Boghos Levon Zekiyan
(in "Presenza Pastorale", LXV (1995), pp. 15-23)
Gesù prese commiato dai suoi impartendo loro il suo supremo mandato di rendere discepoli "tutte le nazioni", panta ta ethnê. Disse "le nazioni", ta ethnê, mentre poteva semplicemente dire "tutti gli uomini", come avrebbe sicuramente fatto, forse anche preferito di sentire, certa sensibilità di cristiani di determinati luoghi ed epoche!
Da quel momento, conclusivo dell' "ora" di Gesù sulla terra e di quella che Egli stesso chiamò "la sua ora" in particolare, la realtà dell'ethnos, in tutte le sue implicazioni ed espressività, è inesorabilmente entrata a far parte del nostro Buon Messaggio, della nostra storia di salvezza.
Infatti, il discorso della "cultura" non può porsi se non con plurima referenzialità come discorso di culture, a meno che non si voglia rifarsi ad una concezione monolitica e monistica dell'uomo e delle inesauribili modalità del suo relazionarsi a ciò che gli sta intorno, alla sua um-Welt: relazionarsi, che il termine "cultura" vorrebbe connotare nei suoi più vari risvolti. Una tale concezione monistica sarebbe, in ultima analisi, appiattente e depauperante, inadeguata e ingiusta.
Ma qualsiasi discorso di culture, cioè della cultura come differenziata e diversificata, presuppone ed implica il discorso delle "genti", delle "nazioni", degli ethnê, quali referenti storici della socializzazione umana nel più ampio raggio della sua estensione, basata su connotati in cui prevalgano più che i rapporti giuridici quelli genealogico-storici, consuetudinari, linguistici e, in molti casi, anche religiosi.
Ne consegue che il discorso di cultura-culture fa pure parte inscindibile dell'Evangelo, in quanto intimamente connesso a quella realtà di ethnê che, secondo le ultime parole del Salvatore pronunciate su questa terra, dovrebbero essere come tali evangelizzati e redenti.
Culture e le Chiese orientali
Tra i messaggi o le "idee forti" di cui La Lettera Apostolica Orientale lumen si fa latore, uno degli aspetti fondamentali è dato senza dubbio dal significato che rivestono le Chiese orientali nell'economia globale dell'Evangelo in rapporto alla cultura e, quindi, alle culture.
Il tema è maestosamente introdotto sin dalle battute iniziali della prima parte. Afferma, infatti, il Santo Padre: "L'Oriente cristiano fin dalle origini si mostra multiforme al proprio interno, capace di assumere i tratti caratteristici di ogni singola cultura e con un sommo rispetto di ogni comunità particolare" (par. 5). Tale constatazione non pu che far vibrare le più intime corde dell'anima cristiana in un gioioso slancio di lode e di ringraziamento al Signore per lo stupendo dono: "Non possiamo che ringraziare Dio, - prosegue il Pontefice -, in profonda commozione, per la mirabile variet con cui ha consentito di comporre, con tessere diverse, un mosaico così ricco e composito".
E' tuttora una tentazione diffusa in Occidente - fortunatamente con evidenti segni di regresso dai giorni del Vaticano II in poi - che vi sia un Oriente cristiano, univoco, omogeneo e compatto, misconoscendone la stragrande variet di carismi e doni a seconda dei vari riti, delle varie Chiese locali e "nazionali", delle varie culture, etnie e nazioni conviventi spesso in seno al medesimo rito. Le parole del Santo Padre dissipano ogni dubbio in merito, se ce ne fossero ancora dei residui.
Spesso però non sono i concetti teorici che mancano per un approccio più autentico e adeguato alla multiforme realtà dell'Oriente cristiano, ma sono delle inveterate forme e abitudini mentali, un certo qual conformismo e pigrizia intellettuali restii ad un serio sforzo di ripensamento delle proprie posizioni, dei propri comportamenti concreti, pratici. Posizioni e comportamenti, che impediscono un contatto di quelle Chiese genuinamente ecumenico, perché possa essere vicendevolmente arricchente.
Lodare Dio in ogni lingua
Il tema così introdotto e sottolineato assume una tale importanza agli occhi del Papa che gli dedica immediatamente un paragrafo ad approfondirne ed ampliarne le varie sfaccettature. Il paragrafo s'intitola "Vangelo, Chiese e culture".
Richiamandosi al fatto che "un primo grande valore vissuto particolarmente nell'Oriente cristiano consiste nell'attenzione ai popoli e alle loro culture", come con frequenza aveva messo in evidenza in atti precedenti del suo Pontificato, il Papa coglie di tale valore per primo il suo intrinseco rapporto alla lingua. "La lode di Dio in ogni lingua" appare, infatti, come l'entelecheia reggente il processo dell'inculturazione cristiana.
Tale inculturazione è in perfetta conformità, in piena sintonia con il mistero dell'Incarnazione, fulcro del Buon Messaggio e fondamento della fede cristiana. Essa è, potremmo dire, in un vero senso, la riattuazione del mistero centrale del cristianesimo attraverso la storia e la società degli uomini. Se la Parola assunse tutto dell'uomo fuorché il peccato, la sua presenza in mezzo agli uomini, nell'annucio e nella fede, deve pur appropriarsi rivestendole, e al tempo stesso purificandole e consacrandole, di tutte le forme di linguaggio, di arte, di pensiero, di comportamenti e attività quotidiani in cui l'identit e il genio dell'uomo si sono espressi attraverso i secoli sia individualmente che collettivamente, ad ogni livello del convivere sociale.
La Lettera Apostolica ha di mira quale fulgido esempio di tale finalità, storicamente tradotta nella vita di un popolo edificato in Chiesa, l'opera dei santi Cirillo e Metodio, i grandi Slavorum Apostoli. Ma gli esempi possono essere moltiplicati, risalendo anzi ad epoche ben anteriori.
Già nel IV secolo, l'area siriaca (Mesopotamia) e poi nel V secolo l'area subcaucasica (Armenia e Georgia) ci offrono maturi, splendidi esempi di una profonda, radicale inculturazione del messaggio cristiano. Anzi lo stesso processo di alfabetizzazione (invenzione dell'alfabeto, traduzione della Bibbia e delle opere dei Padri, creazione di una cultura letteraria nazionale) avr, sia in Armenia che in Georgia, nel kerygma, nella catechesi e nella liturgia il movente effettivo della propria effervescente fioritura.
Veramente si trattava di un "nuovo metodo di catechesi", come afferma il Sommo Pontefice. Nuovo però, non tanto in un senso cronologico quanto piuttosto nel senso della perenne novità della più autentica metodologia apostolica, la quale rimase putroppo aliena alle concezioni missionarie prevalenti in Occidente allorché questo si accinse ad annunciare il Vangelo fuori dai lidi europei, nell'Estrema Asia e nelle Americhe.
L'itinerario dallo specifico all'universale e viceversa
Il principio dell'inculturazione del messaggio cristiano, la necessità di concepirne la concreta espressione in una maggiore conformità al significato profondo del mistero dell'Incarnazione dell'Eterno nel tempo, inducono il Papa a farne emergere una delle implicazioni, delle conseguenze pi importanti e più attuali nella congiuntura del momento storico che stiamo vivendo: l'armoniosa dialettica tra il particolare e il generale, lo specifico e l'universale. Infatti, ogni volta che si è voluto dare maggiore peso all'uno o all'altro di questi due poli, si è voluto sottolinearne unilateralmente finalità e funzioni, e costruire in tal modo dei castelli utopici, ci si è sempre trovati di fronte a delle esplosioni o di particolarsmi esasperati o di universalismi eterei: rivendicazioni, ambedue gli estremi del mancato equilibrio di buon senso storico, sociale, religioso.
Il Santo Padre ne prende apertamente atto per ribadire, in base al modello offerto dalla tradizione delle Chiese orientali, che specificità e universalità sono in mutua correlazione, che non possono separarsi né reciprocamente ignorarsi senza grave pregiudizio per l'una e per l'altra. Con tale presa d'atto si conclude il paragrafo in questione: "Da questo modello apprendiamo che se vogliamo evitare il rinascere di particolarismi e anche di nazionalismi esasperati, dobbiamo comprendere che l'annuncio del Vangelo deve essere, ad un tempo, profondamente radicato nella specificit delle culture ed aperto a confluire in una universalit che scambio per il comune arricchimento".
Ci non significa ovviamente che le Chiese d'Oriente siano scevre da ogni tensione tra specificità e universalità. Il discorso del Papa, come, dovutamente, qualsiasi discorso di simile tenore, è un discorso paradigmatico. Ma l'apprezzamento di un modello non significa di per sè una valutazione concreta dei singoli casi in cui il modello trova espressione più o meno felice. Anzi è pur necessariamente scontato che nella realtà umana, per natura imperfetta qualsiasi essa sia, vi sia sempre un margine d'inadeguatezza, più o meno ampio, tra modello e la sua realizzazione storica. Su questo problema di sfocatura tra modello e modellato il Papa si soffermerà, benché da una angolatura alquanto diversa anche se in intima connessione con il tema presente, nel paragrafo successivo.
Culture, Vangelo, tempo
Il discorso della cultura al plurale c'introduce direttamente nella dimensione temporale. Le culture, le nazioni, gli ethnê sono essenzialmente delle formazioni temporali, non solo in quanto nel tempo, ma anche e soprattutto perché del tempo. Essi sono il frutto, il prodotto, una delle espressioni più emblematiche della temporalità umana, del nostro esserci sostanzialmente, sino al midollo, nel tempo.
La Lettera non manca di approfondire questo aspetto dedicandovi un'attenta riflessione nel paragrafo seguente, intitolato "Tra memoria e attesa", uno dei più suggestivi del testo anche per la composizione letteraria.
La riflessione del Pontefice parte dalla constatazione della perdita da parte dell'uomo contemporaneo del senso della propria dimensione temporale: "Spesso oggi ci sentiamo prigionieri del presente: è come se l'uomo avesse smarrito la percezione di far parte di una storia che lo precede e lo segue" (par. 8). Le Chiese d'Oriente, invece, "offrono uno spiccato senso di continuità, che prende i nomi di Tradizione e di attesa escatologica" (ibid.).
Veramente, in questo preambolo del paragrafo non appare stabilito, in termini espliciti, un nesso tra la coscienza di temporalità di cui ora si parla e l'apertura alla pluralità culturale ed ai valori etnici, già presa in considerazione. Il contesto, però, e in particolare l'immediato susseguirsi dei due paragrafi rivelano tra essi una sottesa continuità concettuale. La dinamica del testo è, comunque, tesa pi che a far emergere tale continuità analizzando il rapporto tra culture, nazioni e tempo, a richiamare l'attenzione sulla dialettica tra tradizione ed evoluzione, ossia tra "memoria e attesa". La Lettera predilige l'ultimo binomio di termini, certamente per la loro maggiore coloritura biblica, ma soprattutto per il più marcato dinamismo escatologico che viene espressamente sottolineato; nel contempo si fa nettamente sentire la preoccupazione, quasi l'ansia, di ricomporre in una proporzionata sintesi la dialettica tra passato e futuro, che spesso sfocia invece in contraddizioni, lacerazioni, smarrimento.
Ancora una volta le Chiese d'Oriente si presentano come i tedofori di un modello eloquente, di grande richiamo e impegno: esse "offrono uno spiccato senso di continuità". Tuttavia, se un siffatto modello di composizione tra specificità e universalità, tra memoria e attesa, viene offerto dalle cristianità orientali sul piano strutturale, ciò non comporta di per sè, come abbiamo già rilevato, che almeno da esse possiamo attenderci un'attuazione perfetta, senza ombre né rughe, del modello proposto.
La Lettera allude ora espressamente a tale limite, bench con parole di portata generale, in rapporto alla tentazione di assolutizzare un determinato momento storico, una determinata tradizione: "Quando gli usi e le consuetudini propri di ciascuna Chiesa vengono intesi come pura immobilità, si rischia certo di sottrarre alla Tradizione quel carattere di realtà vivente, che cresce e si sviluppa, e che lo Spirito le garantisce proprio perché essa parli agli uomini di ogni tempo".
Una simile tentazione può certamente nascere in un contesto prevalentemente universalistico o indifferenziatamente plurinazionale, come quello della Chiesa Cattolica che si è quasi identificata storicamente con la Chiesa latina: basti pensare al modello della Chiesa postridentina. Ma la medesima tentazione può anche nascere, altrettanto subdolamente, in un contesto di valori ove prevalgano le specificità, come ampiamente attestato da certo immobilismo ortodosso e dell'antico Oriente cristiano. Ambedue le forme d'immobilismo hanno le proprie ragioni radicate nello stesso humus culturale che ne caratterizzano i rispettivi contesti, seppure seguendo dinamiche diverse, la cui analisi richiederebbe sviluppi e spazi più ampi di quelli prefissi per la presente riflessione. Ma lasciando da parte le ragioni più profonde di siffatti immobilismi, vorremmo brevemente soffermarci su un loro aspetto particolare che spesso viene a galla in relazione alle Chiese orientali.
Abbiamo parlato sopra di una tentazione diffusa in Occidente a considerare l'Oriente cristiano come un unicum omogeneo e compatto. Un'altra tentazione assai diffusa, anche ai giorni nostri, e questa sia in Occidente che tra gli stessi orientali, è quella di considerare le Chiese d'Oriente come qualcosa di atemporale, avulse dalla realtà degli eventi, delle contingenze, delle miserie del mondo, una sorta di empireo di divina contemplazione. Concezione questa, che genera due tipi fondamentali di approccio: estetizzante e/o archeologizzante. L'Oriente cristiano diventa così, soprattutto per chi lo "visita" dall'esterno, o un oggetto di contemplazione-ammirazione estetica, oppure un oggetto di ricerca "archeologica" per reperirvi residui di tradizioni, teologumeni, riti, consuetudini il più possibile arcaici al fine di trarne eventualmente qualche lezione di applicazione per l'Occidente o di rivalsa sull'Occidente, a seconda dei casi e dei soggetti coinvolti.
Tale immagine, certamente irreale e deformante, non giova, pensiamo, anzitutto agli stessi orientali in quanto li toglie in qualche modo al tempo storico, luogo per eccellenza dell'evento salvifico e del suo compimento di generazione in generazione. Il condizionamento deformante di un simile atteggiamento risulta alla fine in un alienamento di quelle cristianità persino dalla propria cultura, secondo la visuale pi profonda, cioè dinamica e vitale, della cultura. Infatti, esso togliendole a quel processo che costituisce l'evoluzione in atto di una cultura viva, le avvolge nei panni di una identità mummificata. Non fu certamente tale la loro identità nel decorso dei secoli più fecondi e gloriosi della propria storia.
Certo, le Chiese d'Oriente hanno un carisma specifico, sottolineato dal Pontefice, in relazione al "tempo cristiano": "Rispetto a qualsiasi altra cultura, l'Oriente cristiano ha infatti un ruolo unico e privilegiato, in quanto contesto originario della Chiesa nascente" (par. 5). Ma tale privilegio di essere i testimoni vivi, "nella fedelt e nella continuit", della grande Tradizione comune, non sottrae nessuno, neppure quindi le Chiese d'Oriente, alla tensione dell'attesa dello Sposo in mezzo "alle doglie del parto" della creazione, per cui si creano di continuo situazioni nuove esigenti vie e forme nuove di fedeltà. Anzi, come è testimone privilegiato della memoria, l'Oriente è pure araldo dell'attesa: "Tutta la sua liturgia, in particolare, è memoriale della salvezza e invocazione del ritorno del Signore. E se la Tradizione insegna alle Chiese la fedeltà a ciòche le ha generate, l'attesa escatologica le spinge ad essere ciò che ancora non sono in pienezza e che il Signore vuole che diventino, e quindi a cercare sempre nuove vie di fedeltà, vincendo il pessimismo perché proiettate verso la speranza di Dio che non delude" (par. 8).
Pluralità culturale e il modello dell'unità ecclesiale
L'Orientale Lumen esprime, ribadisce, amplifica il principio della pluralità culturale nelle sue varie implicazioni, incluse quelle relative alla dialettica tradizione-evoluzione, non solo attraverso valutazioni teoriche ed espressioni simpatetiche, ma anche e soprattutto riaffermando con fermezza i principi concreti di quella concezione e modello d'unione le cui prime formulazioni chiare ed autorevoli, nella Chiesa Cattolica, risalgono alla Orientalium dignitas di Leone XIII e che, raccolte e rielaborate dai suoi successori, trovarono nel Concilio Vaticano II il loro pieno sviluppo ed inequivocabile conferma. Concezione e modello d'unione, alquanto diversi da quelli che nel passato avevano guidato l'unione con Roma di frammenti di Chiese orientali, come già espressamente riconosciuto dal Concilio e, oggi, riaffermato dal Santo Padre (cf. in part. par. 21).
A questo punto si presenta però un problema reale che non è possibile ignorare. Un autorevole storico della Chiesa, valutando l'impatto concreto del Breve leonino, scriveva: "i provvedimenti disciplinari ... non ebbero molto successo, perché furono ignorati dai religiosi che perseguivano il tradizionale processo di latinizzazione" (H. JEDIN, Handbuch der Kirchengeschichte, IX, Herder 1973: Storia della Chiesa. La Chiesa negli Stati moderni e i movimenti sociali, Jaca Book 1979, p. 415). Chiunque abbia un minimo di conoscenza storica e diretta dell' Oriente cristiano non potrà che condividere tale giudizio.
Purtroppo neppure oggi, a trent' anni dal Vaticano II, si potrà sostenere che il lavoro di revisione pratica sia da considerarsi quasi compiuto. Per porgere solo un esempio fra tanti, ancor oggi le Chiese d'Oriente cattoliche, che abbiano mantenuto o ripristinato l'antica tradizione orientale del presbiterio uxorato, non possono praticarla tranquillamente nei territori d'Occidente, mentre l'Occidente cattolico rivendica a sé il diritto di poter ovunque e sempre agire nel modo che gli pare giusto ed opportuno. È vero, una simile sproporzione tra i "due polmoni" dell' unica Chiesa universale, nella coscienza pratica, effettiva delle Chiese, non è solo dell' Occidente, bens non di rado è reciproca. Non per questo per tale situazione di fatto risulta essere meno triste e nociva, di minore urgenza per la coscienza cristiana, per la consapevolezza e l'imperativo ecumenici.
Tanto più che che la prospettiva conciliare della disunione dei cristiani quale scandalo per il mondo, viene riassunta e ulteriormente elaborata in questa Lettera Apostolica in una prospettiva prettamente missionaria in cui il il problema dell'unità ecclesiale dei cristiani, il superamento della loro divisione è vista in funzione di quella "risposta concorde, illuminante, vivificante" che la Chiesa di Cristo, nella sua unità e totalità, nell' armoniosa varietà delle sue componenti, è chiamata a dare alla richiesta di senso dell' uomo contemporaneo. Richiesta di senso, che sembra costituire uno dei moventi fondamentali di questa Lettera e che vi echeggia quasi un leit-motiv nel preambolo: "Giunge a tutte le Chiese, d'Oriente e d'Occidente, il grido degli uomini d'oggi che chiedono un senso per la loro vita" (par. 4).
Se le Chiese d'Oriente non possono essere ammantate di una cappa d'atemporalità, artificiosa e sterile, e se l'impegno e l'imperativo ecumenici si pongono in stretta correlazione con l'appello dell' umanit per "il senso", sorge spontanea la domanda se all' Oriente cristiano spetti qualche carisma particolare in quella "risposta concorde" che la Chiesa deve offrire all'uomo contemporaneo, chiunque egli sia, per illuminarne il cammino dell' esistenza.
Che un tale carisma vi sia, traspare dall'intero discorso dell'Orientale Lumen, anzi non sarebbe, pensiamo, azzardato affermare che sia questa l'idea maestra che ne tesse la trama. Tra le dimensioni più salienti di tale carisma, intraviste, proclamate, analizzate dalla Lettera Apostolica, ci pare che un posto del tutto particolare spetti:
a) alla pressante incarnazione culturale della Parola perché essa "possa risuonare in ogni lingua", radicando profondamente il Vangelo "nella specificità delle culture" (par. 7);
b) allo "spiccato senso di continuità che prende i nomi di Tradizione e di attesa escatologica" (par. 8),
in una parola allo speciale carisma storico dell'Oriente cristiano di saper porsi quale asse vettoriale tra le culture e le dimensioni del tempo.
Boghos Levon ZEKIYAN
Professore di Istituzioni ecclesiastiche
armene al Pontificio Istituto Orientale