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Roberto Paci Dalò Roberto Paci Dalò Marsèll Records, Marsèll001 robertopacidalo.com Gabriele Frasca su Ye Shanghai Stephen Dedalus si aggira sulla spiaggia di Sandymount, rimuginando su tutto ciò che gli è già capitato quel giorno, e sono appena le 11, e siamo solo al terzo capitolo dello Ulysses: è stato difatti letteralmente sbattuto fuori di casa e ha probabilmente perso il lavoro. Eppure la maggior parte dei suoi pensieri ruota sul senso della sua presunta vocazione all’arte, che è una chiamata alla quale però al momento non sembrerebbe aver dato risposta. Ha ai piedi un bel paio di stivali, e finirà con l’infangarli volontariamente sul bagnasciuga. Intorno a lui nient’altro che sabbia e sassi, e un letto di alghe e conchiglie, tutto ciò che il mare ritirandosi ha lasciato di sé, e che giungerà presto a riprendersi. Il giovane Dedalus ne aveva già viste tante, di conchiglie, durante l’accesa discussione che aveva avuto solo un’ora prima col direttore della sua scuola. Il signor Deasy, gretto propugnatore della teleologia della storia e convinto antisemita, ne faceva difatti collezione, e aveva anche arredato le pareti del suo ufficio coi ritratti di cavalli da corsa morti da un pezzo. Un vero quadro allegorico, a pensarci, non tanto dell’incubo della storia, quanto dell’allucinazione a freddo di ogni storiografia, che preserva la memoria di un evento solo a patto di raschiarne il guscio, o ridurla a un fermo-immagine, per dilavarne infine ogni traccia di vita. Stephen avanza senza fretta sulla spiaggia di Sandymount, e s’interroga su come, da artista, possa rendere percepibile il mondo reale, senza ricorrere alla successione di quei documenti che sono invero solo certificati di morte. La questione stessa della testimonianza fededegna, divenuta ineludibile dopo la fine della prima guerra mondiale (e dopo la seconda e la Shoah ancor di più), si manifesta qui con tutta la sfiducia nella storiografia che ne era conseguita. Dove reperirlo, difatti, il reale, non la semplice realtà costeggiata a malapena da un ricostruzione storiografica, se questo non può che essere soggetto alla marea dello spazio e del tempo? E d’improvviso al giovane Dedalus viene una strana idea: quella di chiudere gli occhi, e proseguire così. Sono colpi di bacchetta, e ne verrà fuori la prima grande fuga dello Ulysses, il suo primo flusso di coscienza, che è in verità la risposta alla domanda per un reale non contraffatto. Chiudere gli occhi nel 1922, all’epoca del trionfo dell’immagine? Strano, no? Per un regista come Dziga Vertov, affetto in quello stesso giro di anni da un’identica ossessione per la testimonianza fededegna, le cose apparentemente dovrebbero filare nella direzione opposta: solo occupando il tempo con la molteplicità dello spazio, ci ripete difatti in tanti dei suoi manifesti, si può andare di pari passo con la vita, per «orientarsi» nel suo «caos visivo», che è l’insieme di tutti gli eventi, dei pochi che raggiungono il nostro spazio percettivo e degl’infiniti altri, che non aspettano certo noi per accadere. «Guardate di più, guardate meglio, abbiamo finalmente i mezzi per farlo», parrebbe ripetere in ogni suo film. Ma la «cineverità» non è sotto i nostri occhi, puntualizza: essa è piuttosto astraibile, se potenziamo il nostro sensorio (con la macchina da presa), dall’opinabile scena fenomenica. Parrebbe dunque, con il «cineocchio» di Vertov, di trovarsi agli antipodi della scelta di Dedalus, nel trionfo insomma della percezione ottica, divenuta amplificazione macchinica di un’autoscopia del resto già cara ai primi storici greci. Eppure, se si rilegge un testo programmatico del 1924, Nascita del Kinoglaz, oltre agli snodi teorici preferiti dal regista (il «cineocchio» come «cineanalisi», nonché «possibilità di vedere senza confini né distanze», e ovviamente «decifrazione comunista del mondo», e persino «teoria della relatività sullo schermo» ecc.), ci si imbatte però in un aneddoto, in odore di parabola, su cu varrà la pena riflettere. «Ed ecco che un giorno, nella primavera del 1918», scriveva Vertov per ricordare come fosse giunto alla radicalità delle sue posizioni, «sto uscendo da una stazione ferroviaria. Ho ancora nelle orecchie lo sbuffare, il rumore del treno che s’allontana... una bestemmia... un bacio... un’esclamazione... Le risa, il fischio della sirena, il campanello della stazione, l’ansimare della locomotiva... Sussurri, richiami, addii... Mentre cammino penso: bisognerebbe trovare uno strumento che non si limiti a descrivere questi suoni, ma li fissi, li fotografi. Altrimenti sarà impossibile coordinarli, impossibile montarli. Fuggono come fugge il tempo. Forse una cinepresa? Fissare ciò che è stato visto... Organizzare un universo non già udibile ma visibile. Che sia questa la soluzione?» Persino il «cineocchio» non è altro che fare le orecchie all’immagine. «Chiudi gli occhi e guarda», gli fa eco Dedalus nello Ulysses. Strano no? Chiudiamo allora gli occhi con lui, e procediamo sulla spiaggia: tutto ciò che alla vista sarebbe apparso contiguo diviene nella sola percezione acustica in successione. Il che vuol dire che se «l’ineluttabile modalità del visibile» trasforma la natura in segni pronti a essere letti, interpretati, razionalmente conosciuti, l’altrettanto «ineluttabile modalità dell’udibile» smaterializza il mondo in ritmo, e se si vuole lo riconfigura in musica, che liquida (in tutti i sensi), ma con l’esaltarlo, il tempo-ora. «Sto passeggiando verso l’eternità lungo la spiaggia di Sandynount?», si chiede Stephen ancora a occhi chiusi. E la risposta gli giunge da sotto i piedi: «Crush, crack, crick, crick». Qualcosa crepita lì sotto. Certo: a riaprirli, gli occhi, ricompare il solito paesaggio presunto immodificabile; ma a mantenerli chiusi, è tutta una questione di piccoli rumori pronti al ritmo. Quel crepitio che Dedalus sta ascoltando farà presto a trasformarsi in una galoppata di versi, ma non è questo che importa. Il giovane artista procede a occhi chiusi, è vero, ma i rumori che ascolta li fa a bella posta, pesticciando il letto di alghe e conchiglie: «Crush, crack, crick, crick». Schiacciare quei gusci svuotati di vita dalla storia, e farne nel frantumarli un suono vivo: non è questo in verità il cómpito dell’artista? E, d’altra parte, perché questo stesso suono, o ritmo, o musica, lo sia, non è necessario che qualcuno lo esegua, dandogli la sua vita? In questione è addirittura un processo di soggettivazione (non di nominazione). Stephen non vuole mettersi all’ascolto di un suono dell’involontaria sinfonia del mondo, o di qualcuno invece che gli racconti una storia, perché questo riporterebbe alla scena fissa, statuaria, mortale di un mondo ineluttabile, immodificabile, di cui farsi al più solo statua percettiva, ritratto morto o guscio vuoto. Stephen non vuole raccontare una storia, vuole che echeggi. Il disco che avete fra le mani persegue esattamente lo stesso scopo, e c’invita pertanto a chiudere gli occhi per sentire la vita, che risuona sotto i nostri passi che pestano ancora i gusci svuotati dalla storia. Sottratta al suo corredo cinematografico, la musica di Ye Shanghai rivela innanzi tutto qualcosa del film di Roberto Paci Dalò che porta lo stesso titolo, a partire dal fatto che la musica è il realtà il film stesso, di cui le immagini non sarebbero che la «colonna visiva». Per ripercorrere insomma la storia del ghetto di Shanghai, dove i giapponesi, appena entrati in guerra con l’America, fecero confluire gli ebrei (soprattutto tedeschi e austriaci) che si erano rifugiati fra gli anni Trenta e Quaranta nell’unica città al mondo in cui si potesse accedere senza visto, Paci Dalò se da un lato ha preferito usare immagini «trovate» (i 35 mm dei turisti inglesi in visita a Shanghai conservati al British Film Institute), ha affidato in realtà al ritmo e alla musica il cómpito di una sorta di storiografia in diretta. Certo, del ghetto di Shanghai, sorto nel distretto di Hongkou in un’area di appena due chilometri e mezzo, e per contenere circa ventimila ebrei, qualcosa pure la sappiamo: sappiamo, per esempio, che gli abitanti cinesi coabitarono senza problemi con gli «apolidi» (come furono definiti gli ebrei dalle autorità nipponiche), così come sappiamo che i giapponesi non acconsentirono mai a consegnare i rifugiati nelle mani dei nazisti. Conosciamo persino un bell’esempio di umorismo ebraico che si deve al rabbino Shimon Sholom Kalish, che avrebbe risposto al governatore militare giapponese, che gli aveva chiesto ragione dei motivi dell’odio dei tedeschi, con un lapidario, quanto ironicamente complice, «perché siamo bassi e coi capelli scuri». Abbiamo notizia di almeno tre «giusti» che in diverse occasioni, e in diversi modi, resero possibile la migrazione ebraica verso Shanghai, spesso su navi italiane che partivano da Genova. Sappiamo insomma molte cose, ma non che cosa volesse dire vivere in quel ghetto, in condizioni igieniche disastrose, per uomini abituati al tenore di vita della loro Europa. Ye Shanghai di Roberto Paci Dalò supplisce a questa mancanza d’informazione, l’unica in grado di suscitare in noi una ricezione empatica; e lo fa ricorrendo a suoni campionati, dalla voce registrata di una sopravvissuta che racconta del suo arrivo a Shanghai ai richiami dei venditori ambulanti cinesi dell’epoca, nei quali irrompono, quasi allucinate in quel mondo d’echi, le melodie klezmer che il clarinetto, e finanche il clarinetto basso (di regola estraneo a questo tipo di musica), provvede a frammentare, per poi ricomporre e persino dilatare. L’elettronica, contrariamente a quanto si è soliti pensare, è l’opposto di un trattamento a freddo: è la lavorazione diretta dell’ipertrofia di testimonianze che si sussegue per ogni epoca dalla prima riproducibilità tecnica. L’elettronica insomma intacca e manipola direttamente i documenti che ogni storiografia provvederebbe ad allegare in successione. Poi, la lungimirante cecità della musica, riprende a pestare i piedi, e a fare terra del tempo. E se ogni elemento sonoro di Ye Shanghai non fa altro che sovrapporre uno strato di vita sull’altro, non è per rimanere costantemente in sospensione, ma per ricadere in una contiguità così inestricabile che fa presto a mostrarsi per quello che è: il corrispettivo nel dispiegamento temporale della musica di quella che fu la densità dei corpi nello spazio ridotto di quel fazzoletto di vita. Quando giunge infine, dai solchi sabbiosi di una registrazione d’epoca, la voce di Zhou Xuan a eseguire una canzone che fu ai tempi di grande successo, Ye Shanghai appunto, in cui le sonorità orientali, quasi con un lungo protratto sguardo al futuro che esattamente siamo, si piegavano di già ai ritmi della musica ballabile occidentale, dai gusci svuotati dalla storia parrebbe per davvero fare capolino l’inerme mollusco della vita. Quel mondo non esiste più da un pezzo, eppure, lo sappiamo, è scesa lentamente su tutti la notte di Shanghai. Gabriele Frasca
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Roberto Paci Dalò releases his new album Ye Shanghai for Marsèll Records. Download Press Kit
"This work is packed with history, knowledge and emotion…so much emotion that it brought a friend to tears. The music accompanying the imagery was infectious, meditative, transitory, crawling into my psyche…repetitious beats reinforced the clarity of the images, their power and resonance"
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