ALEXANDRA PETROVA


 

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I ponti di Gerusalemme

Alexandra Petrova



“Mon cher Henry, tu veux savoir ce que c'est que l'Algérie; tu le sauras”. Così scriveva, alla fine dell'Ottocento, George Duroy, o più precisamente madame Forestier, per mano di Guy De Maupassant. L’arroganza coloniale e l’ingenua sete di cultura di quell'epoca ormai appartengono al passato. Sono subentrati, al loro posto, il turismo di massa, l’indifferenza più assoluta e la retorica politica, che hanno soggiogato la società della fine del Novecento. Molto tempo dopo, alla domanda su cosa fosse l'Algeria, Gillo Pontecorvo avrebbe risposto con durezza nel suo film sul terrorismo contro la Francia coloniale, “La battaglia di Algeri”.
Le mie lettere aperte – cartoline dal paesaggio un po’ diverso – verranno spedite da un altro luogo, intorno al quale, da tempo ormai, ruotano la politica e l'interesse di tutto il mondo. Ed è strano come il film di Pontecorvo, pur parlando di eventi accaduti cinquant'anni fa in Algeria, sembri un riflesso di quello che sta accadendo qui, ora. Che sta accadendo a noi, perché questa terra è un crocevia mondiale, dove ci si scontra non per la vita, ma per la morte. Eppure, è proprio qui che potrebbe essere il giardino dell'Eden, la Terra Santa.
Non stupirti, quindi, se sulle mie cartoline scorreranno quelle immagini coloniali che, in fondo, ogni cuore europeo ha segretamente care. A proposito, non so se ricordi che, all'inizio, l'Algeria musulmana non aspirava all'indipendenza. Agli algerini erano state promesse la cittadinanza e l'uguaglianza con i francesi. È solo quando l'esercito francese ha iniziato a spiegare loro perché non gli spettavano che sono apparse le ragazze con le bombe, è iniziata la separazione del quartiere mussulmano, e con questo è finita ogni illusione.
È vero, anche qui il colonialismo non è ancora scomparso. Ogni tanto riaffiora nel nome di una strada, in un progetto urbanistico, nel verdetto di un tribunale. Ancora oggi, questo paese continua a seguire, in parte, le leggi del Mandato britannico.
Gli inglesi hanno abbandonato questa colonia polverosa che in trent'anni non aveva dato loro nessun frutto; ma i semi che hanno piantato, a volte con le migliori intenzioni, si sono rivelati non semi di rose, bensì denti di drago. Per centoventi anni sono cresciuti sul terreno dei miti che si elidono a vicenda, accompagnati da profughi, morti e feriti, da anime incattivite, da umiliati e offesi. Ma quando la voce della pace afferma che la verità sta nel mezzo, che non ci sono né colpevoli né innocenti, che bisogna parlare della sofferenza di entrambi i popoli, di solito questa voce arriva dalla parte che causa più ingiustizie. È già la quinta generazione, ormai, che nasce sullo sfondo di questo conflitto, il quale sembra non dover mai finire.
Allora, caro Andrej, vuoi davvero sapere cos'è Israele? Possibile che, abitandoci già da qualche anno, insieme a un milione circa di russofoni, ex cittadini dell'Unione Sovietica e dell'attuale Russia, tu senta ancora il bisogno di fare questo genere di domande? Certo che no: sai già quello che ti basta e che ti fa comodo sapere. Oggi, ancor più che in passato, Israele sembra una repubblica sovietica meridionale. A Gerusalemme, le insegne in russo sono disseminate ovunque, da “Riparazione scarpe”, scritto a mano da qualche georgiano, fino ai grandi “Centro estetica”, “Libreria”, “Internet Point” che s’illuminano, ormai comunemente, sullo sfondo dei neon in ebraico. Giornali e riviste israeliani in lingua russa, giornali e riviste dalla Russia, trasmissioni israeliane in lingua russa (“Il nostro cinema”, dove trasmettono tutto il giorno film sovietici; e poi una serie di varietà iper allegri, i telegiornali e alcuni canali satellitari americani con i sottotitoli in ebraico e in russo). I negozi russi pieni di kefir, rja_enka, gre_ka e pane borodinskij, di formaggi e di salami, sembrano partoriti dalla fantasia alimentare senza fondo dell’infanzia brezneviana. In ogni bar, banca, negozio, ufficio, il tuo sguardo individuerà i tratti ben noti, che saranno poi confermati dall'accento familiare o dal passaggio alla tua lingua, il russo. Sì, si potrebbe persino vivere in Israele, come in un luogo di villeggiatura, se non fosse che a volte è troppo estremo.
Non credo di sbagliare, caro Andrej, quando dico che la maggior parte dei russofoni appartiene alla destra. Voglio dire che, in modo attivo o passivo, essi condividono quella parte del sionismo che parla del loro diritto su questa terra; e questo, nonostante il loro arrivo – mi riferisco agli ultimi quindici anni – sia legato soprattutto al desiderio di migliorare la propria situazione economica. Significa anche che guardano gli aborigeni con vari gradi di disprezzo, non conoscendo e non volendo conoscere la loro storia, la loro mentalità e la loro lingua, e che a volte non sospettano neanche l'esistenza dei movimenti per i diritti umani, sia governativi che non, creati da israeliani autoctoni.
Israele, sin dalla sua nascita – ma possiamo anche risalire fino a cinquant’anni prima di quella data - è stato fittamente impastato con idee e tradizioni russe. Il sionismo (la conquista della nazionalità) si è intrecciato, in modo assai strano, al socialismo, la cui teoria negava l'esistenza delle differenze nazionali. I fondatori del movimento dei kibbutz e gli abitanti di quelle prime fattorie (che, per il loro regolamento, si trovavano a metà strada tra un monastero, un kolchoz e un campo estivo sovietico), così come gli ideatori delle “case pedagogiche per i bambini proletari” e i membri del primo apparato governativo, provenivano in gran parte dalla Russia. Erano sicuri di riuscire a creare un mondo nuovo e migliore, e continuavano a volgersi verso la loro ex-patria, dove tale (presunto) mondo già esisteva (vedi per esempio il testo del telegramma di condoglianze per la morte di Stalin scritto dal partito MAPAM - oggi una sezione del MEREZ - al Knesset: “proseguiamo sulla tua via, il tuo lavoro sarà la nostra stella polare nella lotta per il socialismo e il comunismo”).
Negli anni ’70, il filosofo Michajl Agurskij, intuendo il declino imminente e inesorabile della civiltà occidentale, ha nuovamente individuato in Israele il possibile fulcro di una società nuova, che avrebbe dovuto modificare il destino del mondo. Agli ebrei russi, che “avevano una concezione idealizzata di Israele, in cui vedevano una società legata da sentimenti di solidarietà e di fratellanza”, Agurskij affidava il compito di promuovere una rinascita religiosa.
È interessante paragonare i sogni di Agurskij con quello che Lord Balfour scriveva a un suo amico: “È evidente, per me, che quando gli ebrei si riuniranno nel loro paese, sarà la fine della civiltà occidentale. Sono talmente stufo di questa civiltà, che non vedo alcun motivo per impedir loro di farlo”.
Gli intellettuali israeliani, chissà perché, speravano che con la nuova ondata di immigrazione russa sarebbero arrivati i seguaci di Lev Tolstoj, o per lo meno quelli di Bakunin: “Pensavamo che l'immigrazione russa avrebbe cambiato la situazione politica, affrettando il raggiungimento della pace con la Palestina. Ma molti di questi russi s’interessano poco alla giustizia sociale, o prendono apertamente una posizione antipalestinese”.
In quanto agli intellettuali russi delle ultime ondate di emigrazione, non si può proprio dire che siano diventati israeliani; dopo essersi guardati intorno, se ne sono andati in America o in Europa – il cui tramonto, anche se reale, è affascinante e quasi impercettibile.

Caro Andrej, il culturista barbuto raffigurato su questa cartolina è l'imperatore Adriano. È proprio lui il principale artefice di tutto questo. Non sono passati neanche duemila anni e sulla mappa politica mondiale è sorto nuovamente lo stato di Israele. Nel 70 d.C., il futuro imperatore Tito ammirava, con sguardo tattico, il panorama della Gerusalemme ribelle, capitale della Giudea, che dall'anno 6 d.C. era diventata una colonia romana. La città, vista dalla cima del monte Scopus, prima di diventare un campo di battaglia era davvero bella, con il secondo Tempio di Salomone pieno di sacrari e di meraviglie.
Dopo la distruzione d'Israele, Roma festeggiò la vittoria costruendo, con l'aiuto degli schiavi deportati, l'Anfiteatro Flavio, bianco come la neve. Il teatro ospitava i combattimenti di gladiatori, e più tardi sarebbe stato soprannominato il Colosseo.

Verso il 130 d.C., Gerusalemme, ribattezzata Colonia Aeliae Capitolina da Adriano (un erudita e un architetto, che aveva ricostruito la città nello stile romano coloniale), si ribellò di nuovo, scandalizzata dalla comparsa di una statua pagana al posto del sacrario. Ma questa volta fu cancellata dalla superficie della terra. Chi sopravvisse lasciò la Giudea in rovine per trascinarsi verso altre terre. Fu l'inizio della dispersione del popolo ebraico. Tre secoli dopo, l'Impero Romano spariva per sempre dalla mappa politica mondiale. Il Colosseo fu gradualmente saccheggiato, e iniziò la serie di trasformazioni che lo portarono a diventare casa comunale, deposito di paglia e letame, e infine tappa turistico-matrimoniale obbligatoria. Dei Fori sono rimaste solo le rovine, ma tra i quattro milioni di abitanti della Roma attuale ci sono ancora i discendenti degli schiavi di Tito. Pare addirittura che la vera cucina romana sia quella ebraica. Per ironia della sorte, il simbolo del nuovo stato di Israele è diventato la menorah, il candelabro a sette braccia tratto dal Tempio di Salomone e portato a Roma come trofeo, raffigurato sull'arco di Tito vincitore. Dicono che sia caduto nel Tevere, e di tanto in tanto gli archeologi si lanciano alla sua ricerca.
Come si spiega che oggi, almeno ufficialmente, i romani antichi non esistano più, né tanto meno i loro vicini etruschi, ben più progrediti di loro, o gli antichi egizi (tutti popoli che, pur vivendo nello stesso periodo degli abitanti dei Regni di Giudea e di Israele, sono confluiti in popoli nuovi, che esistono tuttora), mentre gli ebrei che, a differenza degli altri, persero la loro terra e si sparpagliarono in tutto il mondo, continuano a esistere?
Evidentemente, l’unità di un popolo non dipende solo dal territorio, dalla lingua e dal colore della pelle. Sono due i fattori principali che hanno contribuito alla conservazione del popolo ebraico: la promessa biblica della terra e il diritto biblico. Può sembrare un paradosso che dopo tanti secoli, la promessa della Terra di Israele fatta da Dio ai suoi profeti sia diventata un'esigenza nazional-politica, ottenendo una base giuridica e portando alla fondazione dello stato di Israele il 14 maggio 1948.
Si potrebbe dire, caro Andrej, che si è trattato di un miracolo: alla base di uno stato creato secondo un modello democratico appena cinquant'anni anni fa dai sionisti, in genere distanti dalla religione, è stata posta la volontà divina, e in assenza di una costituzione questo paese esiste poggiando non solo sul diritto di stato, ma anche sulla legge religiosa tradizionale. Dalla nascita dell'idea dello stato ebraico fino ad oggi, l'intreccio di questi due sistemi giuridici è stato all'origine di tante contraddizioni, di conflitti nella pratica processuale e di tensioni nella vita sociale israeliana.
Ma la presenza di questa contraddizione e dei nostri dubbi, la tendenza a preferire il diritto all’indicazione divina e, più in generale, tutta la retorica politica che penetra la nostra lingua e tutti i campi in cui seguiamo i solidi valori europei – il razionalismo, la cognizione, il pluralismo organizzato e dettato dallo stato - , tutto ciò non dimostra che in fin dei conti l'Impero Romano ha vinto?

In Eretz Israel è nato il popolo ebraico, qui si è formata la sua identità spirituale, religiosa e nazionale, qui ha vissuto una vita indipendente, qui ha creato valori culturali al tempo stesso nazionali e universali, qui ha scritto la Bibbia e l’ha donata al mondo.
Dopo essere stato cacciato dalla Terra Santa, il popolo ebraico le è rimasto fedele nel corso della sua lunga dispersione e non ha mai smesso di pregare per di ritornarvi, continuando a sperare di raggiungere la libertà politica.
Spinti da questo attaccamento storico e tradizionale, attraverso i secoli gli ebrei hanno aspirato a tornare nella terra dei loro antenati. Nel corso degli ultimi decenni sono tornati in massa nel loro paese.

(Dalla Dichiarazione d’indipendenza dello Stato d’Israele, 14 maggio 1948)

Pensandoci bene, spesso è difficile, per l’uomo moderno, indicare con precisione il paese dei suoi antenati. Nel caso migliore potrebbero essercene due. E, com’è noto, non proprio tutti condividono l’opinione secondo cui “ Pionieri, ma'apilim e difensori costruirono villaggi e città, portando i vantaggi del progresso a tutti gli abitanti del paese".

Lo Stato d'Israele […] contribuirà allo sviluppo del paese per il bene di tutti i suoi abitanti,[…], preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite. […] Confidando nel Sommo e Onnipotente, noi firmiamo questa Dichiarazione in questa sessione del Consiglio di Stato provvisorio, sul suolo della patria, nella città di Tel Aviv, oggi, vigilia di sabato 5 Iyar 5708, 14 maggio 1948.
(Seguono le firme di 37 membri del Consiglio provvisorio del Popolo)


Nella seconda meta dell’800, quando i tuoi bisnonni crescevano nelle distese dell’Impero Russo, la Palestina formava l’angolo remoto di un altro impero, quello Ottomano. Da più di seicento anni si trovava sotto il dominio mussulmano. Verso la fine dell’800 ebrei, cristiani e mussulmani giunti da varie parti del mondo iniziarono a insediarsi in questa terra, che tuttavia non era disabitata: a quei tempi vi abitava circa mezzo milione di persone, di cui il 90% erano arabi. Nel corso dei secoli, nell’area si era creato un arcipelago di villaggi, dove gli agricoltori coltivavano le olive, i beduini si spostavano con i cammelli e le pecore, e il deserto costellato di falò era loro familiare quanto lo è, per noi, la rete metropolitana di Mosca.

I forestieri, però, almeno all'inizio sembrarono non voler disturbare nessuno. Sognando l'atmosfera idilliaca della terra di latte e miele, presero a riempire quel tranquillo angolo di terra con le prime opere tecnologiche, con le loro fantasie politiche, linguistiche e sociali, che grazie al loro implacabile entusiasmo diventavano realtà. “Un giornalista danese arrivò in Galilea con l'idea di insegnare l'esperanto ai suoi abitanti. Un ebreo rumeno aprì una scuola per infermiere e iniziò a pubblicare la prima rivista per bambini. Arie Boem, un dottore proveniente dalla Russia, fondò l'istituto Pasteur. Giorge Antonius, giunto da Alessandria, voleva creare l'università araba e lavorava a un vocabolario di termini tecnici.
A quello stesso periodo risale la prima chiesa russa, con le sue cupole d'oro, di fronte alla quale gli italiani costruiscono un ospedale che somiglia al Palazzo Vecchio di Firenze. Sul monte Sion i tedeschi innalzano un tempio ispirato alla cattedrale di Aachen. Nel loro quartiere, la cosiddetta Colonia Tedesca situata nella parte nord di Gerusalemme (una sorta di città fiabesca, con decine di case di pietra dai tetti rossi), si stabiliscono i membri della setta dei Templari”. Accanto, sorgono i bianchi edifici della Colonia Greca. La cattedrale anglicana di San Giorgio, simile al New College di Oxford, si trova non lontano dalla grande Colonia Americana, “che sogna d'irradiare amore e compassione in tutto il mondo”. Decine di migliaia di persone, in gran parte ebrei, arrivano dall'Europa Centrale e Orientale, ma spesso non per libera scelta. Nell'Impero Russo si succedono i pogrom e la Prima Guerra Mondiale non fa che peggiorare la condizione degli ebrei. “L'esercito russo caccia la popolazione ebraica dalla zona del fronte che si sposta continuamente verso Est. Migliaia, forse addirittura decine di migliaia di ebrei sono condannati a morte dai tribunali militari o addirittura giustiziati senza processo”. In Italia, lo storico e giornalista Mario Costa Cardol nel suo libro Ultimo zar - primo olocausto racconta della “tragica e complessa vicenda dello sterminio di due milioni di ebrei che morirono tra il 1914 e il 1916 nella Russia zarista, in quanto considerati capri espiatori delle sconfitte subite dalle armate dello Zar. Questo sterminio verrà definito il Primo Olocausto del ventesimo secolo”.
“Il sionismo, sia giusto o no, - scriveva il ministro degli Esteri Lord Balfour, è più importante delle aspirazioni e dei preconcetti dei 700.000 arabi che adesso popolano quest'antica terra”.

Nell'anno 5657 (1897), il primo congresso sionista, convocato da Theodor Herzl, il padre spirituale dello Stato ebraico, proclamò il diritto del popolo ebraico alla rinascita nazionale sul suolo della sua terra. Questo diritto fu riconosciuto nella dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917 e riaffermato col Mandato della Società delle Nazioni che dava una sanzione internazionale al legame storico tra il popolo ebraico e la Terra d'Israele e riconosceva al popolo ebraico al diritto di ricostruirvi il suo focolare nazionale.
(Dalla Dichiarazione d’indipendenza dello Stato d’Israele, 14 maggio 1948)

E ha ancora meno senso parlare di “libera scelta” se si considerano gli avvenimenti accaduti prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale. La gente che si è salvata fuggiva dall'Europa nazionalista. Non c'era posto per loro, e l'Europa ha fatto una semplice operazione, sottraendo poco più di sei milioni di persone.

La Shoah [catastrofe] che si è abbattuta sul popolo ebraico, lo sterminio di sei milioni di ebrei in Europa, hanno dimostrato la necessità di risolvere quanto prima il problema del popolo ebraico, privo di patria, attraverso la creazione di uno Stato ebraico, che spalancasse le sue porte a tutti gli ebrei e facesse nuovamente del popolo ebraico un membro della famiglia delle nazioni dotato di tutti i diritti. […] Il 29 novembre 1947, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione in cui si esigeva la fondazione di uno Stato ebraico in Palestina e si chiedeva agli abitanti della Palestina di prendere i provvedimenti necessari affinché la risoluzione venisse attuata.

Non si può considerare il nazionalismo come fondamento ideologico dello stato di Israele, senza tenere a mente l’operazione di sottrazione effettuata dal mondo europeo; un’operazione che tuttavia non giustifica l’ingenuo slogan adottato dal sionismo quando decise di costruire lo stato ebraico in Palestina : “La terra senza popolo al popolo senza terra”.
È vero, quel popolo era senza terra, privo di una casa, ma sbarcò con l’intenzione di sottrarla ad altri. Lo slogan tradisce non solo una profonda ignoranza delle realtà, ma anche una mancanza di rispetto verso gli indigeni, atteggiamento tipico di tutti i popoli europei, e reso ancor più nobile, nell’estetica britannica, dalla loro missione civilizzatrice.
È paradossale che gli ebrei, privati dai romani della loro patria, vi siano tornati dopo quasi duemila anni sotto la protezione dei principali eredi del diritto romano - gli inglesi. Il primo atto legislativo del governo provvisorio garantiva infatti il mantenimento delle leggi istituite dall’amministrazione coloniale inglese, leggi basate sulla Common Law e messe a punto nel corso del trentennale mandato britannico.

Caro Andrej, ecco, su quest’altra cartolina, Ramallah, chiamata la Alessandria locale per i suoi numerosi caffè e la ricchezza della sua vita intellettuale. Oggi sono andata a trovare alcune donne russe sposate con dei palestinesi. Da vari anni molte di loro non possono tornare in Russia, perché sono tuttora prive di passaporto, sia israeliano che palestinese. Per loro, il conflitto israelo-palestinese ha un sapore ancora più amaro. Ma del conflitto parlerò più a lungo in una delle mie prossime lettere. Torniamo al tema coloniale: non appena la Palestina è diventata un’entità territoriale indipendente grazie ai britannici, sullo sfondo della lotta con l'immigrazione sionista è nato il movimento nazionalistico arabo-palestinese. Gli arabi non hanno riconosciuto la legittimità di quella spartizione, e per trent’anni hanno cercato di difendere il diritto di abitare sulla loro terra.
In seguito al Piano di Spartizione dell’Onu del 1947 la popolazione ebraica, che rappresentava un terzo della popolazione del paese e occupava il 6 % della Palestina, ricevette il 55% del territorio palestinese (compresi i porti principali e il deserto del Negev, ricco di risorse minerali).
Alla fine della guerra del 1948 – che in ebraico viene chiamata la Guerra per l'Indipendenza (Milchemet a shichrur) e in arabo La Catastrofe (El Nachba) – Israele controllava il 78% del paese, compresa metà del territorio assegnato dall’ONU ai palestinesi. 750.000 palestinesi, che abitavano nella zona passata agli israeliani, diventarono profughi o senzatetto. Solo 100.000 di loro rimasero nelle loro case. Circa 420 villaggi, ossia un terzo della totalità dei villaggi palestinesi, furono sistematicamente distrutti. “La gente abbandonava il proprio paese. Persi, senza tetto, senza soldi, si ammalavano e morivano. Si spostavano da un luogo all’altro, nascondendosi nelle caverne e nelle grotte; perdevano i vestiti e rimanevano nudi, non trovavano cibo e avevano fame” - scriveva Halil al Sakakini, scrittore e insegnante, un arabo cristiano di Gerusalemme, che in passato aveva nascosto in casa un poeta ebreo ricercato dalla polizia ottomana.

Dopo la guerra il territorio arabo si era ridotto fino a coprire al 22% dal tutto paese, la Cisgiordania era controllata dalla Giordania e Gaza dall’Egitto. La Linea di Armistizio del 1949 fu ribattezzata Linea Verde, e divenne di fatto il confine del moderno stato di Israele. Nel 1988 i palestinesi accettarono Israele all’interno di quei confini, che sarebbero dovuto servire come base per la creazione di due stati, a condizione che venissero restituiti i territori anessi nel 1967: la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza. Lo stato di Israele si presenta quindi come un’entità governativa e legislativa unica anche per un altro motivo: si tratta di un paese privo di confini precisi.

Andrej, oggi ti sto scrivendo dal Monte Scopus. Da qui si apre un panorama immenso: si vedono la cupola d'oro della moschea, le cupole della chiesa russa di Santa Maria Maddalena, le casette bianche strette l’una all’altra. Il cielo rosa trascolora lentamente in rosso, mentre in lontananza il suono delle campane si confonde con la voce del mullah. È il terzo giorno del ramadan, e i bambini fanno scoppiare i petardi.
Dopo la messa sul monte degli Ulivi, quando ormai è già buio, m’incammino per una strada in salita, che mi sembra di riconoscere. Sì, ecco, lì a destra inizia il villaggio arabo dove Gesù ha resuscitato Lazzaro. Proseguo fino a imbattermi in un muro altissimo, sul quale uno spirito ameno ha scritto in inglese: “Benvenuti al ghetto di al-Lazzaro”, e vicino “Saluti dal ghetto di Varsavia”; una mostruosità di cemento a segnare i nuovi confini.
Dal 2000, in applicazione del piano di Sharon, il territorio palestinese è diviso da un muro di cemento altro otto metri. La costruzione sarà cinque volte più lunga del muro di Berlino, per un totale di circa 700 chilometri. Dato che il suo costo si aggira intorno ai 2 miliardi dollari, è poco probabile che lo stiano costruendo per abbatterlo subito dopo. Quello che il pubblico considera un’innocente difesa contro i terroristi non è altro che il proseguimento della politica israeliana. Il muro, infatti, non segue il tracciato della Linea Verde, ma aggira la zona A (sotto controllo palestinese) e quella B (sotto controllo amministrativo palestinese e controllo militare israelo-palestinese), e include le fortezze degli insediamenti ebraici che, pur essendo costruite sul territorio palestinese, vengono così fatte passare dalla parte “giusta”, ossia israeliana, della barriera. Sul territorio palestinese, oltre al muro, ci sono una miriade di check-point. Un tempo, per andare da un villaggio all'altro, ci si mettevano dieci minuti; adesso per coprire quella stessa distanza ci vogliono ore. Capita di morire nelle ambulanze, di passare il check point della morte nell’attesa di quello israeliano. Le code sterminate di macchine si allineano su un lato, mentre sull’altro passano le persone, talvolta divise tra uomini e donne. Stanno in piedi, col caldo e con la pioggia, a volte per ore. Vecchi e malati, bambini e donne incinta. La gente va al lavoro, se ancora ne ha uno , oppure a scuola, a trovare degli amici, a sbrigare affari. O piuttosto: vorrebbe andare.

Oggi a Gerusalemme Est hanno raso al suolo un’altra casa. Era piccola, appena sessanta metri quadri, ci abitavano otto bambini e tre adulti. Una ventina di persone, tra israeliani e stranieri, ha cercato inutilmente di fermare i bulldozer.
Dal 1967 a oggi sono state demolite circa 11.000 case arabe. Meno di 600 appartenevano a persone legate ad attività terroristiche o alle famiglie di queste persone. Secondo il Comitato israeliano contro la demolizione delle case (ICAHD), sono state invece costruite circa 150.000 case per gli ebrei che abitano oltre il confine del 1967. Le motivazioni dei lavori di abbattimento sono varie: dalla sicurezza alla lotta contro l’abusivismo edilizio – ai palestinesi è vietato costruire case ed espandersi. Ma la sensazione è che dietro questi pretesti si nasconda la vecchia idea del “trasferimento” – lo sgombero totale degli arabi dalla loro terra, un’idea che ultimamente ha fornito addirittura lo spunto a un nuovo programma televisivo.
L'esercito porta a termine la demolizione in un attimo, meno di un’ora. La demolizione è completa – prevede anche lo sradicamento degli alberi con le loro radici. Se un arabo palestinese protesta contro la demolizione, la sua famiglia è punita con il gas lacrimogeno, con le pallottole di gomma e, a volte, con la morte. Sui territori dove i palestinesi piantavano ulivi o dove si trovavano i loro villaggi, adesso si costruiscono autostrade, in modo da inglobare la terra palestinese nella rete viaria israeliana .
“Per questo nostro folle desiderio di conservare i territori occupati, abbiamo finito con lo sviluppare due sistemi legislativi: uno, progressivo e liberale, in Israele e un altro, crudele e ingiusto, nei territori occupati. Subito dopo averli conquistati, vi abbiamo stabilito un regime di apartheid. E questo regime oppressivo è durato fino ai giorni nostri.” (Ha’aretz, 03/03/2003)
Ai palestinesi è proibito entrare in un villaggio o passare da un villaggio all’altro senza un permesso militare. Le loro città e i loro villaggi sembrano carceri, ghetti.

Caro Andrej, spero che tu abbia finalmente ricevuto le cartoline e le lettere che ti ho spedito qualche settimana fa. Quando tornerai a Gerusalemme io sarò già a Roma, quindi mi puoi scrivere lì. Qui fa ancora caldo, anche se siamo già a fine ottobre. Oggi sono stata nella Città Vecchia. È cambiata moltissimo nei sei anni in cui sono mancata da Gerusalemme. Alcune cose saltano subito all’occhio. La gente, ad esempio, non è più cordiale, i turisti sono pochi, gli affari vanno male, la tensione e la stanchezza hanno preso il posto della festosa agitazione dei commercianti. Vicino alla porta di Jaffa abbiamo dato appuntamento a Da_a. Da_a ha diciotto anni, un anno fa è arrivata da Mosca per svolgere il servizio militare in Israele. Dopo aver
fatto qualche passo sulla via più famosa del mondo, la Via Dolorosa, che porta al Santo Sepolcro, Da_a si è fermata, sgomenta. “Io lì non ci vado, mi uccideranno. Non vede come mi guardano?!” Chi, Da_a, chi ti ucciderà, chi ti guarda? E come possono capire che tu sei proprio tu (Da_a è vestita in modo semplice, jeans e maglietta)? È vero, i pellegrini e i turisti non sono numerosi quanto una volta (negli ultimi anni, il turismo in Israele è calato del 60% circa), ma, almeno in questo punto preciso, ce ne sono un bel po’. Dopo qualche minuto di conversazione, Da_a mi annuncia con fare protettivo che se mi sta avvertendo, è solo per la mia sicurezza, perché lei sa cose che io neanche immagino. Ma cosa, cosa? “Non glielo posso dire. È un segreto militare”. Tutto questo si intreccia con le impressioni del mio viaggio di ieri, al check point della città araba di Qalqilya. Sono partita con quattro donne di Machsom Watch (Osservatorio sui check-point), un’organizzazione di volontarie israeliane fondata nel 2001. L’organizzazione cerca di controllare gli abusi di potere e i casi di violazione dei diritti umani che si verificano ai check-point; quando il caso è particolarmente grave, possono rivolgersi ad alcuni membri dei ranghi superiori dell’esercito con cui sono in contatto. In tutto le donne di Machsom Watch sono all’incirca quattrocento. Due volte al giorno si recano ai vari check point. “La situazione, purtroppo, sta peggiorando – dicono – e noi possiamo aiutare sempre meno”.
Una lunga fila di persone, di taxi gialli, di minibus, di vecchie mercedes e di ambulanze si perde all’orizzonte. La gente nelle macchine sembra immobile. La polvere, sollevandosi dalle pietre bianche, acuisce la sete. Il paesaggio è completato dalla cresta del muro, di un bianco sporco, che si alza in mezzo alla strada dividendola a metà. La zona dà un’idea di discarica, di limite, di confine, una sensazione che aumenta via via che ci si avvicina al check-point. Certo, quella costruzione in cemento, dotata di una tenda per riparare i soldati con i fucili, almeno getta un po’ d’ombra. Il check-point è formato da tre corridoi, divisi da una rete di ferro. Per entrare in territorio palestinese, bisogna passare da un tornello; per uscirne, tocca fare una lunga fila, prima sotto il sole, poi, finalmente, sotto la tenda che copre quella specie di gabbia. Quando è il tuo turno, il soldato esamina attentamente il documento, quindi ti dà o ti nega il permesso di uscire. Le osservatrici di Machsom Watch mi spiegano quanto sia ingiusto e assurdamente burocratico questo nuovo sistema, che non sembra destinato a cambiare. Ci sono bambini che hanno paura di passare dal tornello, altri che piangono per la sete e la stanchezza. Le donne trascinano le ceste e i sacchi man mano che avanzano. Poi è stato il turno di un signore molto anziano e ben vestito, che con mano tremante ha iniziato frugare nelle sue tasche. Ha tirato fuori una banconota e l’ha allungata invece del documento d’identità. Il soldato, stupito, quasi disgustato, gli ha chiesto di nuovo il documento. Non saprei dirti cosa mi ha colpito di più in quella scena, se il pianto dei bambini, o la gente ammassata dietro il recinto che guardava attraverso il filo spinato. Ma forse mi ha fatto più impressione un'altra scena ancora: una ragazza col fucile e il cane si è avvicinata a una macchina e ha ordinato a tutti di uscire. “Tutti, sbrigatevi”. Da sotto il casco arroventato dal caldo s’intravedevano i sui capelli biondo oro. Nella macchina c’erano un vecchio, una donna, un bambino e un uomo. La ragazza gli ha detto di avanzare di dieci metri. Hanno ubbidito. Poi gli ha detto di girare. Un vecchio, una donna robusta, un bambino e un uomo si sono girati docilmente. Non deve essere facile resistere alla tentazione del potere. Soprattutto quando hai solo diciott’anni. A proposito, lei si chiamava Svetlana. Oh, non devi conoscere sogni tanto terribili - avrebbe detto il nostro poeta.
Tu, magari, mi dirai che tutto questo rafforza la sicurezza. Mi chiederai: e i terroristi? Quanti sono gli israeliani innocenti che muoiono... Loro ci fanno saltare per aria e non ci difendiamo. Così, più o meno, mi ha detto un soldato con una cadenza russa meridionale, mentre tornavamo da Ramallah. Quando gli ho fatto vedere il mio passaporto israeliano, è sembrato turbarsi. “Cosa ci faceva li?” – “Andavo da amici”. “Chi sono questi amici? Mi dica i loro nomi. Quelli ci ammazzano e lei se li fa amici?” Mi hanno portata di fronte a un cartello, piantato davanti a un checkpoint. La scritta in ebraico diceva “Attenzione! Qui inizia il territorio palestinese”.
Questa società ha sempre convissuto con la guerra, ma la situazione è peggiorata negli ultimi anni, con l’inizio dell’Intifada, nel 2000. Circa 2600 palestinesi e 1000 israeliani sono stati uccisi in tre anni. L'Intifada è presente ovunque. Anche nel fatto, per esempio, che vicino ad ogni bar, negozio, ristorante o scuola c’è una guardia seduta su uno sgabello e armata di fucile o di pistola. Spesso questa guardia è russa o etiope.
Forse sarebbe più corretto dire - un ebreo russo o un ebreo etiope. Ma è anche vero che si tratta di concetti non troppo chiari, e che nella quotidianità della società ebraica, queste persone sono percepite subito come non del tutto ebree. O come non solo ebree. Così, si rafforza una tesi che sembrava sconfitta da tempo, da quando nel secondo dopoguerra il rabbino viennese Guderman si oppose al nazionalismo dei primi sionisti spiegando che gli ebrei provenienti dalla Germania potevano essere tedeschi, quelli che provenivano dalla Francia, francesi, e così via. Devo ricordarti quel piccolo scandalo, verso la fine degli anni ’90, quando vietarono a dei bambini etiopi l’ingresso in una piscina perché non erano abbastanza puliti, anche se avevano fatto la doccia come tutti? O quando uscì fuori che non si potevano seppellire nel cimitero militare dei soldati russi da parte di madre? O la malevolenza, che talvolta diventa odio vero e proprio, tra sefarditi e ashkenaziti, specialmente tra russi e marocchini? I marocchini per un russo sono praticamente degli arabi, dei neri. “Volete vedere delle scimmie?”- ho sentito un ingegnere benestante russo dire ad alcuni bambini. E ha indicato dei marocchini.
Ma tutte queste persone, la cui memoria per certi versi è come sdoppiata, hanno un nemico comune, e questo li unisce.
Molto tempo fa, Trumpeldor e _abotinskij sognarono di creare un esercito ebraico sfruttando il primo conflitto mondiale. “Negli anni ‘20-‘30, i fanatici di affari militari dell’yishuv volevano imparare dal Reich. L’esercito fondato quasi clandestinamente, infrangendo le disposizioni dell’Intesa, gli ispirava rispetto, vi si riconoscevano”, scrive lo storico militare israeliano Uri Milstein. Circa 27.000 ebrei che vivevano in Palestina all’epoca del Mandato partirono volontari nell’esercito inglese. Gli inglesi, che avevano un debole per i reparti formati dagli autoctoni, li addestrarono e li finanziarono. Nel 1941 fu creato il PALMAH – un esercito clandestino riservato alle élite. “La Guerra dei sette giorni - iniziata il 12 giugno del 1967, ma che prosegue ancora oggi - è il frutto di una nostra scelta. Siamo stati noi a decidere con entusiasmo di diventare una società coloniale, ignorando le risoluzioni internazionali, le terre espropriate, il trasferimento degli insediamenti da Israele ai Territori Occupati” (Ha’aretz, 3 marzo 2002).
La società è militarizzata, ma poiché si tratta di uno sfondo costante, la guerra si mescola con la quotidianità e il color kaki finisce col soffocare la varietà della vita, insinuandosi nella pubblicità, nei discorsi amorosi, educativi, e via dicendo. “Rata-ta! Rata-ta! Zava ba! Zava ba! Arriva l’esercito! Arriva l’esercito! Corre Dana, corre Hana, corre Haia, corre Noah. Ben, Ben, lo senti? Arriva l’esercito! L’esercito!” (filastrocca contenuta in un libro di prima elementare). Sotto la foto di una donna di mezza età, pallida, dall’aria provata: “Mio figlio fa il servizio militare nell’unità di combattimento. La tensione, il nervosismo, le chiamate al telefono… Ho chiesto in farmacia del Kalmanevrin, e ora sono più tranquilla” (pubblicità di un calmante). Ultima pagina del quotidiano Maariv, rubrica fotografica intitolata “Israeliani”: “Philip Asacci ha sei anni, frequenta la prima elementare nell’istituto Ehud Halevi. Un israeliano: è qualcuno come me, un bambino che va a scuola e aspetta di arrivare alla leva per difendere il paese di Israele!” Sul cuoricino rosso che si regalano gli innamorati: “le gijuseh”, “le gijusha” – “per la tua leva”, al maschile e al femminile.

Libretto per bambini con immagini da colorare: un carro armato, un cannone e un soldato con la bandiera israeliana. Il carro armato e la bandiera israeliana li avevo già visti. Era a Ramallah, dall’altra parte del conflitto: un disegno di un bambino appeso in un bar.
Dall’inizio dell’Intifada del 1987 è aumentato il numero di persone che si rifiutano di fare il servizio militare o, se lo fanno, di obbedire a certi ordini. E colpisce il fatto che tra questi obiettori vi siano molti ufficiali che in passato si sono distinti in servizio. Yesh Gvul (C’è un limite) è il nome dell’associazione israeliana pacifista che sostiene i “refusnik”, ossia i soldati che non obbediscono ad ordini considerati repressivi e aggressivi. Alcuni di loro pagano con la libertà questa disobbedienza. Ma molti giovani rifiutano la leva stessa, perché non ne condividono le operazioni e sono contrari alla politica israeliana. Alcuni di loro hanno fondato “New Profile”, un'associazione che cerca di “cambiare la società israeliana dall’interno, trasformando quella che ora è uno stato militarizzato, discriminante, oppressivo e occupante in uno stato civile, egualitario e rispettoso dei diritti dei suoi vicini”. Prendendo di mira il linguaggio e i modi dell’universo militarista, organizzano mostre, partecipano a manifestazioni, cercano di cambiare il processo di formazione.
Come vedi, la madre patria ti chiama anche così. Soprattutto quando è veramente madre.

Caro Andrej, ti sto scrivendo dall’autobus. Siamo una ventina di passeggeri, quasi tutti israeliani. Alle sei di questa mattina abbiamo lasciato Gerusalemme alla volta di Shem. Sono più di quattro ore che ci tengono fermi a un check point, tra due carri armati. Per ora non possiamo proseguire. Dicono che può essere pericoloso. La cosa strana, però, è che il pericolo che ci minaccia proviene dal campo dei coloni israeliani. E l’esercito, che in teoria dovrebbe proteggerli, in pratica si ritrova molto più spesso a dover difendere i palestinesi dalle aggressioni dei coloni, novelli cow-boy.
Siamo diretti a un villaggio chiamato Iasuun, dove aiuteremo nella raccolta delle olive della gente che per quasi un anno non ha potuto avvicinarsi ai suoi alberi, e quindi neanche irrigarli. Come dice il testo di una nostra canzone, "non c'era nessuno per scortecciare la betulla". Adesso, nella stagione della raccolta, hanno finalmente ottenuto un permesso dall'esercito. Ma il tempo concesso è troppo breve perché una famiglia riesca da sola a finire il raccolto. Le olive – e quindi anche l’olio d’oliva – sono un ingrediente fondamentale nella cucina di questa terra. Si possono preparare in tanti modi diversi, e insieme al burro sono alla base di ogni pasto. La bellezza biblica delle colline di Samaria, il modo di vivere di questa gente, le loro case, parte integrante del paesaggio, tutto questo forma un contrasto con le fortezze dei coloni, che si innalzano sulle colline e si vedono sempre, da qualsiasi punto. Sono proprio queste decine, talvolta centinaia, di coloni (quasi tutti provenienti dagli Stati Uniti, più raramente dalla Russia) ad aver cambiato il destino degli abitanti locali. Le strade costruite per i coloni, che gli arabi non possono usare, li hanno infatti tagliati fuori della loro storia e della loro vita.
Ci sono vari gruppi che organizzano questo tipo di viaggi, destinati a fornire un aiuto nella raccolta delle olive. Oggi siamo partiti con l’organizzazione “Rabbini per i diritti umani” (Rabbis for Human Rights), ma se ne occupano spesso anche Gush Shalom e B’tselem. “Purtroppo però siamo pochi, e la situazione peggiora di anno in anno” mi ha detto David Nir, dell’associazione Ta’ayush, che era seduto accanto a me sull’autobus.

Caro Andrej, oggi è il mio ultimo giorno a Gerusalemme. Sulla cartolina vedi un’immagine delle mura che Solimano il Magnifico fece erigere nel ‘500.
Entrando dalla porta di Damasco si finisce subito nel vortice della folla. Già prima dell'ingresso la gente si accalca intorno a un venditore di tè, con i suoi bicchierini di rame posati sul vassoio, intorno alle bancarelle coperte di dolci e di uva profumata e colorata. Ho comprato un grappolo d’uva quasi nera, e uno invece di uva color dell’ambra. Li porterò a Mosca. Camminando, tocca scansarsi di continuo per far passare la gente. Le stradine scendono ripide - da un lato ci sono le scale, dall'altro una rampa per i carrelli a tre ruote che sfrecciano ininterrottamente, trasportando stracci, scatole, sacchi ingombranti. Le botteghe sono aperte, la gente si incontra, si saluta, va e viene, tra i mendicanti, i venditori ambulanti, le donne che vendono frutta e verdura.
Dai caffè qahawas, dove gli uomini siedono per ore a giocare a carte o a sfogliare i giornali fumando il narghilè, esce un forte odore di cardamomo. Più in là regna l’odore delle spezie. Un frastuono rimbomba tra le stradine, dalle quali ogni tanto qualche bimbo si lancia su una specie di slitta, fatta con un pezzo di plastica o di cartone.
Attraversando il quartiere mussulmano si arriva in quello armeno e poi in quello ebraico, dove abitano i membri del movimento Neturei Karta, i cui antenati arrivarono prima del 1897. Ancora oggi non riconoscono lo Stato d'Israele. Lo considerano profano e ritengono che Israele potrà rinascere solo con l’arrivo del Mashiah (Messia).
Quante città sono racchiuse in questa città? Quando è nata? A chi appartiene?
Gerusalemme si sdoppia, una volta, più volte. Qui si difendono fino all’ultimo sangue non una, ma tante verità diverse.

Dal tetto di un albergo austriaco si vede tutta la Città Vecchia, e proprio da lì ho avvistato un mio amico mentre camminava per i vicoli. Si chiama Aumen. Lavora in un teatro di marionette ed è palestinese, di famiglia mussulmana. Un secolo e mezzo fa i suoi avi, beduini di sangue e di religione ebraica, arrivarono nel Sinai dallo Yemen. Poi si convertirono all’islam, e un secolo fa circa comprarono una casa a Gerusalemme, che all’epoca non era ancora molto abitata. Per l'affitto del terreno la sua famiglia continua a pagare diciotto dollari l'anno (ossia l’equivalente di dodici dinari giordani) ai discendenti di una delle più importanti famiglie della città, che tra l’altro custodisce la chiave del Santo Sepolcro.

Per tornare a Israele, in un certo senso l’intera storia di questo paese, come anche il suo sistema legislativo attuale, somigliano a una successione di strati geologici, in cui oltre alle leggi bibliche e a quelle britanniche trova un posto di rilievo la cosiddetta Mezhel, il codice ottomano (1869-1876) basato sulla dottrina islamica e influenzato dal codice napoleonico.
E così, mentre passeggiavo e mi congedavo da una delle città che più amo, sono passata per caso sotto una porta che mi ha ricordato la porticina della stanza dove il Piccolo Muk trova gli stivali delle sette leghe e il bastone che conduce ai tesori. Mi sono ritrovata in una bottega, rischiarata dai riflessi dei vetri degli armadi. Vecchie armi georgiane erano disposte accanto a candelabri di epoca romana. In un angolo la lampada di Aladino illuminava un antico ricamo copto, un’altra gettava un po’ di luce su una porta quasi invisibile che collegava il locale al tunnel degli Asmodei.

Ci sono così tante porte a Gerusalemme: più che di urbs bisognerebbe parlare di orbis. Non una città, quindi, ma un mondo, o piuttosto tanti mondi. E, chissà, magari si potrebbe costruire un tunnel che colleghi ogni mondo ai mondi che lo circondano. Un tunnel che non andrebbe conquistato, ma usato per circolare, per conoscersi. Ricorda un po’ il ponte di cristallo immaginato da Manilov: e forse è davvero un ponte che bisogna costruire, non un muro.
Alla fine sono arrivata nella parte etiope del Santo Sepolcro, e lì, guardando il grande orologio dell'altare, ho pensato: “zio tempo, zio tempo”; ricordi, Alice nel paese delle meraviglie?


(traduzione di Francesca Spinelli)

Per l’aiuto nella stesura dell’articolo vorrei ringraziare David Nir (Ta’ayush), Iohi Valstrem (IMEMC), Arik Asserman e Muhhadin Hassun (Rabbis for the Human Rights), Hava Halevi (Machsom Watch), Rony (New profile) e tutti coloro che hanno preferito rimanere anonimi.

Parzialmente pubblicato in Liberazione, 9 ottobre 2005.