ALEXANDRA PETROVA


 

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Russia, mammina cieca

di Vito Riviello


Ci siamo incontrati in un bar di via del Babuino, a Roma, nel vivo della parola. Occhi grigio-azzurri con i quali viaggiava negli occhi altrui. Forse la passione per l’arte la spingeva più a guardare che a parlare. Cosa che mi fu confermata dalla più breve di tutte le biografie apparse in Russian Women Poets (fascicolo del 2002): “My biography is short for this moment: two books, two land changes, two daughters. I studied in Tartu and for me it is important”. (“La mia biografia è piuttosto breve per il momento: due libri, due diversi Paesi, due figlie. Ho studiato a Tartu, cosa per me importante”.)
Il suo nome è Alexandra Petrova, nata a Leningrado. Ha studiato all’Università di Tartu, in Estonia, con Jurij Lotman, e dopo aver vissuto gli ultimi anni dell’obsolenza sovietica tra Mosca e Leningrado (poi San Pietroburgo), approda nel 1993 a Gerusalemme, dove rimarrà fino al 1998. E qui la sua voce si colora di diverse tonalità calde, come quelle delle donne del Sud. “È fredda ormai / l’izbà della natura./ E ancora l’Italia mi attira / sotto la volta del cielo”. In questi versi scritti a Gerusalemme c’era solo un presentimento, derivato dal mito dell’Italia.
Con un’aria di sortilegio parla del suo cognome, che sembra l’abbia condotta fatalmente nella città di Pietro. Attualmente vive a Roma, e parla l’italiano in modo fluente e senza accenti esotici. Ma è nella poesia di Alexandra (Sasha) Petrova che bisogna cercare il vero percorso da lei compiuto, e quindi l’inizio della sua “storia romana”, come suggerisce la sezione Podzemnij Rim (Roma sotterranea) del suo secondo libro dedicato all’artista Marco Brandizzi. Libro dal titolo caleidoscopico e metamorfico: Permesso di soggiorno, o Permesso di vivere, o Veduta sull’esistenza. “Nella Roma sotterranea / il muratore Gesù / accenderà le luci, / succhierà la tua lacrima.// Anche lui è un bambino triste, / lui capirà / quanto fa male l’anima-ventre / per disperazione”.
Quello che mi colpisce – e credo che questa mia opinione sia condivisa da coloro (non molti, in verità) che hanno potuto leggere i rari testi tradotti in italiano (mentre in inglese, in tedesco e perfino in ebraico vi sono numerose traduzioni) – è il modo con cui Sasha attualizza nelle sue poesie la memoria, anzitutto in maniera diacronica, cioè sostenendo come su un piano visivo la coesistenza autonoma di diversi temi. Forse un retaggio di una sua nobile ascendenza (T.S. Eliot e la sua correlazione oggettiva, e l’epigrafismo aforistico di Ezra Pound). Memoria che non lascia depositi di nostalgia, ma rinasce continuamente in piccole e grandi occasioni, confermando il senso fragile della storia su cui sembra aleggiare un certo spirito di fatalità bizantina che altro non è, al risveglio della coscienza, che pessimismo dialettico della storia.
Alla confluenza di componenti assai lontane, da quelle occidentali, appena evocate, da Eliot a Pound agli amati conterranei Mandel’stam, Kuzmìn, Vàginov e Nìkolem la poesia di Sasha si manifesta con la sua forte originalità, esercitando sulle emozioni e sui loro improvvisi risvegli un’ironia congelante, che pietrifica nel suo divenire poetico inutili ansie verbali: “Anche tu sei farina degli eventi, che di colpo si è sollevata; / una corrente, e nessuno che ci metta una toppa”.
Distante, con serena consapevolezza, da una lezione simbolista che oggi sembra godere di un rinnovato quanto malcerto favore, Sasha Petrova si avvicina sempre più all’”esperienza sperimentale”, così prossima alle problematiche epocali delle trasformazioni storiche e palingenetiche. Le ricerca di un occhio lucido di natura cosmica che punta a redimere dalle ombre e dalle penombre del pensiero straniato i contorni limpidi di una nuova identità.
Sulla recente produzione di un poeta che si va avviando verso il suo primo libro “italiano” di poesia si sono già da un po’ di tempo appuntati gli sguardi sia di poeti e critici di area sperimentale (da Nanni Balestrini, indefesso cacciatore di giovani talenti, ad Aldo Nove e a Lello Voce, sensibili alla novità poetica del no global in letteratura), sia quelli dell’”equilibrio” (uno fra tutti, Franco Buffoni). A mio parere c’è nella sua opera un influsso della grande letteratura del suo Paese, che deriva, più che dalla poesia in versi, dal romanzo e dalle prove narrative. Questo perché si viene accentuando nei suoi poemetti quello sguardo cosmopolita e decentrato che consente uno scavo verticale nel magma linguistico contemporaneo fino a mettere allo scoperto le radici profonde dei un’antica tellus culturale, spesso o troppo decantata o troppo schematizzata ideologicamente. La vocazione a reperire le tracce di un percorso ancestrale non è occasionale, ma viene assecondata dalla stessa storia familiare di Alexandra Petrova e intersecata da un crocevia culturale in cui si intrecciano etnie le più diverse, da quella anglosassone a quella ebraica, da quella tartara a quella della Russia più profonda.
È su questi presupposti che si fonda l’interesse per la poesia di Sasha anche da parte di chi, come Aldo Mastropasqua, tenta da anni di esplorare con la sua rivista “Avanguardia” le connessioni profonde e sotterranee che legano le linee più innovative della poesia occidentale a quelle ancora poco conosciute dell’Europa dell’Est. E tra queste l’opera così “appartata” e apparentemente “estranea” di Alexandra Petrova, refrattaria a ogni incasellamento e istituzionalizzazione semantici, potrà riservare al lettore italiano più di una sorpresa. “Lasciami andare per i bei campi, / accompagnami in un’estate oltre frontiera. /Tornerò , ti troverò, / camminerò per i cortili, / busserò alle finestre: / Rus’ – Misjus, / dove sei?”.
Possiamo quindi essere fieri di aver contribuito a far conoscere in Italia un poeta della generazione degli anni Sessanta tra i più rappresentativi del mutamento in atto nella grande e tormentata Russia, come indica perentoriamente anche uno dei maggiori critici contemporanei e suo connazionale, Aleksandr Goldstein, che della poesia di Alexandra Petrova ha scritto tra l’altro: “Ora questa voce, messa alla prova in ambienti sonori imprevisti spietati estranei al mondo russo, senza ricevere suggerimenti né aiuto, ha aperto lo sportello della gabbia. È la voce di una persona che ritrovandosi ‘libera, senza patria’, ha trovato in sé un altro io, ha elaborato in base a questa esperienza una lingua eufonica ma non convenzionale”.


(Poesia, 167, dicembre 2002)