GIOIA COSTA ARTICOLI UNA RIVOLUZIONE SULLA SCENA, UN'ALTRA SUL SET, UN'ALTRA ANCORA NELLE PIAZZE IN CUI HA PORTATO LA POESIA. CRONACA DI UN'ERA


Roma. Carmelo Bene non è solo un attore magnifico, è anche –a pieno titolo- il più grande autore della nostra scena. È difficile risidegnare il suo percorso, perché non ha mai creduto nella cronologia né nella linearità. Non a caso era così legato a Gilles Deleuze.
Volendo ricordare la sua vasta produzione è più facile immaginare cerchi e volute. È più facile isolare richiami che, da una pagina a una melodia a un’immagine, hanno fatto sì che sulla sua scena si incontrassero artisti lontani. Carmelo Bene ha segnato ciò che ha toccato: la sua presenza attoriale era nutrita da una libertà di pensiero sempre in anticipo sui tempi. E poi c’è la sua voce indimenticabile, il dominio della fonica, delle luci e della campionatura dei suoni, il suo aver cambiato l’idea stessa di composizione. In teatro, nel cinema, nella letteratura, nel video, nella traduzione e finanche nella poesia. Il primo film, Nostra Signora dei Turchi (1968) è ancora oggi di una modernità sorprendente eSalomé (19 cinquanta minuti 7000 fotogrammi) ha sconvolto l’uso del montaggio, anticipando le schegge di visioni che oggi occupano gli schermi. E’ stato il primo a fare della "scrittura di scena" una prassi artistica, e i suoi "Concerti per attore solo" hanno riunito nelle piazze di tutta Italia un pubblico che la poesia mai aveva avuto. La transposizione in video degli spettacoli continua ad essere un esempio di rielaborazione dell’immagine, nella quale la macchina da presa non è limitazione dell’occhio ma nuova scrittura. E poi la scelta dei testi, sempre da lui ritradotti in una lingua che ha aperto l’italiano a nuovi respiri, nuove ampiezze, nuove sonorità. Ad esempio Amleto Ne ha fatte cinque edizioni, e la prima risale al 1961. A volte il palcoscenico era disabitato, altre popolato da figure. Erano attori, cantanti, statue di gesso. A volte in voce, altre in playback, altre in silenzio, altre confinate al gesto. Amleto aveva le parole di Shakespeare o quelle dell’amato Laforgue. Ma tanti sono stati anche gli Otello, dove quei quaranta centimetri di fazzoletto sbiancavano la scena, sbiancando anche la pelle del Moro. O i Macbeth, i cui umori, paure e desideri erano affidati a stoffe mirabili, o i Pinocchio dove il balocco era l’assurdità del volere. Pentesilea era incarnazione della scomparsa del senso, della dissoluzione del derma, e la carne restava come brandello, corpo dell’inorganico affidato a membra di bambole impossibili da ricomporre. E tante volte Carmelo Bene è tornato a Majakovskij, a Leopardi, a Dino Campana, a Eisenin. I loro versi diventavano tumulto, struggimento, rivolta e nostalgia. In fondo, ha fatto sempre lo stesso spettacolo, e non si è mai ripetuto. ”Sono là, là dove manco” diceva a Susanna Javicoli durante le prove del Macbeth, nel 1983. Lei, Lady Macbeth, provava le scene a due da sola. Dalla platea, lui dava istruzioni al gesto, alla consolle, alle voci. Anche allora, era in anticipo. Non c’è uomo che conosca il teatro quanto lui, e le citazioni pittoriche o letterarie, lasciate cadere in scena, hanno popolato gli spettacoli di riferimenti che sono un’immagine alta della cultura e dell’arte italiana. È un artista che fa onore a un paese, e il suo andarsene ci fa sentire un po’ più soli.
Resta un universo di immagini, e sembra di rivederla, la Signorina Felicita di Gozzano che tosta il caffè, o la Beata Lodovica che si libera dal marmo per rivelare una la sensualità incastonata da secoli, o quel Lorenzaccio in lotta con il Tempo che scopre la distanza fra l'atto e l'effetto, in una discronia del rumore. Resta la sua impareggiata esaltazione della bellezza, che ha trovato in Lydia Mancinelli un corpo splendente. Resta, soprattutto, lo sgomento di fronte all'assenza. Pensare di non vederlo più, di non potersi abbandonare alla sua voce, è sapere che il teatro da oggi è diventato un po' più piccolo. Torniamo nella realtà, lasciando a lui la poesia e lo struggimento con i quali ci ha fatto amare i sipari di velluto rosso e le notti ventose nelle piazze.

L’Unità, 17 marzo 2002



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