GIOIA COSTA ARTICOLI FESTIVAL D'AUTOMNE 1991


JE SUIS, di Valère Novarina. Regia dell’autore.
Pochi mesi dopo L’inquiétude, seconda versione per la scena del Discours aux animaux presentato al Festival di Avignone, Valère Novarina ha messo in scena per il Festival d’Automne Je suis, edito da P.O.L. nel settembre 1991.
Questa è la terza regia di Novarina (dopo Le drame de la vie e Vous qui abitez les temps) ed è una conferma che gli anni e il successo non hanno modificato la sua linea "ostica", che si è consolidata raggiungendo una forma e uno stile compiuti e chiusi. Scorrendo l'elenco di "personaggi e interpreti" si ha subito un'idea della particolarità di Novarina: ecco La Logica discorrere con La Grammatica, nella ricerca del fine ultimo delle parole e del significato autentico di ogni proposizione. Ecco, ancora, Vita e Morte scambiarsi opinioni, divergenti solo nelle conclusioni. Ecco il Tempo scavalcare il Ritmo, alla ricerca del Suono. E' lo stesso Novarina ad aver parlato anni fa del "dolore di scrivere il primo testo senza uomini".
Arrivano in scena, non si sa da dove, tutti i fantasmi di Valère Novarina, che sottopone la lingua a "trattamenti" per restituirle il suono puro e mondarla dal valore di merce che fa di ogni parola una vendita o un baratto di cose e opinioni.
La prosa ritmata in assonanze, invenzioni o slogans nascosti esiste solo nel momento in cui viene pronunciata dall'attore; dopo solo la lettura può far riapparire il suo "mondo di suoni". Sulla pagina infatti la visionarietà della parola di Valère Novarina non ha corpo: è all'attore che spetta il difficile compito di filtrare con muscoli e nervi il pasto sonoro che Novarina mette in pagina. Nel fiato sospeso della recitazione, nelle pause, nella velocità di alcuni passaggi questa parola cancella il suo stesso ritmo nella visionarietà della parola-suono.
Chirurgo del pendant, Novarina lavora lo spazio fra, durante. Durante il silenzio, fra le vocali. Attraversa la scena o la pagina ma dopo il suo passaggio le cose cambiano segno. Novarina colpisce ogni vulnerabilità della lingua.
Siamo alla vigilia della pubblicazione italiana di “All'attore”, (Le Théâtre des paroles, edito da P.O.L. nel 1989) che uscirà in aprile per i tipi di Pratiche. In quell'occasione, Valère Novarina sarà al Teatro festival di Parma per leggere alcuni suoi testi e per assistere allo "speciale" che il Teatro Due gli ha dedicato, invitando André Marcon con L'inquiétude e presentando l'uscita italiana del libro.

LES ENFANTS TANNER di Robert Walser. Regia di Joel Jouanneau.
Les enfants Tanner, scritto all’età di 29 anni, è il primo romanzo di Robert Walser. Se alla sua prima apparizione, nel 1908, ebbe una tiepida accoglienza, è all’entusiasmo di Kafka, Musil e Benjamin, che si deve il successo di Robert Walser, oggi conosciuto nel mondo intero.
Les enfants Tanner anticipa in maniera inquietante quello che sarà il destino dell’autore, raccontandone la fine solitaria una notte di Natale durante una passeggiata fra la neve.
Joel Jouanneau, adattatrice del testo con Jean Launay, ha immaginato una scena vuota, circondata da tele dipinte. Per ogni elemento scenico, come a voler incastonare gli eventi in pose statiche, ha creato cornici.
Uno splendido David Warrilow recita nelle botole, nelle finestre di una torre, nelle fessure. Anche la candela, tremula luce di scena, ha la sua e piccola cornice e, fra mille piani che si intersecano nella vista dello spettatore, il monologo di Warrilow bibliotecario assume il risalto di un fuoriscena.
Philippe Demarle, attore con il volto da eterno adolescente, è dotato di una vita e di una forza scenica che si impongono. Qui è Simon, protagonista dello spettacolo che, fra entusiasmi e dolcezze, slanci, generosità e candori, affronta la vita e ne scopre la durezza e il fascino. Vagabondando fra le città, le case, gli amici e i lavori più diversi, Simon si scopre: “Sono nato per essere un regalo. Sono sempre appartenuto a qualcuno. Ero infelice quando mi capitava di vagare un’intera giornata senza trovare qualcuno al quale offrirmi”. Più che offrirsi egli si affida agli altri, con la forza innocente dell’infanzia imperitura.

LE TEMPS ET LA CHAMBRE di Botho Stauss, regia di Patrice Chéreau.
Che in una stanza si possa svolgere una vita intera è troppo frequente e troppo citato per essere un caso eccellente. L'interesse è invece come la vita vera, quella che scorre per le strade, nel cuore e nel cervello della gente, possa essere convocata in una stanza dalla fantasia e dalla forza di un singolo.
E’ quello che avviene, senza metafisica e senza compiacimenti, in Le temps et la chambre di Botho Strauss. Il pretesto è osservare ciò che accade agli altri, ma gli effetti sembrano un piccolo colpo di magia accettato da tutti. Se capita di avere tutti a portata di mano da una finestra aperta su una grande arteria, allora val la pena di guardarli e di saperne di più. Così, nella bella scena di Richard Peduzzi sfilano i passanti che sono improvvisamente catapultati dalla strada nella stanza senza saperne il perché. Salgono, attratti da un richiamo misterioso, e raccontano la loro vita.
Patrice Chéreau ha creato una situazione drammatica di alta concentrazione allentando tutti i rapporti della scena; non solo la grande sala è semivuota, occupata da un'enorme colonna forata, due sedie anni '50 e uno sgabello in proscenio, ma l’assenza di rapporti fra i personaggi fa di queste 'apparizioni' il frutto di una visione. Ruolo di primo piano ha Anouk Grinberg, giovane attrice capace di modulare lo stupore dall’attonito al malinconico senza dimenticare tutte le sfumature del patetico-ridicolo. Brava nella sua secca semplicità e nel suo appartenere completamente alla parte di chi non può appartenere a se stesso.
Accanto a lei Jean Pierre Moulin è il bruto seduttore di una ricca e ingioiellata signora di passaggio (Bulle Ogier), mentre i due abitanti della stanza (Bernard Verley e Pascal Greggory), si alternano accanto alla finestra passandosi un plaid per le gambe e scambiandosi i racconti della strada, e fanno posto di volta in volta ai nuovi arrivati. Sono capaci di una tragedia per un saluto mancato e fanno delle piccole ossessioni domestiche un capolavoro di nevrosi a due, di intolleranza domestica. Ma ritrovano un'intesa di fronte al loro teatro privato, che consente di vivere della vita degli altri.
Fanno della casa un carosello di apparizioni trattate come una giostra stregata che, ad ogni partenza, cambia i cavallini e le carrozze, nell'entusiasmo degli ospiti. Qui le comparse sono il giocattolo dei due uomini che da anni guardano la strada immaginando una vita più ricca e più vera di quella che alla fine ascoltano dalla bocca dei passanti.

AMPHITRYON di Heinrich von Kleist, regia di Klaus Michael Gruber.
Molto atteso, a conclusione del festival, l'Anfitrione diretto da Gruber. Un cast d'eccezione, che vantava nomi come Jutta Lampe e Otto Sander, non poteva che aumentare le attese.
Da Plauto a Molière fino a Kleist, la vicenda dell'amore di Giove per Alcmena ha suscitato varianti e aggiunte.
Kleist ha mantenuto solo lo spunto narrativo di Molière, capovolgendo le fasi della storia: il desiderio implacabile che porta il dio a travestirsi da Anfitrione per essere ricevuto come legittimo sposo dalla bella Alcmena, approfittando della assenza di Anfitrione partito in guerra, può permettere interpretazioni dell'amore, del desiderio e della fedeltà molto audaci.
Nella sua regia Gruber evidenzia la passione che permette ad Alcmena di abbandonarsi al dio credendolo il marito vincitore.
Su una piattaforma tonda e girevole, unica coreografia dell'intero spettacolo, Alcmena e il prode amante mostrano ogni profilo al pubblico, immobili manichini della regia.
L'atmosfera della pièce è tinta di colori pastello, nei costumi e nella gestualità statica e monumentale degli attori.
E' una commedia dal gusto dolce, coronata dalla nascita di due gemelli semidei, omaggio di Giove alla sua notte appassionata. Del dubbio e del rovello che torturano gli umani di fronte all'arroganza divina resta solo una fantasia. Il dio scompare fra le nubi che salgono oltre il sipario, accompagnato da tuoni e fulmini che illuminano a giorno il pubblico, lasciando alla vera protagonista dello spettacolo, Alcmena, il ricordo imperituro dell'amore celeste.

FUORI FESTIVAL D'AUTOMNE:
LES VOEUX DU PRESIDENT, di Jean Louis Benoit, regia dell'autore.
Questa non è una favola: durante il suo primo settennato François Mitterand è andato per sette volte nelle case dei francesi alla vigilia di Natale a fare i suoi auguri ad una famiglia. Queste visite erano trasmesse in televisione e tutti ascoltavano gli auguri del Presidente preparando la notte di festa. Erano visite brevi, nelle quali considerazioni sull'anno passato, bilanci e propositi per il futuro servivano da incentivo per il nuovo anno.
François Benoit ha scritto nel programma di sala: "Alla radio, in televisione, nei giornali, gli uomini politici ci parlano tutti i giorni. Senza che noi possiamo rispondere. La lingua di legno dei politici fa da specchio alla lingua di pasta molle degli ascoltatori. In questo spettacolo i discorsi costruiti, profondi e calmi del Presidente della Repubblica incontrano le frasi nulle, balbettanti e urlanti della famiglia Fournier. Chi pensa il mondo si rivolge a chi, senza saperlo, lo subisce. Appena pronunciate, le parole del politico scompaiono.
L'Eroico e l'Insignificante si sono incontrati..."
Nella scena assai fedele di interni mini-borghesi di Claire Chavanne, il Presidente immaginato da Benoit (Jean-Marie Frin) torna ogni anno nella stessa famiglia. E ogni anno ritrova l'albero di Natale su un mobile, il presepe che fa da radice all'albero, il cucù in finto legno, una palla di Natale sulle corna di un cervo appeso alla parete.
In principio, stupore e orgoglio paralizzano gli ospiti (Louis Mérino, Christine Pignet, Malika Labrume, Philippe Bombled e Frédéric Leconte), che si producono in inciampi e sorrisi stampati per far fronte alla situazione ed essere all'altezza dell'onore ricevuto. Assai rapidamente, però, la loro tenuta precipita: con il passare degli anni l'abitudine spolvera ogni riguardo e nell'ultima viglia del settennato, il Presidente non trova nessuno in casa. Non lo hanno aspettato ma, certi del suo arrivo, hanno lasciato in cucina una pentola per la cena della Repubblica.
Accasciato quanto esausto dei sermoni ai quali non crede più neanche lui, il Presidente avvicina uno sgabello al tavolo spoglio e addenta con le mani la cena.
Chiude il suo mandato sulla chiusura del sipario, lasciando un sapore amaro al pubblico che, dopo aver riso degli indubbi risvolti comici dello spettacolo, si accorge che non è poi una messa in scena.

In “Sipario” 1991


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