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La scrittura, la drammaturgia e il potere politico

Predrag Matvejevic
Un orizzonte nel mondo "ex"

Lo scrittore slavo, tra asilo ed esilio, dà nuovo senso alla parola teatrale.

D. Partiamo dalla sua ultima pubblicazione Mondo "ex": cosa rimane del legame tra drammaturgo e potere politico?
C'è sempre un rapporto tra potere e teatro: ogni potere vorrebbe avere dal teatro un'immagine più bella di quella reale, e ci sono sempre autori che fanno questi ritratti gloriosi del regime e dei protagonisti politici. Da qualche tempo, da quando mi sento essere tra asilo ed esilio, l'asilo figurato offertomi prima dalla Francia e ora dall'Italia, ho capito che l'esilio neutralizza la parola, la allontana dal suo vero scopo: il pubblico immediato. Osservo il mondo "ex", il mio mondo, e ho scoperto che in tutta l'Europa dell'Est, paradossalmente, il teatro non riesce ad essere quello che era con il regime totalitario. Nella Russia di Breznev il teatro di Taganika di Liubimov era una continua contestazione, una messa in questione del regime, dell'ideologia; penso anche ad alcuni teatri di Praga e di Varsavia, all'esperienza di Grotowski, penso ad un regista italiano di prim'ordine che ha rivoluzionato il teatro in Jugoslavia, Paolo Magelli, ricordo un regista come Tovstonogov che faceva spettacoli meravigliosamente puri. E adesso? Con le libertà che si sono aperte, non c'è nulla di simile. Prima l'attore e l'autore erano più protetti nel loro lavoro, nel loro stipendio. Certo, non esprimo una nostalgia per un regime di cui ero dissidente, ma nel totalitarismo ci sono mezzi che permettono di fare prove per ottenere spettacoli perfetti, mentre il teatro dei paesi liberi è poverissimo. Per me il teatro è una vera confessione: si confessa un autore, una compagnia, un atteggiamento, una società. Ed è per questo che nel mio ultimo libro ho scelto la forma della confessione, una prosa che prosegue una ricerca già iniziata. Il romanzo, infatti, è un genere esaurito, e ho sempre cercato uno spazio non sfruttato, possibile per il rinnovamento: il breviario, l'epistolario, e finalmente qualcosa mi spingeva verso un'espressione teatrale, dando a queste confessioni una forte connotazione di oralità, di comunicazione. In un mondo "ex", alla fine del secolo, viviamo senza un'idea di emancipazione: e questo può dare una chance al teatro, la parola teatrale potrebbe offrire un orizzonte, almeno sul palcoscenico.

D. Heinrich Böll, nelle sue Lezioni francofortesi, afferma la necessità di un "linguaggio abitabile e di un territorio abitabile, per poter pronunciare la parola futuro": potrebbe essere il teatro?

Ad una condizione: per riuscire e per uscire da questa crisi, la parola teatrale deve essere condivisa. Non più teatrale come tale, ma parola in cui riconoscersi. Volevo che la mia parola fosse condivisa, prestata dal teatro, e questa attesa, questa ricerca di un teatro immaginario, che non trovo - tranne in alcuni casi -, mi hanno tanto spinto che ho voluto fare un monologo del mio Breviario Mediterraneo, con la convinzione che dobbiamo cercare insieme un nuovo linguaggio. Da qualche anno vado in teatro "auscultando" la parola per percepirne l'apparizione.

D. Lei si è identificato nel ruolo, caro ad uno scrittore come Peter Handke - anche lui ha preso una posizione radicale nei confronti della Jugoslavia -, dell'osservatore: quale l'etica dell'osservatore nel contesto sociale di un mondo ormai passato?

è una domanda che mi pongo spesso. Mi sembra che occorra saper uscire da un'alternativa sconvolgente, quella tra tradimento e oltraggio. Mi spiego: vengo da Zagabria, dove ho vissuto trent'anni ed ogni parola che potrei dire contro la Croazia sarebbe un tradimento. D'altra parte andavo spesso a Belgrado, vivevo in sintonia con tanti scrittori di Belgrado, ed ogni parola critica che posso dire nei confronti dell'orribile regime di Milosevic, che ha umiliato la Serbia, sarebbe un oltraggio. Oggi il discorso critico non trova il suo spazio: cerco palcoscenici sociali in cui la mia parola sia solo la mia parola, né tradimento né oltraggio. Il teatro si trova tra silenzio ed obbedienza: o non scrive, non critica, non dice quello che pensa sul regime, oppure scrive una cosa nulla, neutra, insignificante. Sono aspetti diversi di una grande alternativa: rifiuto radicale o elogio facile. Ho vergogna di quelli che elogiano non solo nelle situazioni tragiche ma anche quando c'è da elogiare.

D. è il legame continuo tra letteratura e realtà, tra arte e potere...

Ultimamente ho riletto alcune cose di Dostoevskij e Shakespeare. Così Riccardo III mi ha aiutato a capire gli avvenimenti nella ex-Jugoslavia. Ci sono reali fatti biografici che si possono mettere in un ordine drammaturgico simile alla tragedia scekspiriana. Primo atto: il padre di Milosevic si è sparato, la madre ed uno zio si sono impiccati. Secondo atto: il padre di Tudjman si suicidato dopo aver ucciso sua moglie. Il terzo atto: la figlia del generale Mladic, condannato per crimini contro l'umanità, si è data la morte. Quarto atto: il padre di Karadic fu condannato per incesto e stupro della nipote minorenne. Ecco la tragedia elisabettiana: e dunque questo spiega come vedo il teatro e cosa cerco dal teatro. Un'ultima cosa: per me la posizione di asilo-esilio non tocca solo uno scrittore che viene dall'Est, ma anche l'intellettuale occidentale di fine secolo. La società dei consumi gli offre un asilo, ma è esiliato da tutti i livelli decisionali essenziali: tollerato ma non ammesso nel circuito delle cose essenziali. Alla fine del secolo scorso Nietszche voleva essere inattuale, per essere pronto all'avvenire, al futuro. Ora il nostro mondo "ex", il nostro essere esiliati, fa solo riferimento al passato e al nulla del presente.