Metrodora è quella donna della Grecia antica che studiò per prima l'arte della ginecologia, ma questo nome ha anche siglato un'opera musicale di Demetrio Stratos, uno dei più importanti sperimentatori della voce e del suono dei nostri anni Settanta.Metrodora diviene ora il titolo di uno spettacolo composto dalla compagnia Giardini Pensili, che, nello scegliere questa etichetta vuole già fornire precise indicazioni. Il lavoro, riproposto al teatro Mercadante di Napoli, martedì scorso, nell'ambito della rassegna InControSenso dedicata alle culture urbane giovanili, vuole essere infatti un omaggio alle arditezze sperimentali di Stratos, seguendo, però alcune linee di riflessione lasciateci dalla cultura classica.
Ne è artefice Roberto Paci Dalò, che compie da tempo un'approfondimento particolare sulle nuove possibilità dell'azione drammaturgica e teatrale facendo uso delle tecnologie, di raffinati congegni visivi e acustici, con il chiaro desiderio di una nuova e più complessa scrittura scenica.
Due figure umane sono presenti nello spettacolo. Una è Rupert Huber, considerato a Vienna come una delle migliori realtà della nuova musica anche dance. Sta lì circondato dalle sue consoles a mescolare e manipolare suoni che si muovono anche attraverso la sala, delegando proprio a quei rimbalzi acustici il compito di rompere il confine della ribalta. Sul lato destro, seduta su un alto sgabello, Isabella Bordoni, autrice del testo, ingabbiata in una armatura metallica, con due microcamere nelle mani che restituiscono immagini su un enorme schermo alle sue spalle, mixate dal regista con filmati pre-registrati. Dettagli ravvicinatissimi del corpo, ripresi da differenti punti di vista, incrociati con i fotogrammi di una bimba che corre verso un tempio senza mai raggiungerlo.
Lo spettacolo, che ha il merito (raro in questo ambito di ricerca) di una perfetta e rigorosissima resa formale, tende a uno spaesamento sensoriale dello spettatore, muovendo immagini che potrebbero restare fisse e raggelando in una posa con minime variazioni gli unici due elementi umani e mutevoli della scena. Ed è proprio questo spiazzamento percettivo a svelare il tentativo globale dell'operazione, a mostrarci quel desiderio di mescolare elementi della contemporaneità, con le sue modalità estetiche e comunicative, a segni più puramente arcaici, tracciati con quei pochi gesti geometrici primordiali o prenatali della narratrice, con il segno della voce di Stratos che proprio fra tradizione e modernità andava pescando i suoi suoni, qui rimescolati in un più complesso tessuto musicale. Resta, però, in secondo piano il testo scritto dalla Bordoni, e si perde in un'impressione di generica poeticità, si chiude in ermetismo, dipanandosi come una traccia troppo flebile. L'accordo avviene soltanto quando la donna si abbandona, con una narratività più piana, a un racconto della genealogia delle divinità dell'Olimpo, rammentandoci orrori e crudeltà di quella strana famiglia, e rendendo ancora più esplicito l'intreccio fra l'attuale e le prime favole della civiltà.
Il Sole 24 Ore, 14 dicembre 1997