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Date:
Tue, 22 Mar 2005 21:10:23 +0100 (CET)
From: Eleonora Megna <ele_m82@yahoo.it>
To: dalo@giardini.sm
Riflettendo su quanto si è detto durante i due incontri e,
in particolare, sulla fondamentale importanza del montaggio, mi sono venute
in mente alcune riflessioni di Sergej M. Ejzenstein e Dziga Vertov.
il montaggio "è conflitto"...il montaggio "è
un pensiero che trae origine dallo scontro di due pezzi, indipendenti
l'uno dall'altro (principio drammatico)" (Ejzenstein, 1929)
"...io monto quando scelgo il soggetto...io monto quando osservo
il soggetto...io monto quando stabilisco l'ordine di successione del
formato sul soggetto" (Vertov, 1924)
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Date:
Tue, 22 Mar 2005 23:46:58 +0100
From: "Wenting, Yang" <igachar@anet.net.tw>
To: <dalo@giardini.sm>
1.
La tecnologia andrebbe utilizzata nel teatro?Soprattutto nel piano dei
contatti con gli interpreti?
La questione fondalmentale è l’aggiunta di un nuovo linguaggio
in questa macchina narrativa, l’uso del multimedia ci fa di nuovo
riflettere su che cosa è la forza del teatro, gli elementi fondalmentali
che hanno compsto il linguaggio narrativo del teatro: i performer, lo
spazio e lo spettatore
Mentre parlavamo di questo argomento, mi è venuto subito in mente
l’abuso delle immagini proiettate, i film girati messi sotto fondo
e poi magari vanno richiamati dai protagonisti durante la rappresentazione.
Quello che conta, secondo lei, è trovare una possibilità
per far convivere questi diversi elementi e metterli in comunicazione
fra loro. Penso che raggiungere questa possibilità di metterli
in comunicazione possa essere un’idea interessante, però
molto frequentemente vediamo le immagini che vanno proiettate causualmente,
sia per il cosidetto “spiegare” il dramma, sia per “rilevare
le cose nascoste” ect. Il fatto è che non solo hanno rovinato
la forza narrativa del teatro, ma anche la buona riuscita degli incontri
di linguaggi diversi. E quindi eviterei la troppa libertà di ultilizzare,
di inserire questi mezzi dentro gli spettacoli.
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From:
"AnnaChiara B" <murjesi@hotmail.com>
To: dalo@giardini.sm
Date: Thu, 24 Mar 2005 22:24:57 +0000
X-OriginalArrivalTime: 24 Mar 2005 22:24:57.0865 (UTC)
Finalmente ce l'ho fatta anch'io a scrivere! Non trovavo mai il tempo,
purtroppo...
Questa è la mia e-mail, come d'altronde avevo già scritto
sul foglietto.
Aggiungo una frase, tratta da un film di Clint Eastwood "Mezzanotte
nel giardino del bene e del male", che io personalmente adoro:
"La verità, come l'arte, è nell'occhio di chi guarda"
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Date:
Sat, 26 Mar 2005 16:36:18 +0100 (CET)
From: rosalba trozzi <keishaly2@yahoo.it>
To: dalo@giardini.sm
Salve!
stamattina, cercando di registrare qualcosa di interessante in giro per
Bologna, mi sono resa conto di quanto ciò sia difficile. Riflettevo
sul fatto che ormai sono sorda ai suoni della città, sono talmente
abituali che non li noto più. O meglio, tutti i rumori io
li percepisco come un unico suono fondamentale, il suono della città
appunto. Mi sono sorpresa nel sentirmi angosciata pensando all'eventualità
di non poter più sentire quel suono, indice delle vite che ti girano
attorno. Al di là di questo, la difficoltà sta nel riuscire
ad entrare dentro questo suono, a scomporlo e ad isolare i suoni che mi
hanno colpito particolarmente in relazione alla poesia. Comunque dopo il
classico blocco iniziale nell'affrontare una cosa nuova,qualche idea
è uscita fuori.
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Date:
Sat, 26 Mar 2005 19:34:52 +0100 (CET)
From: yuio <yuio_2@yahoo.it>
To: dalo@giardini.sm
Soudscape(Emily Dikinson)....
Ciò che più mi è rimasto di questi tre giorni di
laboratorio con un tentativo di ricollegare ai concetti i materiali ascoltati
e visti.
L’attore
Nei miei non tantissimi anni di vita mi sono abbastanza spesso confrontata
con il problema dell’attore, nelle esperienze diverse che ho fatto
ho trovato dei punti comuni fondamentali che hanno contribuito a creare
in me un’idea di quello che un attore dovrebbe essere, ne è
uscito un animale interessante, dotato prima di tutto di una grande capacità
di ascolto e di comprensione. Il lavoro che l’attore fa su se stesso
comincia sempre dal proprio ombelico.. (poi ce ne sono che lo trovano
cosi bello che si fermano per sempre li!)..dal proprio centro, dalla conoscenza
del corpo della voce del cuore della testa, dalla consapevolezza dei propri
limiti, e punta ad acquisire la massima consapevolezza di questi “strumenti”.
Lo scopo è quello di possedere uno scheletro cosi solido, così
flessibile e scintillante, da poter sostenere e far brillare qualunque
pelle, di avere sotto controllo in maniera razionale e lucida ogni cosa
per lasciare lo spazio a cuore e istinto, di divertirsi scatenando meravigliosi
imprevisti, di costruire solide architteture in cui attendere senza paura
inondazioni e terremoti.
Il regista-architetto
In questi giorni la mia attenzione si è concentrata su un altro
livello di questa meravigliosa costruzione collettiva che è il
teatro. Parlando di regia con Roberto Paci Dalò (in realtà
parlava quasi solo lui ma l’alternarsi di voci registrate e di suoni
e le immagini evocate hanno lasciato in me il ricordo di un vivace dibattito
più che di una lezione accademica) ho spostato per un pò
il mio punto di osservazione. L’animale che ho conosciuto in questi
giorni, il regista, mi è apparso anche esso lavorare in una dialettica
di raziocinio e creatività, di previsto e imprevisto. Architetto
direi, nel senso di progettatore di spazi, di guida delle percezioni di
chi abita quegli spazi. Attraverso il suono, le luci, le parole, questo
particolare architetto costruisce stanze, corridoi, arene dove fare incontrare
e scontrare i suoi interpreti. Se infatti la vita dell’evento teatrale
risiede nel conflitto, nel senso che se non c’è nessun problema
non c’è nulla da dire, non c’è scena, sta al
drammaturgo prima e al regista poi dare corpo a questo conflitto.
La parola che diventa suono
A questo proposito mi sembra importante la riflessione sul valore del
testo drammatico, dal quale sembra allontanarsi sempre di più molto
teatro contemporaneo, mi viene in mente Romeo Castellucci, direttore della
prossima biennale di Venezia, quando afferma che, nell’eterogeneità
delle esperienze selezionate per l’edizione del 2005, l’unica
costante rintracciabile è il rifiuto della messa in scena di un
testo tout court . Se dunque la rappresentazione di un testo non è
sufficiente al regista per dirsi tale, ecco che gli si aprono nuove più
complesse possibilità e responsabilità. Il testo drammatico
diventa la scintilla che appicca l’incendio, diventa scatenante
e non determinante, e così nascono tutte quelle strane creature
difficilmente incasellabili nel formato teatrale inteso in senso ottocentesco.
Ciò avviene “tradendo” il testo, andando oltre alle
parole scritte, arrivando al punto di non volerle nemmeno udire o di farle
diventare puro suono. Non si può ovviamente non rintracciare il
padre spirituale di questo pensiero in Carmelo Bene , che “suonando”
le vocali e le consonanti delle parole scritte riusciva ad accedere ad
universi di senso molto più profondi ed intimi di quelli letterari.
La parola quindi, diventa solo uno dei molteplici livelli sui quali lavora
il regista, egli non mette più al primo posto il senso ma la percezione.
Comprensione Vs. Percezione
Ho trovato interessante, anche se forse apparentemente provocatorio, l’elogio
fatto da Roberto Paci Dalò del dormire a teatro. Oltre ad essere
una strategia di difesa da spettacoli noiosi, la fruizione dello spettacolo
in uno stato a metà tra il sonno e la veglia è qualche cosa
che elimina la mediazione della nostra ragione, sempre alla ricerca del
senso e lascia il posto ad una fruizione più istintiva basata sulla
percezione, sul ricordo confuso, sulla sensazione. Con questo non si vole
invitare all’utilizzo del teatro come cura contro l’insonnia,
ma far riflettere su una modalità di fruizione “distratta”
dello spettacolo teatrale che già era propria del teatro dell’antica
Grecia e ora viene ricreata in maniera consapevole da spettacoli lunghissimi
o lentissimi come per esempio “Einstein on the beach” di Bob
Wilson.
L’agire in maniera programmatica sulle percezioni dello spettatore
può diventare così lo scopo del regista, il quale organizzerà
in maniera strategica i “materiali” a sua disposizione.
La potenza del suono
Uno dei materiali più potenti, pur nella sua intangibilità,
che questo particolare architetto può utilizzare è il suono,
la materia sonora, oltre ad essere infinitamente modellabile, è
in grado di creare realtà “immersive” paragonabili
solo agli universi fantastici delle simulazioni di realtà virtuale.
Assieme alla qualità immersiva del suono, che ne fa una delle possibili
vie per rompere la staticità frontale del rapporto pubblico-scena,
c’è anche la capacità della materia sonora di agire
direttamente sullo spettatore alterandone le percezioni. La consapevolezza
della potenza dionisiaca del suono risale ancora una volta a molto prima
della musica elettronica e dei rave, il ritmo della parola poetica, la
magia che scaturisce dal rigore della metrica, sono questioni già
ben conosciute dal tempo delle Baccanti di Euripide. Il regista contemporaneo
si trova così a poter lavorare sulle percezioni dello spettatore
fino a corteggiare uno stato di quasi-trance con strumenti che vanno dall’emissione
vocale , al suono elettronico.
I formati
Assieme alla libertà di non considerare il testo drammatico al
centro del suo “fare” il regista si trova anche davanti alla
libertà di scegliere mezzi e formati diversi da quelli tradizionalmente
legati al palcoscenico. Lo spettacolo infatti, fermo restando il principio
della “liveness”, che lo distingue dal cinema, e della determinazione
da parte del regista del tempo della fruizione, che la distingue dall’installazione,
esplode in mille occorrenze diverse di volta in volta legate ad un medium
particolare. Ciò che è fondamentale è la consapevolezza
delle specificità e delle potenzialità del medium. Se infatti
si sta utilizzando il mezzo radiofonico è necessario rispettarne
le regole, ma soprattutto sapere esattamente cosa ci è possibile
realizzare con questo mezzo e non con altri . Questa consapevolezza porta
anche ad inventarsi molteplici combinazioni possibili di uno stesso spettacolo.
Lo spettacolo non è più un oggetto chiuso, ma una delle
attualizzazioni di un progetto virtuale che a seconda delle condizioni
spazio-temporali assume una determinata forma. Da qui la possibilità
di creare palcoscenici virtuali in cui lo spettacolo che si svolge su
un palcoscenico fisico, trova un’altra delle sue possibili attualizzazioni
(progetto Itaca curato da Giardini Pensili per il teatro di Roma nel 1999).
Nella realizzazione di queste diverse manifestazioni dello spettacolo
è importante tenere conto delle modalità di fruizione, del
contesto in cui esso avrà luogo. In particolare nel progettare
“architetture sonore” destinate a luoghi non teatrali il regista
dovrà essere consapevole e saper sfruttare in maniera creativa
il paesaggio sonoro preesistente .
La creatività
Una qualità che ho sempre trovato affascinante degli architetti,
quelli bravi!, è il fatto di essere una specie di via di mezzo
tra un ingegnere e un pittore. La capacità di essere creativi dovendo
sottostare a delle regole e a dei criteri funzionali ben precisi, è
qualche cosa che mi intriga di più di un generico saper fare artistico.
La verità è probabilmente che nessun artista, bravo, agisce
senza regole ma in alcuni mestieri ciò è più evidente.
Continuando il mio paragone tra architetto e regista, mi piace pensare
a quest’ultimo come ad un individuo che fa scaturire la sua forza
creativa da una ricerca rigorosa. È infatti solo nella precisione
della costruzione scenica che può nascere l’imprevisto più
emozionante. Ed è solo dalla sperimentazione empirica e continua
che nascono progetti di valore . La creatività dà vita a
creature bellissime se non imbavagliata dalla paura o dall’autolimitazione
propria di molti individui. Infatti, come a livello macro gli stati creano
nemici immaginari per rafforzare il proprio potere e giustificare pessime
politiche interne, così anche l’uomo nel suo piccolo è
capace di crearsi molti nemici immaginari per giustificarsi il fatto di
non portare avanti i suoi progetti .
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