto.
Quasi tutti gli abitanti della cittadina erano musulmani. D'estate
qui bivaccava un carissismo amico - uno dei più popolari
pittori e scrittori jugoslavi, musulmano di nascita, belgradese
di elezione, ma eterno vagabondo, autore di indimenticabili diari
di viaggio: Zulfikar D_umhur detto "Zuko". In questa
cittadina organizzava ogni anno incontri di artisti che arrivavano
da tutta l’ex-Jugoslavia e da tutto il mondo. Per sua fortuna
ha fatto in tempo a morire per non vedere quello che noi oggi
vediamo: una città deserta, la moschea distrutta dalle
granate, il minareto traforato dalla cannonate. Gli abitanti sono
fuggiti due volte, sparpagliandosi dappertutto; la prima volta
per non essere scannati dai “Serbi” in ritirata, la
seconda volta davanti ai “Croati” che hanno preso
possesso di questa ragione instaurando un potere spietato.
A Pocitelj sono tornate solo due-tre famiglie di anziani, quelle
che non sono riuscite a trovare altrove nessun rifugio, un asilo,
una casa. Sono entrato in una casa, ho salutato e chiesto di che
cosa vivessero. Mi ha risposto una donna, tenendo per mano un
ragazzetto che girava intorno a sé due occhi grandi che
hanno conosciuto troppo presto il terrore: "Di qui, per la
strada, passano le automobili. Qualcuno si ferma per vedere tutto
questa disastro, e ne approfitta per comprare un po' delle erbe
medicinali che noi andiamo raccogliendo intorno sulla collina.
Soltanto tre famiglie musulmane sono rimaste in mezzo a questo
rovina". Al momento del commiato mi hanno donato una bella
melagrana matura e spaccata. "Prendi, è dolce! Prendi,
la mangerai durante il cammino".
All'ingresso di Pocitelj - ahimé! - si levano al cielo
due croci enormi. Quando fui qui qualche anno addietro, insieme
ad alcuni amici italiani ce n'era una terza, piantata sulla cima
dell'antica torre turca. Mi h anno detto che il cardinale ordinò
che almeno quella fosse rimossa. Come ho detto, prima che fossero
piantate quelle croci, gli abitanti della cittadina erano musulmani.
Lo sono anche le poche famiglie, rimaste o tornate. Nelle file
di altre religioni si annidano i fondamentalisti, non soltanto
nell'Islam.
Tra Pocitelj e Ciapljina la terra è fertile. Vi fruttificano
le viti, i fichi, i melograni, i mandorli, gli aranci, tutte le
piante da frutto mediterraneee, e l'erba verdeggia. Lì
si trova la celebre necropoli di Radimlja, nei pressi di Stolac
- il cimitero dei patareni medievali bosniaci detti bogomili.
Una piccola oasi nella carsica e brulla Erzegovina. La pioggia
è cessata, il profumo dei pini si mescola con l'umidità
dell'aria.
Conoscevo bene Stolac, mio padre vi prestò servizio per
diversi anni, mandatovi come in una specie di esilio. Era una
cittadina armoniosa, sparsa su ambedue le sponde del piccolo fiume
Bregava che scorre e mormora anche in una poesia dell'amico Giacomo
Scotti (traduttore di questo saggio), dedicata a Mak Dizdar -
amico comune, poeta d’origine musulmana, da tempo morto.
Il corso d'acqua scorre cristallino ai piedi di una collina sulla
quale restano le vestigia di una torre medievale. Fino a pochi
anni addietro, il centro di Stolac aveva il caratteristico aspetto
di una borgata islamica: la moschea con il minareto, le case con
i tetti sporgenti e le pensiline sulle porte, la pubblica fontana
detta scedervan, le finestre chiamate demirli penger, i cortili
interni pavimentati a ciottoli.
Non riuscivo a credere che Stolac fosse stata a tal punto devastata
finchè non siamo arrivati nell'area in cui sorgeva il nucleo
storico della cittadina, la Cittavecchia. I "Croati cattolici"
hanno distrutto tutto ciò che avesse avuto dei contrassegni
orientali, hanno cacciato dalle loro case le famiglie musulmane,
sterminandone parecchie. Recentemente, quando i pochi profughi
che sono riusciti a rientrare nella loro città e nelle
loro case hanno tentato di ricostruire la moschea, sono stati
aggrediti e messi in fuga alla stessa maniera con cui i "Serbi"
di Banjaluka hanno agito nei confronti di quei concittadini musulmani
che hanno tentato di erigere nuovamente la celebre Ferhadija,
la moschea centrale di quella città. Un mio amico, professore
universitario in America d’origine croata, ha scritto che
qui, in Erzegovina, con le città abitate da musulmani i
suoi connazinali si sono comportati come i "Serbi" si
comportarono con Vukovar; la "Vukovar croata", radendola
al suolo.
All'ingresso del cimitero bogomilico di Radmila una volta sorgeva
una modesta costruzione nella quale uno poteva concedersi qualche
minuto di riposo, acquistare il biglietto d'entrata, cartoline
illustrate, libri che in più lingue raccontavano la storia
dei Bogomili (cio’ e’ - patareni bosniaci), sorbire
un tè caldo. Quell'edificio è stato demolito. Su
un muro rimasto ancora in piedi un ignoto fanatico cattolico ha
scritto: "Non c'è posto per gli eretici". Ricordo
agli amici forestieri quanto diceva il grande scrittore croato
Miroslav Krleza all'epoca in cui, dopo il 1948, la Jugoslavia
venne a trovarsi in grave pericolo per la scomunica lanciata da
Stalin contro la "cricca di Tito". Qui, in Bosnia –
diceva il poeta – si è manifestata la nostra vera
appartenenza: "né Bisanzio né Roma, ma una
terza componente". Sulle stele si possono leggere ancora
oggi i nomi slavi dei nostri ignoti antenati: Miogost (“ospite
caro”), Bolasin (“doloroso”), Bratovic (“fratellino”).
Alcuni sono scritti negli antichi caratteri bosniaci cirilliani.
I grandi cippi sepolcrali sono pesanti e la dinamite costa caro.
Forse è per questo che non sono stati distrutti né
eliminati. Sono rimasti al loro posto, dove stanno da secoli,
all'ombra dei cipressi che si dondolano al vento e vegliano su
di loro.
Intorno a noi non ho visto nessuno, ad eccezione di un uomo magro
e esaurito che camminava su e giù nervosamente fra i cippi
di pietra, parlando con se stesso. Eravamo tutti sbalorditi, di
stucco. E con quello sbalordimento ci siamo allontanati. Questo
è successo a conclusione del mio primo viaggio in Erzegovina,
l’anno scorso.
Il secondo viaggio, compiuto con gli scrittori inviati dal "Centre
André Malraux" che ha sede a Sarajevo, si è
concluso un po’ piu’ tardi a Blagaj, nei presi di
Mostar, alle sorgenti del fiume Buna. E' un "fiumicello dalle
acque gelide come il ghiaccio e chiare come le lacrime",
si legge nelle annotazioni di un cronista antico. Qui è
stata ripristinata la tekija (il monastero dei dervisci). Vi si
entra a piedi scaldi, e le donne con il capo avvolto in uno scialle.
Sembra un miracolo: qui la popolazione non ha avuto morti e la
borgata non ha subito distruzioni.
A titolo di aiuto, i Norvegesi hanno costruito un allevamento
di pesci che si è dimostrato redditizio anche per i donatori.
Invece decine di miei amici della Bosnia, della Serbia e di altri
paesi dell'Europa orientale non hanno di che pagarsi nemmeno un
modesto pranzo: una piccola trota allevata qui e un bicchiere
di vino bianco erzegovese. Questa è la nostra miseria!
Per tornare a Sarajevo abbiamo preso nuovamente un "treno
senza orario". Insieme a noi viaggia un gruppo di giornalisti
del settimanale "Feral Tribune" di Spalato, il foglio
dissidente che ha condotto una irriducibile opposizione al regime
di Tudjman. Solo sulle sue pagine, e su pochissimi altri fogli,
ho potuto pubblicare i miei scritti, nel mio paese, senza essere
costretto a nascondere il mio pensiero sui capi di quel regime.
Quel settimanale ha fatto onore al capoluogo della Dalmazia, una
città gloriosa per la resistenza opposta al fascismo durante
la seconda guerra mondiale, sulla quale però i fantasmi
di quel fascismo gettano ora nuovamente le loro ombre minacciose.
Nel viaggio di ritorno, il gruppo degli "strani viaggiatori"
(definizione dell'organizzatore francese, che è ricorso
a un verso di Baudelaire) si è sistemato nella vettura
della "mescita", insieme ai redattori del "Feral".
Ci siamo allineati tutti davanti al bancone, gente arrivata da
mezzo mondo, bevendo all'impiedi il bianco e il nero, zilavka
e blatina, vini gagliardi dell'Erzegovina. Abbiamo poi attaccato
a cantare a gola spiegata canzoni delle varie regioni di un paese
nel quale abbiamo vissuto insieme fino a dieci anni addietro,
un paese che tutti conosciamo. E' infelice quel popolo al quale
non è permesso cantare le comuni canzoni. Non mi batto
certamente per la ricostituzione di uno Stato o di un regime che
avrebbero potuto essere migliori di quello che sono stati: ma
per la fraternità, per lo stare insieme, sì. Nulla
può sostituire l'amicizia e la convivenza. Si deve esser
“dissidente” quando si lotta per questo? Per così
poco!
Abbiamo continuato a stare in compagnia fino a tarda notte per
le vie di Sarajevo. Quella per noi non era più una città
distrutta.
L'indomani siamo tornati seri. Mi si è avvicinato uno scrittore,
mio "connazionale " rimproverandomi di essere stato
"troppo duro" nel parlare dei crimini compiuti dai “Croati
in Erzegovina”. Gli ho risposto che non aveva capito la
cosa essenziale: usando parole "troppo dure" intendevo
lanciare al tempo stesso una sfida: indurre gli scrittori serbi,
bosniaci, montenegrini e quant'altri a dire alla stessa maniera
quanto avrebbero dovuto dire sui crimini compiuti e sulle sciagure
seminate dai loro "connazionali".
Mi è capitato per le mani un articolo apparso recentemente
a Belgrado sul foglio "Helsin_ka povelja" (La Carta
di Helsinki). Vi si parla "delle responsabilità di
Milosevic, Karadzic, Mladic e di altri guerrafondai serbi che
si sono battuti per creare la Grande Serbia fino alla linea Karlobag-Ogulin-Virovitica
in Dalmazia; delle loro responsabilità per i tre anni e
mezzo di cannoneggiamenti su Sarajevo, del bombardamento di Dubrovnik/Ragusa,
dell'incendio delle borgate della Piana del Konavle, della distruzione
di Vukovar, del massacro di 7.000 civili musulmani a Srebrenica,
dei misfatti compiuti contro i deportati e prigionieri nei lager
di Keraterm, Omarska, Trnopolje, Manjacia; dei cadaveri dei neonati
e delle bambine albanesi che vengono fuori dai frigoriferi, dalle
acque del Danubio e dalle fosse comuni scavate in prossimità
dei commissariati di polizia nei dintorni di Belgrado; delle migliaia
di giovani serbi morti ammazzati e rimasti mutilati nelle guerre
alle quali la Serbia 'non ha partecipato'... della Chiesa ortodossa
serba esclusivista, intollerante, rigida e reazionaria",
e così via. Questo l'ha scritto e l'ha firmato un amico
Serbo. E ha fatto bene.
Sarajevo non può dimenticare facilmente tanti suoi cittadini
morti dilaniati sotto le granate nella via di Vaso Miskin mentre
facevano la fila per un pezzo di pane, né i morti ammazzati
alla stessa maniera nel mercatino Markale mentre compravano, per
dire, un chilo di patate: corpi straziati, fatti a pezzi, uomini
e donne morti sul posto o mentre si cercava di trasportarli negli
ospedali già stracolmi di feriti; non può dimenticare
le ferite e le pozze di sangue sui marciapiedi, gli urli di chi
invocava aiuto e i soccorsi che arrivavano talvolta quando non
si poteva fare più nulla per salvare un uomo. E dopo tutto
questo, come non ricordare le terribili, vergognose notizie e
le menzogne sparse dagli assassini, secondo le quali sarebbero
stati gli stessi Bosniaci musulmani ad autobombardarsi, ad ammazzarsi,
per richiamare su di sé l'attenzione del mondo? Ancora
più terribile e vergognose è il senso stesso di
queste notizie e di queste menzogne che i propagandisti del regime
tentarono di spargere con tutti i mezzi: indurre qualcuno a suicidarsi
è peggio che ucciderlo.
Sugli uomini di penna ricade una parte preponderante di responsabilità
per tutto quello che è successo. Sarebbe un bene se esistesse
uno speciale tribunale per gli scrittori e giornalisti, oltre
a quello dell'Aja per i crimini di guerra, un tribunale migliore
e più severo dei Collegi di probiviri o Giurì d'onore
che funzionarono in Jugoslavia e in Europa dopo la seconda guerra
mondiale davanti ai quali furono chiamati a rispondere gli scrittori
che avevano messo la loro penna al servizio dei fascisti e dei
loro misfatti. Un siffatto tribunale dovrebbe poter giudicare
pubblicamente tutti i responsabili di questa tragedia, facendo
conoscere al mondo i loro nomi: colui che per primo istruì
e preparò il "duce" serbo ora finito all'Aja
(e suoi maestri furono Dobrica Ciosic e i suoi caudatari), colui
che sostenne il "Supremo" croato e usò la sua
penna spuntata per giustificare l'aggressione contro la Bosnia
(Ivan Aralica, per esempio), colui che sorresse il microfono sotto
la barba di un gonfaloniere e ne esaltò la imprese mentre
andava randellando la gente da un capo all'altro di Sarajevo (e
mi riferisco al romanziere serbo Momo Kapor oriundo bosniaco).
E tutti gli altri che sposarono il crimine, spinsero al crimine,
tacquero e occultarono i crimini, giustificarono i misfatti nei
modi più svariati e tuttora cercano di giustificarli: lo
scrittore belgradese Matija Be_kovic che ha gettato un'onta incancellabile
sul proprio talento; il poeta serbo-erzegovese Gojko Djogo e il
serbo-bosniaco Rajko Nogo con il loro depravato misticismo nazionalista;
il romanziere e poeta croato-bosniaco Andjelko Vuletic aiutante
di campo dei peggiori vessilliferi dell'odio quali sono stati
il defunto Mate Boban, già presidente per conto di Tudjman
della cosiddetta "Repubblica croata di Erzeg-Bosnia"
e di quel maledetto Tuta Naletilic che oggi risponde all'Aja di
orribili crimini di guerra; il poeta Mile Pesorda, croato-bosniaco
pure lui e seminatore lui stesso di odio. E l'elenco degli indegni
potrebbe continuare, è lungo. Anche alcuni uomini di penna
musulmani, appartenenti dunque a quel popolo che più di
tutti in Bosnia ha subito violenze e sofferenze, dovrebbero scucire
finalmente la bocca e scrivere, condannandoli, dei misfatti compiuti
dai loro connazionali a Grabovica, a Celebici, a Bradina, a Busovacia
e non so dove ancora, crimini compiuti non sempre per difesa.
Dopo la seconda guerra mondiale ci sono stati degli scrittori
progressisti tedeschi che, non senza seri rischi personali, hanno
posto lo specchio di fronte alla nazione cercando di mostrare
ai connazionali tutti i crimini compiuti in loro nome dai nazisti.
Anche noi dovremo, prima o poi, seguirne l'esempio. I Croati non
lo hanno fatto ancora neppure per i crimini orrendi compiuti dagli
ustascia nella seconda guerra mondiale; lo fanno oggi, al posto
nostro, i figli dei nostri Ebrei i cui genitori furono massacrati
nei lager sparsi da Pago a Jasenovac. I Serbi esaltano nuovamente
il generale Draza Mihailovic, capo dei massacratori cetnici nella
seconda guerra mondiale, dimenticando il sangue a fiumi scorso
nella Drina dalle gole dei musulmani bosniaci sgozzate dai loro
pugnali. Anche gli Sloveni hanno taciuto a lungo sulle stragi
compiute dai loro, negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale.
Sono troppo pochi coloro i quali osano guardarsi allo specchio
della storia senza inorridire della propria immagine riflessa.
Gli scrittori rifuggono da questo compito ingrato, gli intellettuali
nazionalisti non vogliono guardare la propria nazione così
com'era veramente, preferendo i miti. Ai nuovi leader, come ai
loro predecessori, sta a cuore soprattutto il potere. Anche quando
si viveva in una comunità federale, preferimmo sottolineare
e denunciare quasi esclusivamente i crimini compiuti dagli altri
contro di noi, nascondendo i propri. E fino a quando noi punteremo
gli occhi su noi stessi, fino a quando non interrogheremo la nostra
coscienza, non potrà esserci nemmeno una vera presa di
coscienza e una vera catarsi.
(Traduzione di Giacomo Scotti)
P-S. Alcuni
scrittori di cui i nomi si trovano in questo testo - considerati
dall’ autore come ispiratori o esortatore dell’ultima
guerra nei Balcani - hanno riposto con arroganza nei giornali
di Belgrado. Un processo aspetta l’autore nelle settimane
prossime dinanzi al Tribunale di Zagabria. Questo tipo d’interventi
sembra ancora raro e non accettabile. L’ autore lo considera
comunque necessario e indispensabile. (P.M.)
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