Lo scritto che segue è parte di un intervento presentato in ZEITGLEICH - Sound Installation and Media-Composition in the digital Age(Austria 3 - 5 giugno 1994) simposio che chiamava a riflettere sulla questione dell'arte nell'era digitale.
Ho pensato lungamente e faticosamente ad un intervento per questo simposio, ma non riuscivo ad andare oltre ad una difficoltà e ad un rifiuto. La difficoltà era quella di portare una riflessione che si inquadrasse tematicamente, senza sbavature e salti logici. Il rifiuto era quello di fare ciò il risultato erano pensieri costantemente fuori tema e con costanti salti logici.
Pensavo : io uso nel mio lavoro quotidiano qualcosa di antico e qualcosa di
moderno, uso la scrittura con le sue attrezzature rudimentali ma primarie e
insostituibili che sono penna carta libri, uso il mio corpo, uso la mia voce e
uso lo spazio. Uso lo spazio fisico quando si chiama teatro o sala da concerto o
studio di registrazione o studio radiofonico, e uso macchine. Le macchine
consentono che lo spazio che uso passi dallo spazio fisico allo spazio
non-fisico.
Etereo.
Gli antichi chiamarono etere quella parte più alta, pura e luminosa dello
spazio posto oltre il limite dell'atmosfera terrestre ossia il primo cielo, ma
già Aristotele nota come questa parola (posta a designare uno spazio)
richiama una peculiarità del tempo.
" essi chiamarono il luogo eccelso etere ... e gli diedero questo nome
perchè esso corre sempre."
(Aristotele "De coelo".)
Ma perchè mi è difficile o faticoso o solo momentaneamente
accessibile un pensiero della tecnologia, una "filosofia" della tecnologia?
Ho dovuto attraversare il rifiuto ed abitare questa difficoltà,
così poco a poco mi sono arrivate le parole.
Apparenza.
Etere.
Femminile.
E i meccanismi di combinazione di queste parole tra loro ed i loro contrari.
(Di questo soltanto posso dire perchè questo è ciò di cui
faccio esperienza e quindi, nella sua indubbia parzialità, non
può essere che tematicamente corretto).
Quella sull'apparenza ed il vero, posti non solo come dualità ma come
universi aperti e reciprocamente influenti, è un'idea che mi rotola dietro
dall' '89 da quel Temporale (pezzo teatrale) composto come nota sul
tempo e che portava come sottotitolo l' apparenza (appunto) e il
ritorno.
Allora un io drammaticamente posto a cercare un mondo che rivelasse sotto le sue
apparenze la sua vera essenza.
Ma cosa fa da spartiacque tra ciò che è apparente e ciò che
è reale?
L'abitare forse un luogo comune che per convenzione ci rende riconoscibili le
cose, leggibili gli eventi?
Ma l'apparenza o la parvenza, che un'interpretazione morale
vorrebbe solo ingannevole, è piuttosto un
Tante cose hanno attraversato questi anni, in me come individuo separato e in me
come parte di una comunità pensante, tante idee hanno attraversato e
sostato, più o meno fecondemente, nel mondo dell'arte, delle scienze, del
pensiero.
Nella coscienza collettiva uno scuotimento alle radici nella percezione del tempo
e dello spazio anche - non solo - a causa di una informazione ed una
comunicazione che diventano telematiche.
In me - ed è recente - una maternità.
Insieme a questa ma a lei anteriore perchè anteriore a me stessa e
tuttavia a lei riconoscente, una presa diretta oggi con una genealogia femminile
simbolicamente (non metafora ma simbolo) e fattualmente ripercorsa.
ripercorsa...
ripercorsa...
e che ridisegna tutta la mappa di una nuova/antica temporalità e
spazialità.
Credo che questo sia una capacità prettamente femminile quella di abitare,
più o meno felicemente, il paradosso del pensiero, curare la
sfaccettatura, aprirsi all'alchimia che cambia quando cambia il teorema.
Credo che il punto sia questo: come vivono insieme questi due percorsi
dell'assolutamente antico con l'assolutamente nuovo?
Due percorsi che attraversano due generi, quello femminile e quello maschile, da
sempre impegnati su tensioni differenti, l'uno della conservazione l'altro
dell'operatività, l'uno appartenente ad un universo spesso incondiviso,
l'altro che si muove nel pubblico.
Non mi chiedo se esistono una scrittura, un teatro, una politica o - come in
questo caso - una scena tecnologica, femminile, perchè so che ci sono; lo
so oggi dopo che in nome di un pensare progressivo, ho creduto ( e ceduto) per
anni in un'idea della parità che tuttavia mi vedeva inconciliata per la
mia incapacità a perseguirla.
Inaspettata è arrivata invece lacerante la certezza di una distanza, di
una pratica e di un pensiero della differenza.
Distanza e differenza non sono nell'oggetto o meglio non sono prioritariamente
lì, nel senso che nel prodotto possono esserci e possono non esserci
, ma esse sono all'origine, nelle forme archetipe. Sempre.
Ogni pensiero ne è conseguente.
Ogni pensiero che ne è conseguente porta impresso nel suo patrimonio
genetico la memoria di un rivolgimento.
Quello del tempo di cui la scienza conosce
ordinamento, contemporaneità, durata.
Quello del tempo perchè nel tempo si situa la storia al femminile di
generazione, enigma e racconto dell'origine che si perpetua.
Perchè nel tempo (letteralmente) si prende la parola,
e nel tempo (letteralmente) si impara a parlare.
"Il linguaggio è il mio sforzo umano. Per destino devo andare a cercare e per destino torno a mani vuote. Però - torno con l'indicibile -. L'indicibile mi potrà essere dato solo attraverso il fallimento del mio linguaggio." (Clarice Lispector/ Passione secondo G.H.)
L'indicibile è custodito nel cuore stesso della parola.
Scrive Agamben in Idea della prosa (Feltrinelli 1985) riportando una dichiarazione di Paul Celan: " Solo nella madrelingua si può dire la verità. In una lingua straniera il poeta mente."
Ci sono due considerazioni di cui vorrei dire:
Le lingue, le diverse lingue non coincidono.
La funzione del tradurre non è quella di creare copie.
Creare copie significherebbe credere che esiste un originale e che lì
c'è la verità.
Stare da stranieri nel linguaggio, dilatare la manchevolezza e l'errore.
Ma perchè , e quando la lingua è madre?
Luisa Muraro, filosofa e ricercatrice italiana, scrive nel suo bel libro
L'ordine simbolico della madre (Editori Riuniti 1991)
"... dalla madre abbiamo imparato a parlare e lei allora ha garantito per la
lingua e la sua capacità di dire quello che è."
" Noi impariamo a parlare dalla madre, la matrice della vita è per noi
anche la matrice della parola."
" Affermo che l'essere (o avere) corpo e l'essere (o avere) parola si formano
insieme e che l'opera della madre consiste propriamente in
quell'insieme."
La parola come atto di generazione.
" Saper parlare significa fondamentalmente saper mettere al mondo il mondo e questo noi possiamo farlo in relazione con la madre, non separatamente da lei."
Risaliamo agli albori del moderno e torniamo al maschile e al femminile.
La radio prima e la televisione poi hanno trasportato l'esterno nell'interno,
nell'interno-casa, nel luogo del raccoglimento e del femminile.
La donna è la condizione del raccoglimento, dell'interiorità, della
Casa.
Ma non solo: la donna è Dimora.
(Penso alla Madonna della Misericordia di Piero della Francesca).
La radio prima e la televisione poi rendono la casa il centro di informazione
operando una compenetrazione tra la casa e la comunità.
Compenetrazione tra l'interno e l'esterno.
Tra il femminile e il maschile.
Radio e televisione appartengono oggi all'archeologia della tecnica, quello che
oggi si pone e che io solo in parte colgo e interpreto, è un ulteriore
sconfinamento, un'ulteriore compenetrazione tra universi differenti: il micro e
materiale accoglie l'infinitamente grande ed immateriale.
Quale esito per questo nuovo incontro, scontro, sconfinamento? Quale lingua apprenderemo, per la comunità che viene?
I testi completi del simposio sono disponibili su cd-rom pubblicato da Transit & Triton.
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