GIOIA COSTA ARTICOLI JAN FABRE


Dedicato ai corpi barbari, As long as the world needs a warrior's soul è un inno disperato e gelido alla forza naturale. La scena si apre su un palcoscenico buio disseminato di fantocci simili a Barbie di dimensioni raddoppiate, che siedono guardando il pubblico. Dalla folla di corpi di silicone emergono un uomo e una donna, nudi, la testa bassa e le mani unite: sono Adamo ed Eva, e Fabre è il creatore del loro mondo infernale. Gli altri attori li circondano domandando loro: "Did you do it?". Certo, è il peccato originale. Ha così inizio la persecuzione del corpo barbaro, che supera la pelle diventando pura carne, mentre una figura nuda, avvolta nel cellophane, danza, isolata e protetta dalla sua pellicola trasparente. Come la statua dell'uomo di chiodi esposta all'Academia Belgica nella quale le gambe - dell'uomo, del tavolo e della sedia- sono avvolte da un cellophane che lascia intravvedere frammenti di carne, così qui durante la danza della pellicola umana gli altri attori si trasformano in corpi in brandelli, coprendosi di ketchup, cioccolato, uova, ovvero sangue, escrementi, sperma. As long as the world needs a warrior's soul è certamente lo spettacolo più politico di Jan Fabre, un atto d'accusa sovversivo e animale contro un immaginario cinico, plastico e asettico che genera frustrazione e violenza.
Per Jan Fabre la provocazione è un modo "elegante" di far lavorare la mente dello spettatore. Ma, se in Je suis sang - presentato in esclusiva all'ultimo Festival di Avignone - la perfezione del disegno toccava in alcuni momenti la crudeltà e, attraverso la freddezza, generava sgomento, As long as the world needs a warrior's soul è il trionfo di un apparente caos nel quale l'emozione non ha spazio: il pullulare di corpi imbrattati di umori fa pensare al primo Tarantino di Pulp fiction, mentre la violenza delle musiche e delle visioni assume valore di citazione. Guerrieri poeti si oppongono ai guerrieri diurni, come la pelle alla plastica, il sangue e gli escrementi ai capelli biondi e all'immobile silenzio delle bambole. Il corpo pulito, nel suo desiderio di perfezione, ha perso l'odore, non gli resta che la paura della morte e l'incapacità di vivere. L'altro corpo, quello macchiato, ferito, sporco, si rivolta e genera caos. La paura rende tutti uguali mentre la rivolta è diversa in ciascuno. Il grido e la macchia diventano così i segni distintivi dell'umano, mentre il candore e l'immobilità sono dominio del replicante-bambola cui l'essere aspira. L'ossessione dell'igiene è per Fabre paura della vita, una paura da denunciare. E questa denuncia arriva dalle parole di Léo Ferré, che canta "se Dio esistesse bisognerebbe sbarazzarsene", dalla voce di Billie Holiday, da Sabotage di John Cale e dal testo di Dario Fo dedicato a Ulrike Meinhof. Un collage di riflessioni sul dolore e sulla violenza che smascherano la follia ipocrita del mondo civile.
Nella seconda parte dello spettacolo si manifesta la frattura della carne dalla plastica, e il corpo vivo rifiuta l'irraggiungibile perfezione del modello di celluloide. Dopo operazioni di chirurgia estetica per eguagliare l'ideale disumano e tentativi per assimilarlo, il corpo in rivolta esplode in una rabbia idilliaca che distrugge l'inferno. Ed è proprio l'inferno, quello mostrato da Fabre, con tanto di diavolo in scena. Nel suo mondo di dolore e violenza trionfa il terrore delle mestruazioni, delle rughe, dello sperma, segni della fragilità del volere, e la bambola diventa l'unico essere reale che, per la sua perfezione, è il bersaglio degli odi più feroci. Arrivano in scena anche il Pentagono e le Twin Towers, uscite già in pezzi dalla magica valigia di un nano che allinea sembianti di umani nella sua personale ricerca del senso.
Je suis sang si chiudeva con una cortina di tavoli d'acciaio che rilucevano sulla sala. Qui i tavoli di legno arrivano in proscenio ed accolgono gli attori in candide vesti, le bambole in mano, rivolti al pubblico in un algido silenzio che lascia posto unicamente al dolore di vivere.
"Cos'è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no". Così Camus apre la sua riflessione sulla moralità, così si chiude lo spettacolo di Fabre: i suoi corpi si oppongono al cellophane, alla pulizia e al silenzio. Sono guerrieri poeti che non si arrendono all'impossibile slancio verso la perfezione plastica. Nel caos della passione, Jan Fabre si oppone al mondo di celluloide per riabilitare, in un suo modo abnorme e violento, l'imperfezione del corpo e la sua vulnerabile invincibilità.



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