Giorgia Sinicorni

Estratti dalla tesi di laurea "Dal teatro aumentato al teatro espanso. Ridefinizione delle logiche operative e eplsorazione dei formati della scena multimediale in Italia"

Università di Bologna Corso di laurea in Scienze della comunicazione
Relatore: prof. Marco de Marinis

giorgiasin@yahoo.it


Indice

Introduzione……………………………………………………………Pag.7
Capitolo 1 I nuovi media e le nuove logiche culturali…………….13
Premessa metodologica…………………………………………………….13
1.1. La tecnologia modifica la cultura?……………………………………13
1.2. Nuovi media …………………………………………………………... 18
1.2.1. La novità relativa dei nuovi media………………………………...18
1.2.2. Nuovi media: i principi……………………………………………..23
1.2.3. Nuovi media: le logiche operative e le forme…………………….27
1.2.4. Nuovi media: le estetiche………………………………………….31
1.3. Due affinità tra nuovi media e teatro………………………………34
1.3.1. Il multimediale …………………………………………………..…34
1.3.2. Il virtuale…………………………………………………………....37
Capitolo 2 Le tecnologie in scena: un percorso…………………43
2.1. L’eredità delle avanguardie………………………………………….43
2.2. L’esperienza italiana………………………………………………....49
2.2.1. La ricerca degli anni Ottanta……………………………………....52
2.2.2. Gli anni Novanta…………………………………………………......57
2.3. Discontinuità…………………………………………………………… 62
2.3.1. ...esterne, lo stato dell’arte………………………………………....62
2.3.2. ...interne, le pratiche……………………………………………….65
Capitolo 3 La ridefinizione delle logiche operative……………...69
3.1. Corpo visivo……………………………………………………………70
3.1.1. La drammaturgia visiva dell’Ospite……………………………...…71
3.1.2. Spettrografia della tragedia……………………………………….. 76
3.2. Corpo sonoro………………………………………………………….. 82
3.2.1. Il suono oltre l’organico ………………………………………....….84
3.2.2. L’ambiente sonico di Animalie…………………………………...…88
3.2.3. Il testo acusmatico………………………………………………..…92
3.3. La narrazione…………………………………………………………94
3.3.1. L’ipertesto mandalico…………………………………………….....95
3.3.2. Lo spazio ipernarrativo di Twin Rooms…………………………..100
3.4. Ridefinizione delle logiche operative…………………………………104
3.4.1 Le logiche di produzione ………………………………………...…104
3.4.2. Le logiche di ricezione…………………………………………......106
Capitolo 4 L’esplorazione dei formati …………………………...…111
4.1. Dialettica di “opere” ed “eventi”………………………………………111
4.2. Un continuum di formati……………………………………………..…116
4.2.1. Modalità di accesso…………………………………………….....…118
4.2.2. Qualità di presenza……………………………………………......…121
4.2.3. Telepresenza……………………………………………………........124
4.2.4. Grado di replicabilità………………………………………….........…128
4.3. Modalità esplorative…………………………………………………......131
4.4. L’intertestualità esplicitata…………………………………………….....141
Capitolo 5 Esperienze……………………………………………………...145
5.1. Conversazione con Roberto Paci Dalò di Giardini Pensili…………......145
5.2. Conversazione con Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande di Motus…157
5.3 Conversazione in forma scritta con Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti…………………………………………………………….....…167
5.4. Conversazione con Giacomo Verde……………………………….…...171
Appendice iconografica……………………………………………………....179
Riferimenti………………………………………………………………….......195


Introduzione
L’irrompere sulla scena delle tecnologie digitali è un fatto che, in considerazione di una normale evoluzione delle tecniche a disposizione dell’arte, non dovrebbe né stupire né preoccupare. La verità tuttavia è che l’uso / abuso di questo tipo di tecnologie, in certi contesti, provoca sempre e comunque delle reazioni, seppure di tipo diverso. Da chi, in maniera entusiastica, pensa di poter abbattere i costi fissi della messa in scena tradizionale sostituendo, per esempio, le scenografie con proiezioni video, a chi, diffidente, si rifiuta per principio di contaminare l’arte dal vivo per antonomasia con elementi apparentemente così lontani dalla sua essenza.
I fatti ci mostrano tuttavia che, al di là di ogni opinione, l’arte digitale sta diventando una realtà sempre più concreta e articolata e che, come prevedibile, sta influenzando in maniera significativa le pratiche artistiche a lei vicine. Come vedremo nel capitolo I di questo studio, il digitale è luogo privilegiato della processualità, in cui ad opere in continuo divenire si affianca una fondamentale importanza dell’evento; ecco quindi chiarirsi una delle prime, nonchè fondamentali, condizioni che stanno alla base dell’incontro tra nuovi media (come vedremo i media che fanno uso di tecnologie digitali e connettive) e teatro, luogo dell’evento per eccellenza.
Per questo motivo, ovvero per la relazione che scena e nuovi media stanno intessendo in maniera innegabilmente frequente fin dagli anni Ottanta e, in maniera diversa, rappresentando la tecnologia un elemento importante della poetica dei gruppi della Terza ondata in Italia, abbiamo deciso di indagare questo fenomeno considerandolo uno snodo importante del teatro contemporaneo. Se infatti il giudizio resta assolutamente in sospeso e dipendente dalle singole occorrenze e poetiche artistiche, quello che ci pare interessante è individuare dei punti ricorrenti, dei macro-slittamenti che si verificano nelle pratiche, ovvero nelle logiche operative del fare e fruire teatro. Siamo convinti, infatti, che è anche la conoscenza e la consapevolezza della tecnica usata a consentire un giudizio di valore su un prodotto artistico che, altrimenti, soprattutto quando si tratta di nuovi media, rischia di scomparire dietro la spettacolarizzazione della tecnica stessa.
A questo scopo abbiamo impostato una metodologia che, pur prendendo avvia dalle analisi forniteci dalla nuova teatrologia, cerca di fare i conti con le nuove dinamiche emerse sulla scena contemporanea, continuando ad interrogarsi, necessariamente, sulle ricadute che queste hanno avuto sul versante della ricezione dell’evento performativo. Lo sviluppo del lavoro sostiene quindi la tesi secondo la quale è possibile delineare influenze che, partendo dalle tecnologie, approdano alla scena, ridefinendone alcune logiche operative. Il primo passo, quindi, dopo una necessaria introduzione sul concetto di (nuovi) media, sarà la definizione di una griglia interpretativa che ci fornisca gli strumenti per riflettere sulla specificità da essi veicolata.
A partire da questi presupposti il capitolo I procederà per tappe, dalla più concreta alla più astratta, nell’individuazione di parametri che regolano il funzionamento dei media digitali e connettivi. Lo sviluppo della nostra analisi farà riferimento alle riflessioni di Lev Manovich che ha delineato i livelli successivi di articolazione del linguaggio dei nuovi media, descrivendone il funzionamento. Dedicheremo quindi un paragrafo ai principi materiali del nostro oggetto di studio (rappresentazione numerica, modularità, variabilità, automazione), per poi descriverne le logiche operative (selezione composizione e teleazione) e le forme tipiche che assume (database e spazio navigabile interattivo).
Un punto fondamentale della nostra riflessione, preliminare all’analisi vera e propria, è l’introduzione di due concetti che rappresentano il punto di incontro tra teatro e nuovi media. Da un lato descriveremo le caratteristiche, suggeriteci dal lavoro di Packer e Jordan , comuni a tutti i prodotti, culturali e non, nell’universo del multimediale, che si riveleranno molto utili per l’analisi successiva (integrazione, ipermedialità, immersione e narratività non lineare). Dall’altro, sulla scorta di Deleuze e della rilettura datane da Lévy , tratteremo del virtuale e della virtualizzazione, due concetti strettamente legati ai nuovi media che è necessario ripensare a partire dal rapporto che instaurano con il reale, costituendone una possibile dimensione.
Dopo aver messo insieme gli strumenti necessari, e prima di intraprendere l’analisi del fenomeno a noi contemporaneo, sarà opportuno, seguendo l’insegnamento della nuova teatrologia, delineare un quadro di ricognizione storica che costituisca il terreno nel quale il nostro discorso affondrà le sue radici (cap.II). Sebbene, infatti, l’uso dei nuovi media in scena di cui trattiamo sia relativamente giovane, non si può in alcun modo prescindere dalle esperienze che lo precedono e che al tempo stesso lo legittimano. Nel capitolo II ricostruiremo perciò, seppur brevemente, i passaggi più importanti di un percorso che dalle avanguardie storiche conduce fino alle sperimentazioni degli anni Ottanta e Novanta. Metteremo in luce, più che delle vere e proprie correnti, dei macro-cambiamenti nel linguaggio artistico, sottolineando quei processi di teatralizzazione dell’arte e di pluralizzazione dell’evento scenico che hanno, di fatto, legato sempre più l’universo performativo a quello più strettamente artistico-installativo, aprendo le porte ad una costante e significativa ibridazione di tecniche, linguaggi e formati. Più in particolare ci soffermeremo sulle esperienze immediatamente precedenti, da un punto di vista temporale, a quelle che analizzeremo in seguito, non solo per il loro essere venute prima, ma soprattutto per essere state le prime esperienze veramente rivolte alla sperimentazione di teatro e tecnologia. Ed è proprio in ragione di questa considerazione che istituiremo un confronto tra le pratiche degli anni Ottanta e quelle degli anni Novanta: per la fondamentale differenza che deriva, negli uni, dall’essere i precursori di una sperimentazione e, negli altri, dal fatto di raccoglierne i frutti e dare per scontate molte riflessioni sulla tecnologia (§ 2.3. ).
L’analisi dell’uso dei nuovi media nel teatro contemporaneo, di cui il capitolo III è oggetto, seppure limitata geograficamente al solo panorama italiano, rende necessaria, vista la vastità del fenomeno, una presa di posizione operativa che giustifichi le scelte dei singoli casi, escludendo a priori qualsiasi categorizzazione, ma allo stesso tempo fornendo un metodo che risulti significativo e aperto. In questo senso si impone la necessità di postporre il nostro sguardo sul lavoro delle compagnie, alla costruzione di uno scheletro di riferimento il più possibile oggettivo. La spina dorsale attorno cui ruoteranno le riflessioni sui lavori di alcune delle più importanti compagnie di ricerca del teatro contemporaneo (Socìetas Raffaello Sanzio, Giardini Pensili, Motus e Giacomo Verde), sarà costruita a partire da una considerazione fondamentale. All’eterogeneità delle singole pratiche artistiche, infatti, fa quasi sempre da contraltare una ricorrenza dei parametri scenici investiti dalla tecnologia, che andranno a costituire i paletti sulla base dei quali strutturare l’analisi. Corpo visivo, inteso come il risultato della relazione tra corpi reali e riprodotti, corpo sonoro, inteso come l’insieme articolato di suoni analogici e digitali che costituiscono lo spazio/ambiente acustico, e narrazione, ovvero le possibili modalità di costruire l’intreccio quando presente, saranno i tre punti di vista da cui osservare la ridefinizione delle logiche operative che sottostanno all’evento scenico. Il lavoro di analisi dei casi specifici consentirà, in chiusura al capitolo, di operare una sistematizzazione del discorso, sia per quanto riguarda le logiche di produzione, che per quelle di ricezione (§ 3.4.). Il ritorno del concetto di virtuale, la capacità sempre più evidente della scena, nonchè dei corpi in essa ospitati, di espandersi oltre i propri limiti fisici, l’attivazione di modalità di fruizione attive, sia dal punto di vista fisico che intellettuale, rappresenteranno alcuni punti della nostra analisi estendibili anche al di là dei singoli spettacoli presi in esame.
La riflessione riguardo le logiche ricettive e produttive interne alla scena, non può che completarsi con uno sguardo che allarghi l’analisi anche al contesto nel quale l’evento è inserito. Al singolo spettacolo, infatti, sempre di più si affiancano formati diversi che di fatto estendono la capacità di significazione dell’evento stesso. Dopo aver dimostrato, prendendo le mosse da uno studio di Deriu , che questo movimento di esplorazione dei formati è, di fatto, una delle logiche operative che la tecnologia favorisce, il capitolo IV sarà dedicato ad indagare la specificità dei diversi formati. A questo scopo si farà riferimento ad alcuni parametri comunemente considerati specifici del formato teatrale, come per esempio la compresenza di emittente e destinatario in uno spazio-tempo definiti, per studiarli nelle loro possibilità ibride, quali la telepresenza o l’interazione di corpo dal vivo e corpo riprodotto.
Successivamente verranno condotte alcune riflessioni sulle modalità che, coerentemente con le proprie personali poetiche, artisti e compagnie hanno di realizzare diversi formati. Con la stessa logica del capitolo precedente si cercherà di individuare alcune ricorrenze nel rapportarsi alla tecnologia e ai formati, per poi aprire il discorso ad un’ipotesi più generale. Ancora una volta ritornerà il concetto di virtuale come una modalità del reale cui l’evento spettacolare, il suo attuale correlato, sembra sottomettersi. Quest’ultimo si andrà delineando, quindi, sempre più come un nucleo in espansione, non solo in maniera sincronica, come visto nel capitolo III, ma anche in maniera diacronica, intessendo legami intertestuali sempre più complessi rispetto al resto della produzione.
Nell’ultimo capitolo saranno raccolte le conversazioni avute con gli artisti, questo non tanto a testimonianza della correttezza delle nostre affermazioni, quanto al fine di istituire un luogo di apertura e confronto tra la riflessione teorica, seppure strettamente legata all’analisi del fatto empirico, e le esperienze, spesso molto eterogenee, degli artisti.

Estratti (senza note)

3.2.2. L’ambiente sonico di Animalie
Prenderemo ora in considerazione due spettacoli realizzati da Giardini Pensili. Il primo, Animalie, svela una logica operativa per certi aspetti simile a quella appena individuata nel lavoro di Scott Gibbons, la seconda, Stelle della sera è una prosecuzione del discorso sul suono, legato questa volta a un recupero della parola intellegibile.
Come già accennato nel cap. II, il lavoro di Giardini Pensili è caratterizzato da una grande eterogeneità di formati che hanno come denominatore comune l’attenzione per il suono e un approccio al teatro multidisciplinare e multitecnologico. Animalie è pensato come un commentario a L’aperto, l’uomo e l’animale di Giorgio Agamben , testo in cui il filosofo, prendendo le mosse da Uexküll, riflette sulla relatività del modello percettivo umano.
Troppo spesso, egli afferma, noi immaginiamo che le relazioni che un determinato soggetto animale intrattiene con le cose del suo ambiente abbiano luogo nello stesso spazio e nello stesso tempo di quelle che ci legano agli oggetti del nostro mondo umano.[...] Uexküll mostra che un tale mondo unitario non esiste così come non esistono un tempo e uno spazio uguali per tutti i viventi .
Lo spettacolo viene presentato per la prima volta ad Atene nell’Ottobre 2002 ma, come molti dei lavori di Giardini Pensili, non assume una forma fissa; in Italia arriverà nel Febbraio 2004, sviluppato in una forma propriamente pensata per il teatro.
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Il dispositivo scenico è disegnato da Edoardo Sanchi ed è pensato con l’intento di lasciare uno spazio a prima vista vuoto, che fornisca diverse superfici di proiezione. La scena è schermata da un tulle nero che funge da superficie proiettiva (fig. 13), a terra un telo rosso copre il pavimento e a sua volta si riflette su un pannello riflettente-trasparente a seconda della direzione della luce. La performer agisce dietro al tulle, sia davanti che dietro il pannello. Due videoproiettori restituiscono immagini in parte registrate e in parte prese in diretta da una telecamera puntata sulla scena. Il primo proietta sul tulle e il secondo sul pavimento.
La partitura sonora è completamente costruita a partire dalla lettura del testo di Agamben, fatta dall’autore stesso, e in seguito elaborata con la sintesi granulare. Le parole scompaiono e, diventando puro suono, si trasformano nell’oggetto stesso del discorso. “L’animale è evocato attraverso la voce dell’autore, che in un certo senso si fa bestia” . Il suono è gestito attraverso un computer, un campionatore e altri strumenti necessari per modificarlo in tempo reale. Dal punto di vista della messa in scena questo spettacolo non prevede particolari sistemi di spazializzazione. L’impianto richiesto deve essere però di una potenza tale da far arrivare il suono come vibrazione fisica.
Tutta la parte audio e video si svolge dal vivo. Per questo motivo la regia diventa un elemento importante dello spettacolo e deve essere obbligatoriamente montata in modo che il lavoro di chi controlla luci, video e suono possa essere svolto in sinergia .
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L’idea fondamentale di tutto lo spettacolo è porsi come “glossa” al testo di Agamben. In scena una performer compone delle microcoreografie fatte di gesti minimali ripetuti a creare dei loop, e pare assumere sembianze animali. È immersa in immagini di vario tipo che ci suggeriscono paragoni tra il suo corpo e quello animale e la trasportano in universi immaginari popolati dai disegni di Oreste Zevola o dagli imponenti grattacieli di New York (fig. 13). La particolare disposizione delle luci disegna forme astratte che non svolgono solo la funzione di illuminare il corpo, ma diventano altre presenze vive.
Il suono elettronico è continuo e penetrante e si muove all’interno di uno spettro molto ampio, da frequenze molto alte e acute a quelle più basse e gravi. Le immagini e i suoni si susseguono senza un evidente nesso narrativo, anche se si possono rintracciare delle corrispondenze tra corpo, suono e immagine proiettata. Il lavoro di Roberto Paci Dalò crea un ambiente sonico immersivo che agisce in maniera diretta sui corpi degli spettatori.
È come se si entrasse dentro la testa di Agamben attraverso la sua voce, è come se il contenitore nel quale noi tutti ci troviamo, ovvero la scena, fosse la sua testa .
In questo modo il testo, diventato pre-testo, viene proposto al pubblico per evocazione. Il suono acusmatico e la capacità di attivare simbologie archetipiche , nonché le caratteristiche proprie del suono elettronico quali la possibilità di usare uno spettro acustico ampio, sono utilizzate da Dalò, come già abbiamo visto fare a Gibbons, per oltrepassare il livello denotativo-narrativo. Nel caso di Animalie però, non si riconoscono Figure soniche, non si punta alla sensazione legata alla Figura, ma piuttosto a un’alterazione della percezione che deriva da un lavoro basato sulla ripetizione, sul loop e sulle frequenze. Si può pensare ad un tentativo di ricreare una versione elettronica dello stato di trance, che nei rituali classici veniva indotto con strumenti analogici, spesso basati anch’essi sulla ripetizione. In questo senso non si può che mettere in relazione il lavoro di Roberto Paci Dalò con le riflessioni sull’azione efficace, citate nel cap. II., che hanno percorso le avanguardie del Novecento da Kandinskij ad Artaud. L’idea espressa dal pittore russo riguardo alla necessità di indurre delle vibrazioni psichiche nello spettatore, e che queste fossero l’unico mezzo per mettere realmente in comunicazione l’interiorità dell’artista con la platea, ci può essere un utile strumento per interpretare il lavoro di Paci Dalò, da sempre molto concentrato sul “lavoro dello spettatore”.
Nella riflessione di Agamben questo interesse trova un’interessante ispirazione. I “mondi percettivi ugualmente perfetti e collegati tra loro come in una gigantesca partitura musicale” , di cui tratta il filosofo, si materializzano letteralmente sulla scena. Suoni molto acuti che evocano ronzii di insetti sono associati a immagini generate da sistemi di motion capture, che possono ricordare qualche simulazione della vista di una vespa o di una mosca. Il “piccolo” degli insetti si incontra con il “grande” di coccodrilli e grattacieli, passando soprattutto da un’alternarsi di sonorità dalle frequenze molto diverse. La relatività della percezione umana viene fisicamente esperita con un susseguirsi di micro-mondi creati acusticamente e visivamente ad-hoc. 3.2.3. Il testo acusmatico
Stelle della Sera è uno spettacolo teatrale in cui Giardini Pensili lavora su una parte di Tele di Gabriele Frasca , testo composto da cinque “tragediole, [...] stazioni nel percorso che procede verso la dissoluzione del personaggio e la progressiva messa in scena dello spettatore” . Lo spettacolo debutta a Rimini nel maggio 2005.
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Il dispositivo scenico di Stelle della Sera ripropone una modalità che nel corso di questa analisi abbiamo incontrato spesso. Ancora una volta in scena non sono presenti oggetti, fatta eccezione per due sedie da cinema su cui stanno gli interpreti, ma superfici proiettive. Davanti ai corpi un tulle scherma la scena lasciandola visibile e al tempo stesso accogliendo le immagini che provengono dalla videoproiezione frontale. Le immagini sono tutte prese in tempo reale da una videocamera posta di fronte alla scena. In questo modo i corpi degli attori diventano essi stessi materiale scenografico, assieme alle luci (fig. 14). Il suono, costituito principalmente da una voce di donna registrata, è gestito e modificato dalla regia in tempo reale in modo che esso compia delle traiettorie spaziali nell’ambiente acustico costituito da un sistema di speakers.
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Gli interpreti sono immobili sulle sedie, l’unica, o quasi, azione che compiono è il reagire con delle espressioni facciali a ciò che viene detto dalla voce di donna che riempie tutto lo spazio acustico. I loro visi sono spesso ripresi e proiettati sul tulle, creando così un effetto di sovrapposizione tra corpo reale e corpo riprodotto. Il testo parlato scorre incessantemente per tutta la durata dello spettacolo e si rivolge direttamente agli interpreti-pubblico, portandolo a riflettere sulla loro condizione “qui e ora”. I due corpi presenti in scena sono di fatto lo specchio di quelli in sala, essi “subiscono” la voce tanto quanto il pubblico. Il modello comunicativo teatrale, che vede palco e platea come i due poli, emittente e ricevente, di uno scambio di informazioni, in un certo senso esplode. La voce sovrasta scena e pubblico in ugual misura mettendo letteralmente in scena il pubblico.
La caratteristica di Stelle della Sera, così come di altri lavori di Giardini Pensili, è quella di utilizzare uno spazio tradizionale - come il teatro all’italiana - per dare vita a eventi resi immersivi grazie a un attento uso del suono. In questo caso la voce che recita il testo di Gabriele Frasca, costruito con una metrica particolare, diventa il vero emittente nella comunicazione. Ciò che interessa è che questo emittente è invisibile, perciò acusmatico, e delocalizzato. Il testo, fittissimo di parole, perde progressivamente le sue caratteristiche semantiche per diventare flusso sonoro. L’ascolto acusmatico prolungato e immersivo sposta l’attenzione dalle parole al suono, al ritmo. Si può dire, con Nancy, che innesca un ascolto puro, inteso come opposizione al sentire per intendere . Con esso si abbandona l’approccio intellettuale intepretativo e si accede ad altri universi di senso attraverso il suono e il significante. Il corpo di chi ascolta diventa:
una soglia acustica, un confine tra il sonoro mondo esterno e quello interno; nell’ascolto puro si mette in pratica quella particolare condizione di tensione in cui si è totalmente coinvolti nell’esperienza simultanea di ascoltare un dentro e un fuori .
Giardini Pensili agisce ancora una volta in maniera intenzionale sulla percezione dello spettatore, utilizzando le tecnologie del suono per trascendere il testo. Per portare chi guarda inconsapevolmente ad uno stato di alterazione. Frasca scrive:
Non basta sentire. Non è certo questo che vi ha spinto qui. Occorre che proviate. A sentire di sentire. A sentirvi di sentire. A sentirvi sentire di sentire. Occorre che ve ne sia data la possibilità .
Roberto Paci Dalò crea un dispositivo audio-video tale da provocare questa riflessione, più che attraverso le parole stesse, attraverso un ascolto puro indotto.


Capitolo 5
EsperienzeIn questo ultimo capitolo sono raccolte le trascrizioni delle conversazioni che chi scrive ha avuto con gli artisti e che sono servite come fonte preziosa di riflessione e guida nel lavoro. Esse hanno, in un certo senso, la funzione di dare voce alle esperienze di cui si è trattato nel corso della nostra analisi. Abbiamo ritenuto opportuno strutturare questo materiale alla stregua di un capitolo in modo da non relegarlo a semplice appendice del discorso teorico. Proprio la natura della nostra analisi infatti, strettamente legata e discendente dalle esperienze empiriche, ci suggerisce l’opportunità di mettere in rilievo il lavoro di riflessione e di confronto che è avvenuto “sul campo”. Le direzioni seguite dalle varie conversazioni variano molto a seconda dei casi, esse presentano punti di vista a volte diversi sul fenomeno che abbiamo indagato e a volte significative convergenze. Riteniamo pertanto che siano un giusto completamento di un discorso che ha cercato di non perdere mai di vista la varietà del suo correlato empirico. I paragrafi, dedicati ognuno all’incontro con un artista o con i membri di una compagnia diversa, sono presentati secondo l’ordine in cui gli incontri si sono effettivamente svolti, e anche da questo punto di vista si concentrano su aspetti diversi dell’analisi.

5.1. Conversazione con Roberto Paci Dalò di Giardini Pensili
Per introdurre questa discussione sulle diverse forme della tua opera, vorrei cominciare parlando dell’utilizzo del testo. In Animalie (2002) utilizzi un testo anomalo per la scena, L’aperto, l’uomo e l’animale di Agamben , in che modo?
Roberto Paci Dalò: Il testo di Giorgio Agamben è un testo abbastanza complesso e assolutamente non teatrale, anche se in teatro si può usare tutto non mi sembrava interessante farlo in maniera letterale. Inoltre mi interessava il fatto di pensare ad uno spettacolo non solamente come la messa in scena di un testo, ma come materiale speculativo, ovvero pensarlo come una glossa, un commentario che non passasse attraverso le parole. Dato che le parole già sono nel testo di Agamben, e sono molto ben organizzate, non mi sembrava interessante aggiungere altre parole, ma utilizzare le tecniche dello spettacolo, del teatro. Il testo è fondamentale, è scatenate di tutto ciò che succede in scena, si può quindi dire che si tratta di una messa in scena di quel testo anche se non ci sono parole intellegibili.
Come intervengono i media digitali sul testo?
R. P. D.: Si è potuto fare il lavoro in un certo modo solo perchè esistono le tecnologie digitali, non è un giudizio rispetto al valore del digitale ma una constatazione, un dato di fatto: questo spettacolo può esistere in questo modo solamente perchè esistono le tecnologie digitali altrimenti sarebbe altro, nè meglio nè peggio, soltanto diverso.
Prima di tutto è stata registrata la voce dell’autore che legge, poi frammenti di queste registazioni sono stati elaborati attraverso la sintesi granulare. In pratica l’elaborazione avviene scomponendo e ricomponendo il suono su frammenti minimi e poi ricombinandoli attraverso una composizione e ricomposizione che permette di creare materiali nuovi e cangianti. Il fatto interessante è che non c’è aggiunta di suoni sintetici, il risultato della sintesi granulare dipende solo dai materiali stessi e dal tipo di programmazione che può basarsi su parametri più o meno complessi. Un file di 4 secondi della voce di Giorgio Agamben, che viene processato attraverso la sintesi granulare, può diventare 4 minuti di suono. È chiaro che in questi 4 minuti di suono accadono una quantità di cose che trascendono il materiale originale.
Una cosa interessante, e casuale, è che alcuni di questi parametri applicati alla voce producono dei suoni strani che evocano delle voci di animali; succede così che il testo di Agamben, trattato con la sintesi granulare, appare in scena non riconoscibile, ma al suo posto emergono le voci degli oggetti del discorso.
L’animale viene evocato attraverso la voce dell’autore, che in un certo senso si fa bestia. Il lavoro che viene fatto in Animalie con la sintesi granulare e altri apparati digitali per il suono, è principalmente orientato sulle altezze del suono, in maniera da espandere molto le possibilità di quest’onda. È come se si entrasse dentro la testa di Agamben attraverso la sua voce, è come se il contenitore nel quale noi tutti ci troviamo, ovvero la scena, fosse la sua testa.
Si tratta di una scena acustica che ha addirittura piu impatto della scena visiva; la cosa importante infatti, da un punto di vista teatrale e drammaturgico, è che il suono, apparentemente astratto, agisce su parametri che sono molto piu legati al corpo rispetto all’immagine stessa.
L’immagine sta sempre “fuori”, mantiene sempre una certa distanza rispetto a chi la guarda, invece il suono, nella sua apparente inesistenza, coinvolge direttamente la nostra sensorialità. Si tratta di una cosa molto fisica che ha una spiegazione tecnica precisa: si sa che ci sono una serie di frequenze che provocano determinate vibrazioni sia a livello di architettura teatrale che a livello corporeo, ovvero di scheletro e di stomaco.
Si può dire che, grazie alla natura acusmatica del suono digitale, agisci per evocazione, per allusione, per archetipi sonori?
R. P. D.: Si, Possiamo parlare di evocazione di un testo più che di denotazione. Ovviamente oltre al suono, che in questo caso è molto importante, ci sono anche gli altri elementi come l’interprete, e tutto il resto della scena.
In Animalie mi pare che si realizzi la nozione di ambiente (mi riferisco ai testi di E.Quinz ), sei daccordo? Quale rapporto volevi instaurare con lo spettatore? Mi riferisco in particolare allo sviluppo dei tuoi lavori incentrati sulla trance e sulla percezione alterata del suono e dell’immagine (Italia anno zero, Trance Baxxai ... ecc).
R. P. D.: Si, tutti questi lavori lavorano sul concetto di trance come, per esempio, anche Stelle della sera (2005) in cui è applicata una vera propria strategia per condurre ad uno stato alterato. In questo caso ho utilizzato un testo (Tele: di Gabriele Frasca ) che scorre compatto per 58 minuti, caratterizzato da una struttura metrica precisa spesso fatta di endecasillabi.
Il fatto di lavorare sulla trance non è nulla di straordinario, è semplicemente un riferimento diretto all’origine del teatro, mi riferisco in particolare al concetto di dionisiaco, al teatro ellenistico, alla tragedia classica. Nel mio lavoro tutti i dispositivi, ovvero gli spettacoli, sono macchine che servono a provocare in maniera più o meno esplicita questo stato. In lavori come Animalie o Stelle della sera si utilizzano spazi teatrali canonici, quali il teatro all’italiana, ma allo stesso tempo si creano le condizioni affinchè lo spettatore si trovi dentro allo spettacolo in maniera fisica. È in questo senso che ho pensato l’immagine e il suono, in maniera che agissero sulla sensorialità.
Al di là di ogni giudizio estetico mi piace pensare che il tempo passato a vedere un mio spettacolo sia dedicato a qualcosa che va fuori dall’ordinario, mi interessa fare in modo che lo spettatore, arrivando nel luogo dello spettacolo, acceda ad un particolare stato percettivo. Grazie alle tecnologie è possibile lavorare su degli spazi canonici affinchè diventino altro e ciò passa attraverso la gestione di luce, suono, proiezioni, eccetera. Non mi preoccupo di essere capito o approvato, mi preoccupo però molto del fatto che lo spettatore veda ciò che io desidero o che si senta in un certo modo. Ovviamente si richiede un certa predisposizione a lasciarsi andare a chi guarda, è per questo motivo che si costruisce un manufatto che obblighi a perdersi per un attimo. Mi interessa obbligare lo spettatore a “stare” in un modo-altro. Si tratta di strategia, di drammaturgia intesa nel senso di considerare tutti gli elementi che influenzano il montaggio dei materiali, determinandone così il tipo di percezione. Per questo motivo mi interessa creare eventi che di volta in volta utilizzino lo stesso materiale in circostanze diverse: perchè ciò apre a infinite possibilità di fruizione e quindi di interpretazione.
Da un punto di vista tecnico in che modo costruisci un ambiente?
R. P. D.: Si lavora spesso sulla spazializzazione del suono. In Animalie questa è abbastanza semplice, ma in altri lavori, per esempio Cosmologie (2002) o Stelle della sera, c’è una ricerca più approfondita su questo aspetto. In generale significa che il pubblico si trova all’interno di un cerchio di altorparlanti e il suono viene gestito attraverso un particolare software in modo che si sposti nello spazio.
Questo procedimento è stato usato moltissimo da Bob Wilson e dal suo collaboratore Hans-Peter Kuhn, che facevano in modo che gli spettatori si trovassero di fronte ad una scena completamente bidimensionale e contemporaneamente all’interno della scena acustica. Quando si usa il testo, come in Stelle della sera, la spazializzazione apre degli universi inimmaginabili, si pensi all’effetto che può avere una frase qualsiasi sussurrata ininterrottamente da un angolo particolare della sala.
Questo è un modo per creare degli ambienti sensibili, come dice Paolo Rosa (uno dei membri fondatori di Studio Azzurro n.d.r.), dove tutto è un campo elettrico. Con il digitale, dal mio punto di vista, si assiste a una presa di coscienza del fatto che viviamo all’interno di ambienti elettrici; anche per quanto riguarda il dispositivo teatrale ci si rende conto che c’è una tensione tra i vari elementi, c’è una possibilità di interazione.
E per quanto riguarda l’immagine, la nozione di ambiente come si realizza?
R. P. D.: Innanzitutto la presenza umana dell’interprete è fondamentale e grazie alle tecnologie il suo stesso corpo può creare la scena. In questo caso non si tratta più solo di un attore davanti ad un fondale video, ma del fatto che, per esempio, i suoi stessi occhi, proiettati su una superfice di 10 metri, possono diventare la scena stessa. In questo modo si può pensare all’interprete in maniera plurima. Con l’uso delle tecnologie se ne accentua l’importanza, al contrario di quanto si è portati a pensare, il suo corpo è ora in grado di scatenare una serie di eventi legati alla luce, al suono, all’immagine video.
Riferendosi all’uso (appropriato) dei media digitali in teatro Steve Dixon ha utilizzato il termine “enanced theatre”, teatro aumentato , (sul concetto di teatro espanso come rottura dei confini tra i formati mi soffermerò più tardi), ritieni che sia reale l’immagine di una scena che in un certo senso “potenzia” le sue caratteristiche? Secondo te quali?
R. P. D.: A questo proposito mi pongo sempre una domanda: perché usare le nuove tecnologie? non è obbligatorio! Ci deve essere una motivazione che non sia solo economizzare sui costi, o riferirsi ad un immaginario cinematorgrafico. Ci deve essere qualcosa che vada al di là, serve qualcosa che oltrepassi l’irruzione dell’immaginario cinematografico in teatro, ci siamo ormai abituati allo schermo, all’immagine di sintesi.
La trasmissione a distanza dell’immagine penso che possa rappresentare delle soluzioni interessanti. Di recente uno spettacolo di Heiner Goebbels mi ha fatto riflettere su questo aspetto. Per gran parte dello spettacolo venivano proiettate in sala (teatro Argentina) delle immagini in diretta dell’attore che camminava per la città (Roma), fino a prendere un taxi ed entrare in casa. L’azione scenica era riportata nel teatro ma si svolgeva altrove, addirittura in una cucina dove l’attore preparava due uova! Questo uso della tecnologia mi ha stupito, è stata una dimostrazione del fatto che si possono trascendere gli usi classici dei media e con un loro uso intelligente è possibile veramente espandere la scena al di là dei propri confini. Mi pare che questa sia l’ulteriore dimostrazione del fatto che è necessario pensare le tecnologie per le loro qualità specifiche e non come imitazioni di altre.
Un’altra cosa che mi sembra interessante è che, grazie ai modi di pensare veicolati dalla tecnologia, si possano trattare dei materiali della tradizione in maniera nuova, rivitalizzandoli. È come se si trovassero diversi modi per stupirci di cose che non ci sorprendono più. Nel solco della tradizione si possono trovare molte cose nuove, il che non significa assolutamente porsi con una prospettiva filologica o conservatrice. Mi riferisco, per esempio, a un mio spettacolo, Shir-hashirim (2000), basato sul cantico dei cantici. Mi è capitato che alcune persone uscendo mi chiedessero meravigliate di testo si trattasse, questa mi è sembrata una cosa importante!.
Il fatto di riuscire a creare un rapporto nuovo con dei materiali che si sono banalizzati, di trasformare il quotidiano in un territorio di esplorazione, di incognita ha un grande valore. I nuovi media agiscono in questo senso come una lente d’ingrandimento, amplificando suoni, immagini, parole. Fornendo punti di vista nuovi su cose apparentemente normali o troppo piccole per essere viste. Oppure può accadere che attraverso i nuovi media si problematizzino degli equilibri apparentemente consolidati della relazione teatrale.
Per esempio, nel mio spettacolo Metrodora (1996) la scena era costituita da un’immagine di Berlino trasmessa da una web-cam. Si trattava di un’immagine dal vivo della città, e non era ovviamente come se fosse stata registrata, essa problematizzava la nostra presenza come performer e spettatori, ci delocalizzava. Questo è un esempio dello scarto percettivo che crea un immagine dal vivo rispetto ad un immagine “dal morto”.
Mi viene in mente il concettto di virtuale utilizzato da Lèvy per indicare, in un certo senso, l’amplificazione delle nostre possibilità, delle possibilità del nostro corpo.
R. P. D.: In realtà si tratta forse più che di un’amplificazione di una vera e propria “art to be everywere”, cioè il fatto che attraverso il telefono il video internet ecc, un individuo è presente in molti posti contemporaneamente e in molte forme diverse. Pensare che il teatro ti permetta questa com-presenza è importante, lo spettacolo stesso diventa un’interfaccia verso un altrove, in questo modo trascendi l’autoreferenzialità che caratterizza certi prodotti artistici. Crei qualcosa che va oltre il tuo lavoro e te stesso, che innesca delle reazioni e delle relazioni.
Per lo studio dell’utilizzo dei media in scena mi pare molto importante il concetto di virtuale così come postulato da Deleuze e descritto da Lévy come uno stato del reale al quale corrispondono diverse attualizzazioni; mi pare che la virtualità, gia intriseca nel fatto teatrale, venga “aumentata” dai nuovi media, mi riferisco in questo senso ad uno spazio scenico pressochè vuoto pensato per ospitare attualizzazioni temporanee di realtà virtuali (oggetti sonori, immagini video), sei daccordo?
R. P. D.: Non ho mai usato molto la parola virtuale fino a che, parlando con Luca Ruzza, non ho superato il pregiudizio che associa a questa parola un certo grado di irrealtà. Dato che, per la particolare natura del mio lavoro, non potevo accettare una parola che connotasse come “meno reale del reale” tutto quanto è legato all’universo elettronico, non avevo mai usato il concetto di virtuale.
In seguito ho capito che mi sbagliavo proprio per il particolare valore della virtualità di cui parlavi. Effettivamente ora sono daccordo con questa immagine della scena vuota che viene repentinamente caricata di materiali, per creare un insieme di luoghi-altri cangianti e dinamici. Ciò che trovo interessante è proprio questo aspetto dello stare in più luoghi, ma in maniera dinamica, ovvero nel viaggio continuo tra questi luoghi. Rispetto a internet trovo che ciò sia fondamentale, la rete è fatta di persone che vivono continuamente in luoghi altri, costruendosi altre identità, e durante queste “migrazioni” si realizzano delle vere e proprie comunità. Il crearsi di una collettività, l’incontrarsi, per me dà senso a tutto il lavoro fatto nell’universo del virtuale. Mi interessa costruire dei luoghi di azione collettiva e ciò può accadere attraverso uno spettacolo o un laboratorio.
È importante che nelle persone che vengono a vedere uno spettacolo avvenga una presa di coscienza, qualcosa che gli faccia abbandonare una posizione passiva per abbracciarne una partecipante e creativa, ed essere parte di qualcosa come individuo attivo. Il fatto di creare situazioni che favoriscano incontro inaspettato tra le persone per me è molto importante, più si lavora collettivamente creando delle comunità cangianti più si dà la possibilità alle cose e alle persone di sorprenderci, in tutto questo l’opera è ovviamente importante in quanto è ciò che scatena e motiva l’incontro. È necessario produrre degli oggetti, incontrarsi con uno scopo e farlo con una buona dose di gioco.
A questo proposito so che spesso utilizzi, nei tuoi spettacoli, dei software creati appositamente dai tuoi collaboratori.
R. P. D.: Si, per Animalie ho utilizzato un software elaborato dalla fondazione STEIM, ma in generale è una cosa che faccio spesso. Spesso abbiamo utilizzato software open-source creati in collaborazione con Jaromil (hacher professionista ndr.). Prima di tutto va detto che quando parlo di comunità la mia simpatia si rivolge ad alcune in particolare, connotate da un certo tipo di valori, mi riferisco a programmatori, hacker di qualità ecc., e quindi per me il fatto di sostenere certe realtà come Linux, Dyne ecc.è una scelta politica.
Inoltre c’è anche l’aspetto importantissimo del media lab permanente; il media lab è delocalizzato e sempre esistente e si realizza fisicamente solo in alcuni luoghi e momenti. Capita che durante la presentazione di un lavoro in regia si sia connessi in rete e che si lavori in collaborazione con altri per, per esempio, implementare il codice di certi software. Quando questo succede si assiste ad una delocalizzazione: si è in sala, ma contemporaneamente si è altrove. Questo avviene in maniera ancora più evidente quando c’è uno scambio di materiali direttamente sulla scena come mi è capitato in casi come La lunga notte (1993), che era un concerto radiofonico che si svolgeva tra Rimini, Colonia, Innsbruck, Gerusalemme.
Nel tuo lavoro è molto importante il live e quindi il processo, in un lavoro come Animalie dove si colloca lo spazio dato al processo?
R. P. D.: Quello che succede in tutti i nostri lavori è che ci sono due spettacoli, uno sul palco ed uno in regia e la performance si sviluppa su questo duplice piano. Prima di tutto ho la necessità di avere sempre regie unite in cui tutte le persone possano comunicare tra loro, vedersi, in uno spettacolo come Animalie è fondamentale perchè nulla è scritto, tutto avviene in live. La regia è importantissima perchè quando il tecnico è una persona che crea, non solo che esegue, diventa luogo di performance. In certi casi, come per esempio per Scanning Bacchae (1997) avevamo messo la regia davanti al publico, in modo che si potessero vedere le due azioni: quella sulla scena e quella dell’elaborazione del suono e dell’immagine. Era un modo per enfatizzare l’importanza della regia, per rendere visibile il dispositivo.
In Animalie l’interazione scena-regia avviene su più livelli, sonoro, video e di luci, non dimenticando il corpo dell’interprete che fornisce il materiale per le riprese. Nella seconda parte sono molto importanti le luci, che hanno una loro identità pittorica, di personaggio, in questo caso mi serviva un mixer meno evoluto di quello digitale perchè meno automatizzato. A volte capita di andare a ricercare tecnologie meno avanzate perchè più funzionali alle mie esigenze.
Che importanza ha il concetto di database/archivio e le logiche ad esso associate (selezione e composizione) nel tuo lavoro?
R. P. D.: Ha un importanza assoluta, mi piace riferirmi ad un archivio perchè significa innanzitutto avere a che fare con la memoria. Lavorare con materiali sconosciuti, obsoleti, dimenticati come ho già detto è importantissimo, è una cose che motiva il nostro lavoro. Penso, per esempio, al museo della guerra di Rovereto delle realizzato da Gianikian e Ricci Lucchi, in cui le immagini di repertorio diventano qualcosa di assolutamente nuovo. Tutto ciò diventa ancora piu importante nel momento in cui c’è l’incontro/scontro con la rete, che è di fatto un enorme database. La creazione di un database, e quindi l’organizzazione e la ricerca dei materiali consente in seguito la realizzazione di molti altri oggetti.
Bisogna dire che, da questo punto di vista, l’immagine rispetto al suono è molto più carente, infatti il suo grado di aderenza al reale è molto diverso: in un caso una voce registrata resta lo stesso oggetto, fatto della stessa sostanza, nell’altro, mi riferisco ad una foto di un volto, ad un film, si tratta di qualcosa che può al massimo evocare l’oggetto di partenza. Per questo motivo lavorare su voci del passato, come per esempio avviene per la voce di Mussolini in Italia anno zero, è qualcosa che conduce chi ascolta immediatamente in un universo preciso.
Ti capita di riutilizzare materiali che fanno parte del tuo database e ricomporli in formati diversi?
R. P. D.: Mi capita in continuazione, è lo stesso principio che governa anche l’uso delle parole nella scrittura. Mi riferisco in particolare ad Heiner Müller, che riscriveva in continuazione i propri testi che a loro volta si riferivano a materiali già esistenti. L’archivio piano piano cresce e viene in continuazione messo in discussione dalla creazione di opere diverse, dove queste opere hanno però dei fili conduttori che le uniscono, ovvero i materiali stessi. Qui si vede la forza dei materiali, che fanno in modo che un suono o una voce attraversino nell’arco degli anni lavori diversi rendendosi riconoscibili.
Parli spesso di teatro espanso, ritieni che l’utilizzo dei nuovi media conduca a un’esplorazione e a una creazione di formati diversi? Perchè? In quale direzione?
R. P. D.: Credo di si anche se non mi interessa l’accumulo, non mi interessa mettere insieme tutto: le tecnologie i linguaggi ecc.. Sento la necessità di approfondire degli aspetti specifici e per questo motivo è necessario azzerarne altri.
Per esempio in Animalie, mi interessava a tal punto il testo di Agamben che non potevo assolutamente usarlo. Attraverso i vari dispositivi ho quindi lavorato sul testo ma senza ricorrere alle parole, ho agito per sottrazione. Penso che attraverso le tecnologie si possano costruire formati, espanderli in direzioni altre, ma soprattutto espandere il modo di pensare, e ciò può avvenire solo se all’uso di queste tecnologie è associata una riflessione. Mi piace riflettere sulla specificità delle singole tecnologie e di conseguaenza sulle specificità dei singoli formati.
Penso che non ci sia una direzione privilegiata di questa espansione, credo che sia interessante pensare a una compresenza, a un proliferare di formati, anche teatrali, decisi in base al tipo di progetto. Come Giardini Pensili creiamo spesso diverse versioni degli spettacoli, proprio per mettere a fuoco degli aspetti diversi di uno stesso oggetto. Per esempio se desiderassi lavorare sul testo potrei fare qualcosa on-line, magari un blog, se volessi concentrarmi sulle immagini dello spettatore potrei creare un pezzo per la radio, oppure se volessi consentire una fruizione “libera” farei un’installazione. Si tratta di una riduzione, si scelgono i materiali in base alle tecniche drammaturgiche che si vogliono realizzare, per questo l’espansione del teatro è un’espansione da un certo punto di vista può far diminuire la quantità di materiali.
Secondo te è possibile che attraverso le tecnologie sia più facile isolare dall’organismo unitario “teatro” alcuni elementi e che di conseguenza sia più facile creare dei formati che approfondiscono per sottrazione, come dici tu, solo l’aspetto testuale, d’immagine, di suono, di relazione?
R. P. D.: Certo è proprio questo il punto. Ciò è possibile perchè stiamo parlando di teatro, perchè la sua specificità è il fatto di essere un luogo di incontro di linguaggi.