ATTORNO A BLUE STORIES
di Luca Scivoletto



Certo, il cinema ci fa sempre vedere qualcosa. Ma ci fa anche non-vedere, o meglio ci rende invisibile il massimo del visibile, e ci rende visibile il massimo dell’invisibile. La saturazione delle infinite possibilità di uno sguardo-sul-mondo producono il nero, l’assenza di forme; mentre la fuoriuscita del frame dalla piccola fessura, sempre più stretta, creata nel tessuto dell’infinito e oscuro visibile, determina le forme, l’infinitamente piccola sezione di mondo (riprodotto o ricreato) che una macchina-mente ci suggerisce di vedere. E tutto questo è prodotto da un mezzo con gli anni sempre più piccolo, da una presenza nell’aria e nel concreto sempre meno controllabile, sempre meno riconoscibile. Il movimento che nella storia del cinema si è verificato è una sinusoide che allontana o avvicina la possibilità di poter incontrare il mezzo cinematografico e di poterlo considerare nello spazio che occupa nel concreto di un set.
Due sono quindi i punti, strettamente connessi tra loro, su cui si definisce Blue Stories: la tensione tra il vedere e il non vedere; e la silenziosità della telecamera digitale, il suo agire di nascosto, senza farsi notare, dall’interno di un’automobile che corre fra le tante altre per un’autostrada inconsapevole. Ecco, imbattersi in un set allestito in una strada qualsiasi significa l’affermazione da parte del cinema della sua presenza e della sua riconoscibilità come momento di riproduzione di immagini, un momento che occupa uno spazio, e determina, ad esempio, la deviazione di un passante. La riduzione dello spazio di un set all’abitacolo di un’auto o al davanzale di una finestra, e il mancato coinvolgimento della realtà circostante, la quale non oppone più alcuna resistenza, affermano invece un cinema sempre più simile a una zanzara, piuttosto che a un leone rinchiuso in uno zoo. Il set esiste ma si è enormemente ristretto, e soprattutto vola libero.
Una terza questione pone ancora il lavoro di Roberto: e cioè il problema del suono. Non si tratta di un commento musicale, non si tratta semplicemente di un dispositivo volto a rafforzare la suggestione delle immagini. In Blue Stories il suono è controllato, a volte anche prodotto, durante la proiezione, segue una sua linea, dislocata nello spazio circostante lo schermo e non in quello della proiezione. Anche qui c’è una tensione. Sì, le immagini vengono proiettate. Ma l’occhio originario dal quale sono nate è lì, presente. E non è più occhio, sono mani che articolano suoni. Così l’ubiquità viene soddisfatta. Roberto era lì, in varie città del mondo, ad appuntare immagini, adesso è qui, davanti allo schermo a farne suono, riportandole così al di qua della proiezione. Una dialettica suono-immagine quindi in cui il sonoro è staccato dall’immagine ma è anche la spinta che riporta l’immagine alla sua concretezza. Per questo live cinema, per questo la possibilità che l’immagine si presenti a noi come dal vivo, e non cristallizzata in una semplice proiezione. Il suono poi riceve dall’immagine proiettata la sua possibilità di cristallizzarsi e di non sembrare quello che invece è, cioè suono dal vivo. Uno scambio quindi tra immagine e suono, che alla fine determina un rovesciamento delle strutture iniziali delle due componenti.
L’occhio del regista ha succhiato con un mezzo piccolissimo e discreto dei pezzi di invisibile e li ha resi visibili, ma tutto ciò senza che il mondo circostante potesse accorgersene e potesse in qualche modo resistere. Crolla la presenza del set, sebbene questo non scompaia ma solamente si riduca a un qualcosa che si agita per l’atmosfera in modo quasi impalpabile. Infine il suono innesca un meccanismo di rovesciamento per cui l’immagine proiettata si avvicina alla vita e il suono prodotto sul momento, dal vivo, si dissolve in una non-presenza.
E’ vero che queste sono riflessioni non nuove, ma per Blue Stories queste stesse riflessioni si pongono in maniera molto più problematica: in che modo il visibile si presenta come tale quando il contatto con la realtà concreta del set diventa sempre più nascosto? Se è vero che il rapporto con il profilmico è sempre più personale e quindi più stretto, che tipo di riconoscibilità possiamo avere di una realtà divenuta immagine? L’occhio di Roberto potrà mai essere paragonato a quello di un Rossellini o di un Cronenberg? E infine il live cinema che rapporti intrattiene con le altre idee di riformulazione del cinema?
Infine ciò che di più sincero suggerisce Blue Stories è, come ho già detto in altre occasioni a Roberto, la sensazione di uno stato di cronica mutazione presente in ciò che viene rappresentato, e assieme a questo una poetica che della contemporaneità (termine pericoloso, lo so) esprime l’aspetto più nascosto, quello appunto dello sguardo-zanzara. E la fluidità di questo sguardo imprime all’indefinitezza digitale una valenza inaspettata: quella del saper interpretare nei nostri strani giorni l’immutabilità del quotidiano da una parte e il viaggio dell’inquadratura instabile dall’altra, entrambi veri segni di una capacità di saper vedere e di saper sentire quell’ambiguità di fronte alla quale invece molta arte contemporanea spesso si arrende senza nulla dire.

(2002)