GIOIA COSTA ARTICOLI FANTASIE INTERNAZIONALI A PARIGI


FRÈRES ET SŒURS
di Fedor Abramov, regia di Lev Dodine (sottotitolato in francese).

Ancora una volta è Parigi la prima capitale che ospita per una stagione il Gran Teatro Russo, conosciuto per registi e attori di una razza ormai in via d'estinzione in Europa.
Lev Dodine è tornato dopo sette anni al teatro dell'Odeon con Fratelli e sorelle di Fedor Abramov, una produzione del teatro Maly di Pietroburgo che Dodine dirige dal 1985.
Quaranta attori in scena, sei ore di spettacolo; un testo duro sulla vita dei kolchoz, sulle impossibili richieste e le esorbitanti tasse del nascente stato comunista, sulla povertà che genera violenza e diffidenze.
Il testo può definirsi "politico", e anche di chiara denuncia. E' molto sottolineata la difficoltà dei rapporti umani, con separazioni e incontri, solitudine e ricerca di solidarietà.
La scena è semplice: una specie di grande zattera di legno al centro del palco è usata come schermo per proiettare le immagini della rivoluzione russa, commentate dalla voce fuori campo di Stalin che incita all'odio per i nemici tedeschi. La parete di legno, spostata, diviene letto, quinta, casa, muro, rifugio, ponte. Con quest'unico elemento i 40 attori traversano la foresta del kolchoz, entrano ed escono dalle loro case, creano pendenze e ostacoli, rifugi e schermi.
Dodine considera la scuola il cuore del teatro e chiede agli attori devozione totale all'arte, considerando la vita teatrale una regola monastica. Il risultato: la troupe è di un livello eccezionale. Mai un tono falso, un grido o un gesto "portato", mai una posa recitativa. La naturalezza degli attori, tipica della tradizione russa, aggiunge alla rappresentazione una intensità profonda. La vicenda del kolchoz, le miserie, la fame e l'aggressività diventa premessa di tutte le complicazioni dei rapporti umani.
Ed è qui che si concentra l'attenzione di Dodine: ciascun personaggio ha un carattere che lo ha reso qual'è e che si manifesta irrevocabilmente.
Ci sono forti intuizioni di regia, in questo spettacolo ipernaturalistico. Saggi colpi da maestro che seducono e incantano il pubblico. Ad esempio: per mettere in risalto il valore di cose elementari in una vita povera che non si aspetta mai novità, la scena del regalo delle scarpe: Lizaveta (Natalia Akimova) vuole provare i nuovi stivali senza rovinarli e li indossa camminando sul vecchio paio per non consumarne le suole.
Particolarmente belle sono le scene di massa, come la semina del grano fatta dalle donne dopo una pausa di giochi, risa e finte lotte scherzose. O la preparazione della festa del kolchoz: tutti gli attori sono in posizione frontale, appoggiati a una lunga barra di legno sul limite della scena. Guardano la sala e aspettano: si imbandisce la grande tavola e arriva la carne, piatto straordinario rubato allo Stato comunista dichiarando morta una mucca. Con la carne sopraggiunge un religioso silenzio e il pasto diventa sacrale.
Ma anche il momento in cui Anfissa – la straordinaria attrice Tatiana Chestakova –, allora presidente del Kolchoz, è informata del ritorno di suo marito. Aspettandola, Grigory (Vladimir Artemov) beve con amici senza dire una parola, e all'arrivo di lei apre una valigia dalla quale estrae caoticamente scarpe camicie e cappelli nuovi, che le prova addosso carnevalizzandola come una bambola di pezza. Immobile, Anfissa guarda senza una parola. In questa staticità c'è la tristezza e l'irreparabilità di una fine avvenuta. L'inatteso ritorno non può che decretare l'irrevocabilità della situazione esistente: il matrimonio era già in brandelli, ma la lunga separazione lo ha reso nullo di fatto. La conferma di Anfissa è l'unico modo di convincere il marito che non vuole ammettere la realtà.
Un'idea forte di Dodine è quando la giovane e bella Varvara (Natalia Fomenko) abbandona la scena fra dure critiche delle donne che hanno scoperto la sua relazione con il più giovane Michaïl. L'attrice non esce di scena da una quinta ma traversa la platea, continuando a recitare. "Se non si fa nulla tutti sospettano, se si fa tutti criticano. Comunque si è sempre oggetto di chiacchiere. Meglio fare, allora!". Quel modo traversare la sala continuando ad essere in parte attenua sempre più la distanza fra spettacolo e realtà.
La prima serata finisce come è iniziata: attori frontali che guardano il pubblico.
La seconda parte ha due momenti importanti: una morte e un matrimonio. La morte è quella di Timofei Lobanov (Vladimir Zakhariev). Durante la sua malattia, tutti gli abitanti del kolchoz lo accusano di fingersi malato per non lavorare e Michail lo denuncia al comitato centrale. Alla notizia della sua morte vergogna e senso di colpa diventano Michail un'ossessione. Per espiare la sua colpa vaneggia una tomba grandiosa coronata da una stella.
Il matrimonio è quello di Egorcha e Lizaveta: Egorcha torna dalla città con motocicletta e stivali, facendo grande effetto su tutti. Seduce, non senza scene comiche, Liza e decide di sposarla. La ragazza si prepara alla festa nuziale, e viene vestita di rosso dalle donne. Queste cantano e Liza piange, piange la fine di tutto, della giovinezza e della libertà. Si augura di non avere vicino uno straniero dopo le nozze. La vestizione, il pianto e la nota triste che accompagna tutto il rituale sono sorprendenti: un matrimonio rosso fuoco, frutto di una seduzione totale, ha i toni del sangue più che della gioia.
LES ÉTOILES DU CIEL MATINAL
di Alexandr Galine, regia di Lev Dodine (sottotitolato in francese).
Secondo appuntamento con Lev Dodine è Le stelle del cielo mattutino, di Alexandr Galine.
Il testo, ambientato nel 1990, si svolge durante i giochi olimpici a Mosca. Le autorità hanno deciso di presentare il volto migliore della città allontanando barboni, prostitute, alcolizzati.
Le stelle del cielo mattutino è uno spaccato del loro soggiorno obbligato nelle periferie. Alle prostitute spetta una specie di asilo, una stanza-camerata diretta bruscamente e con poche morbidezze da Valentina (Galina Filimonova), custode in realtà del vicino ospedale psichiatrico. Abbandonata alla ruggine e allo sfascio, questa residenza denuncia subito il suo squallore: reti di letto sfondate, coperte sudicie, muri mai dipinti e imbrattati. Lo spettacolo inizia con l'arrivo di Lora (la bella Tatiana Rasskazova Nerolina) che, con un foulard rosso fuoco, unghie laccate e pantaloni rosa confetto, fuma e si trucca come chi voglia far passare il tempo in una brutta sala d'attesa. Ma lo squallore e la disperazione sono contagiosi e il confronto fra le spavalde e giovani matricole della prostituzione con la semi alcolizzata Anna (Tatiana Chestakova) si rivela carico di drammaticità.
Anna rappresenta per tutte lo specchio del futuro, ed è l'unica a sapere cosa verrà dopo la stagione dei lussi e delle macchine ultimo tipo, dei bei vestiti e dell'illusione d'essere eterne. Il suo ruolo potrebbe facilmente cadere nella macchietta, essendo il più caratterizzato e fuori parte. Tatiana Chestakova ne fa invece un capolavoro d'attrice, modulando la voce nei discorsi alterati dall'alcool, nelle confessioni e nelle scommesse col destino con una forza sorprendente.
Non c'è un tono, uno stile o una posa che possa tenere in questa vita brutale, dove anche gli amori sembrano malattie. Come quello fra Lora e Alexandre (Serguei Bekhterev), un ospite del manicomio stregato dalla bellezza della ragazza quanto lei è colpita dalla tenerezza di un incontro senza denari. E' l'isolamento forzato che fa nascere amicizie, pseudoamori, avventure e sciagure. E tutte queste cose accadono sotto la luce triste della non scelta e della solitudine. Le tragedie sono sempre a portata di mano: spettano alle vite disperate.
Questa pièce, messa in scena in Russia per la prima volta nel 1987, è stata una sfida al regime che aveva realmente allontanato gli ospiti sgraditi; il coraggio di Dodine gli è valso un successo che ha superato che porte della Russia e che ha permesso a lui e alla sua troupe di farsi conoscere nel mondo intero.
IL GIARDINO DEI CILIEGI
Di Anton Cechov, regia di Lev Dodine.
Scenografia di Eduoard Kotcherguine, costumi di Inna Gabai.
Creazione per l'Odeon, Il giardino dei ciliegi era esaurito il giorno stesso in cui i biglietti sono stati messi in vendita.
Con fedeltà assoluta al testo e alle sfumature di Cechov o della lezione che Stanislawskij ha tratto da quest'opera con la sua regia, Dodine non cerca l'interpretazione storica con la quale trasformare il giardino dei ciliegi in banco di prova fra teatranti: non stravolge, non taglia, non lascia tracce indelebili del suo passaggio. Ma qualcosa di potente la compie, senza clamori. Legge oltre Cechov quello che Cechov racconta. L'angustia familiare eternamente identica anche alle soglie dello sfacelo, l'irresponsabilità criminale di fronte alla catastrofe imminente, quel detestato bamboleggiamento vitale che è costato ad una classe il suo ceto.
In Cechov la condanna c'è, è chiara, ma sfumata fra le righe. Dodine la mette in scena nei vestiti troppo bianchi, nelle risa false, nello sperpero leggero degli ultimi denari rimasti. Ma, soprattutto, nella falsità dei rapporti umani, fatti di chiacchiere che coprono con la voce il vuoto interiore. C'è il medesimo abisso in Tre sorelle, in Zio Vania, in tutti i testi più noti di Cechov.
Qui è la bravissima Tatiana Chestakova (Lioubov Petrovna Raniewskaia) a prendere sulle sue spalle il peso dello sfacelo mostrando la frivolezza irresponsabile del suo personaggio fino ai limiti estremi. Circondata da figure-balocco lei gioca: gioca sull'amore per il giardino dei ciliegi, sui ricordi, sull'affetto per la fantesca, per figli e amici trovati sempre lì e sempre uguali, più rassicuranti di qualsiasi specchio sul comodino. E poi passa la sua ultima estate nella casa come una fiera: venuta da Parigi, indossa abiti candidi, leggeri e luminosi. Attorno a lei c'è la luce del bagliore, del riflesso. Come una falena atratta dalla fiamma, Lioubov è attratta da ciò che non ha peso e dissipa ciò che vede, senza bisogno di toccare. Rovina per leggerezza la vita l'anima e la salute di chi le si avvicina, con quella presunta nobiltà d'animo del distacco dalla materia (l'incapacità di avere rapporti col denaro e con tutto ciò che richieda impegno) che copre un'ignavia fatale e un egoismo inutile quanto incompreso. Lopakhine, figlio di un servo della proprietà oggi divenuto ricco, consiglia di trasformare il giardino in lotti, per guadagnare soldi da una proprietà divenuta insostenibile. Nessuno lo ascolta e si continua a vivere perdendo tutto il tempo che precede la vendita all'asta della casa. Tutt'al più si può commiserare la sorte, piangere sulle proprie sciagure, osservare quale brutta piega possano prendere gli avvenimenti senza agire in nessun modo. Poi, naturalmente, è l'ora dei rimorsi, dei rimpianti e delle lacrime. Quindi delle nuove interminabili chiacchiere e del tempo perso. In questo vuoti fitti Cechov fa vedere tutta la decadenza della classe in via di sparizione nella Russia dell'epoca come ovunque in Europa, ma fa vedere anche il marcio che si nasconde dietro il candido degli abiti alla moda di Parigi e dietro ai sorrisi eterni che arredano volti deserti. Ma Cechov voleva che la pièce fosse allegra, una commedia, addirittura una farsa, come lui stesso scrisse a Stanislawskij nel 1903. Ed è proprio dietro la maschera gaia del popolo che possiede il maggior senso tragico che emerge la drammaticità dell'esistenza.
Tutto questo Dodine l'ha colto e messo in scena con una felicità creativa indubbia: nelle sue note di regia parla dell'epoca di rottura che il mondo sta attraversando, e sceglie di riprendere i classici, dopo anni di autori contemporanei vietati dalla censura sovietica. Con la fine dell'Unione Sovietica, con il ritorno della città di Pietroburgo che cancella Leningrado, con il mutare rapido dei tempi ecco il legame con l passato, che diviene il filo della storia che continua ad andare avanti trasportandoci verso un futuro incerto. Dodine da all'allegria voluta da Cechov i toni e i colori giusti eppure, sotto la festa perenne delle vite irresponsabili, c'è il baratro buio del terrore di vedersi veramente, e questo Dodine lo ha mostrato magnificamente.

BARAQUE DE FOIRE
di Alexandre Blok, regia di Igor Popowskj (sottotitolato in francese).
E' una regia viva, forte, russa, quella di Baraque de Foire. Popowski ha solo 24 anni ed è già in Europa come ospite dell'Odeon per la stagione russa che lui ha l'onore di concludere.
Lui e la sua troupe hanno finito da poco il GITIS (la più famosa scuola di teatro di Mosca diretta da Fomenko) ed hanno deciso di rimanere insieme facendo tutto quello che occorre in teatro: un costume, un impianto luci, una sostituzione. I cinque anni di vita monastica che la scuola di teatro prevede ha creato non dei professionisti ma una troupe.
E non è la prima volta che Popowskj arriva in Francia : già lo scorso anno era stato invitato con L'aventure, un romanzo della Marina Tsvetaeva tratto dalle avventure di Casanova.
Baraque de foire era già stato messo in scena da Vsevolod Mejerchol'd nel 1906, lo stesso anno della sua apparizione. Mejerchol'd era Pierrot, ma un Pierrot diverso dalla tradizione: non più il clown triste e larmoyant dalle lunari malinconie ma un candido essere luciferino e insolente che giocava con il destino suo e degli altri volteggiando nel suo bianco mantello. Durante l'intervallo pare che gli attori giocassero con delle arance che poi lanciavano contro il pubblico che non aveva applaudito alla prima parte dello spettacolo.
L'adattamento di Ivan Popowski e Dimitri Essakia è tratto da due 'drammi lirici: Baraque de foire e L'inconnue di Alexandre Blok, il poeta simbolista russo, morto di sifilide nel 1921 a 41 anni come l'epoca prescriveva ai geni dell'arte.
Blok considerava il mondo "una mascherata dove Pierrot, Arlecchino e i Mistici ridicoli affiancano in periferia prostitute e ubriachi con occhi da conigli".
Ed è qui che trae origine l'idea che ha guidato l'intero spettacolo di Popowski: creare marionette umane che si mescolino a marionette teatrali. Pierrot, Colombina e Arlecchino fra esseri di pelle e ossa si scambiano la parte e giocano con i loro fili, quasi non accorgendosi che non è affatto certo chi fra loro sia manovrato dal burattinaio e chi abbia (o si illuda d'avere) vita propria. La scena (di Vladimir Ejakov) è estremamente semplice nei materiali e ricca di idee : ad esempio quando, giocando su luci quasi espressionite tagliate nei colori netti del bianco e nero assoluto (le luci sono di Gérard Gillot) la scena, bianca e sghemba, si rivela essere di carta ed è violata, strappata, attraversata dagli attori che con i loro movimenti inaspettati fanno entrare il colore in palcoscenico. Ed ecco che arriva Arlecchino (Taguir Rakhimov) e prende il posto del bicromo Pierrot (Karen Badalov), Colombina (Paulina Koutiepova) si colora di rosso e tutti cambianbo timbro. Lì è veramente la mascarade folle immaginata da Blok ad avere il sopravvento su qualsiasi narrazione possibile. E l'autore (Everett Dixon) compare in scena per cercare un ordine nella storia che gli sfugge di mano, ed è sopraffatto dalle sue creature.TRE SORELLE
di Anton Cechov. Regia di Matthias Langhoff
Al Théâtre de la Ville Matthias Langhoff ha messo in scena Tre sorelle di Cechov. Contrariamente alle sue abitudini, questa volta il palcoscenico non sottolinea con linee sghembe e piani impossibili l'impraticabilità del testo. Un interno borghese decadente in cui si respira la monotona e rassicurante ripetitività della vita di tutti i giorni ospita Masa, Irina, Sacha e i loro visitatori. L'immobilità della provincia, dove parlare tre lingue, aver studiato ed avere mezzi economici diventano motivo di infelicità, è resa dai continui, quasi caricaturali ed enfatici entusiasmi per tutto ciò che proviene da Mosca. L'arrivo di Verscinin (Jean Marie Frin) dalla capitale è accolto con esaltazione maniacale : tutti chiedono notizie della città e ricordano i bei tempi andati. Irina corre a chiamare il gioiello di famiglia, il fratello Andrej (Pascal Bongard). Eterno studente con un futuro di gloria alle spalle, Andrej appare sulla soglia della sua camera da letto come allegoria della provincia. Costruisce orribili cornici di conchiglie colorate per le sorelle, il suo è un dilettantismo perdente, la sua ignavia è fatale : tutto questo è raccontato subito dal brutto pigiama stropicciato e dalle pantofole tristi e comode.
Langhoff non ha tolto nulla del testo cechoviano ma ha sottolineato i limiti angusti e le ingenuità naïf e claustrofobiche delle esistenze spese in parole. Progetti, sogni, decisioni, fidanzamenti, riflessioni. Tutto passa nel fiume di parole vuote in cui nessuno crede. L'unico personaggio reale è Natalia (Laurence Calame), moglie di Andrej, che entra nella grande casa in punta di piedi ma con suole chiodate. Sciatta, schietta e stupida, riesce in breve tempo a rovinare la vita di tutti con capricci irremovibili. Naturalmente ha subito un figlio, che diventa re della casa con orari rigidi quanto sciocchi e grandiose inezie che lei non dimentica di raccontare. Per il neonato si spostano le camere, si cambia l'arredamento, si smette di ricevere. Si passa così dalla limitatezza della provincia all'esaltazione materna.
L'antico ordine affettuoso e claustrale cede il passo all'arrivismo senza scrupoli della mini borghesia che protegge i piccoli e condanna i fragili, licenzia i domestici e fa della vestaglia la corona di famiglia.
Nel frattempo i sogni si inpolverano, la speranza di andare a Mosca si trasforma in un ritornello pomeridiano, e i muri si sgretolano sempre più. Per addobbare la casa a festa le ghirlande stinte pendono lente a metà stanza senza gaiezza, e la vecchia domestica Anfissa (Emine Sevgi Ozdamar) si trascina lentamente su scale traballanti con un estremo sforzo d'obbedienza. Con la vecchiaia di Anfissa la decadenza è compiuta : Masa (Evelyne Didi) è in sottoveste nella notte dell'incendio, stremata dall'adulazione cieca di suo marito Kouliughine (Charlie Nelson) e pronta a concedersi un'avventura d'amore. Irina (Agnès Dewitte) decide di sposare il barone Tuzenbach (Yann Collette) che le si propone in pantofole, chiara allusione alla domesticità che il matrimonio annuncia, Olga (Christiane Cohendy) trasporta abiti e coperte da un piano all'altro per aiutare quelli più duramente colpiti dall'incendio e trasforma la casa in dormitorio provvisorio. Infine, Natalia assume la direzione domestica non tollerando più sprechi : vuol licenziare la fantesca troppo stanca e controllare personalmente i conti di casa. Qui la scena acquista l'inconfondibile cifra stilistica di Langhoff : diventa sghemba e lacera ogni proporzione reale. Andrej attraversa la scena con una carrozzina futurista e confessa il suo fallimento, Masa nel salutare Verscinin, divenuto il suo amante, scende da una scala altissima e corre verso di lui in un eccesso di furia. Pugni e pianti segnano la fine dell'ennesima illusione. Il barone Tuzenbach che l'indomani Irina avrebbe sposato senza amore ma con buona volontà e con il quale avrebbe costruito la nuova vita a Mosca, muore nel più stupido duello. Le casse del viaggio devono essere ridisfatte e tutto tornerà nella decadenza che attende la morte e lo sfascio di una classe già sostituita dal senso pratico e senza scrupoli della nuova classe rampante, incarnata da Natalia.
QUISAITOUT ET GROBÊTA
di Coline Serreau, regia di Benno Besson
Candidato a 7 Molière (il più noto premio teatrale francese) e vincitore di quattro, Quisaitout et Grobêta è in cartellone al Théâtre St. Martin di Parigi dal gennaio 1994.
Il testo, pubblicato da Actes Sud, si collega alla tradizione delle celebri coppie letterarie : due personaggi di livello diverso per cultura e condizione sociale vivono in simbiosi fingendo di esasperarsi. Ossia, fanno della loro differenza il pretesto per dar sfogo all'esasperazione che comunque esiste.
Coline Serreau ha creato "Chesatutto" e "Granbestia", due esempi di margine assoluto. L'uno vive vaneggiando ciò che molti vaneggiano : le grazie delle contesse, l'onore di un invito, la superiorità dell'uomo sulla natura. L'altro, troppo grasso, piccolo e storto, si ribella agli appellativi irrispettosi che deve comunque accettare e combatte a suo modo un ordine troppo caotico. Grobêta è sicuramente il più vivo dei due: crea filastrocche su ogni parola esasperando Quisaitout. Balla e salta al minimo gesto, non si perde mai d'animo e sogna cose semplici. Una frase gentile, di trasformarsi in una goccia d'acqua per scivolare sul bel corpo di una statua di marmo, di diventare un ramo per rimanere in un giardino dove si sta bene. Naturalmente non mancano i dibattiti filosofici, sorta di sevizia che Quisaitout (Gilles Privat) impone a Grobêta nel tentativo di educarlo. Ma le risposte di Grobêta fanno vacillare ogni certezza e aprono nuove interpretazioni, sempre appena accennate nella leggerezza del gioco di coppia.
L'incantevole baronessa (Trinidad Iglesias) decantata e adulata da Quisaitout è una buffissima e non irraggiungibile massa che deforma tutte le parole in "i" e si estasia per un nonnulla. I suoi ospiti sono personaggi dominati dalla banalità dall'incomprensione, tutti preda di un'esaltazione o di una scioccheria. Il solo ad aver realmente successo in quest'accolita di mezzi figuri è Grobêta, del quale la baronessa si innamora a prima vista perché "sa di buono, di mela fresca, e vien voglia di sederglisi accanto per sentirsi bene".
E' la stessa Coline Serreau a recitare la parte di Grobêta e fa del suo personaggio un misto di comicità, intelligenza e semplicità. Rovescia il senso di quello che si dice, senza cercarne un altro ma facendo intravedere quanti ancora potrebbero essercene.
Metafora del luogo comune e della solitudine, la pièce è invece una finestra aperta sulla possibilità di ribaltare tutto ridendone solo un po', contro il noioso ordine della razionalità a tutti i costi che non permette di vivere veramente.
La scena (di Jean-Marc Stehle) è composta da leggerissimi teli che si trasformano in mare o giardino, pini o cielo. Ondeggiano continuamente facendo di questo spettacolo una féerie che incanta nel suo antimimetismo non ricercato e altrettanto magico.AMLETO
di William Shakespeare, regia di Georges Lavaudant
Rosencrantz e Guildestern (Eric Frey e Malik Faraoun) sono due marionette vestite in verde e oro, due pappagalli a specchio che fanno del ghirigoro cerimoniale la loro scorciatoia fisica. Fra Ofelia e il fratello Laerte (Isabelle Gardien e Philippe Torreton) la regia ha calcato la mano nel denunciare il loro rapporto incestuoso con abbracci e carezze di una fisicità indubbia. La Regina (Christine Fersen) è, dalla prima all'ultima scena, in abito rosso, segno della sua lascivia e del suo peccato.
Con queste scelte, Lavaudant disegna la sua lettura di Amleto, non rivoluzionaria ma dissacrante.
La scena è completamente spoglia : pareti a vista con un'unica porta d'ingresso. I costumi, come nella alta tradizione della Comédie, sono molto belli. Il manto d'ermellino del re, sontuoso nel suo candore contrapposto al rosso scarlatto del velluto, è sufficientemente bello da giustificare la sua avidità di potere. La scena della preghiera di pentimento è lunga e il re è nudo (salvo uno slip bianco candido che ricorda pubblicità da rotocalchi) nel suo mantello, denunciando così fino a che punto l'abito regale sulla sua pelle nuda sia un'aggiunta che non gli spetta.
Lavaudant ha scelto di ridurre al minimo gli effetti teatrali : lo spettro del padre di Amleto (François Chaumette) passeggia vivo sulla scena illuminato da una luce verde fosforescente che gli conferisce un aspetto ultraterreno, senza ricorrere a lenzuoli o altri stratagemmi illusionistici.
La scena della pazzia di Ofelia, già fatta nei modi più diversi nell'infinito numero di regie del testo più rappresentato della storia del teatro, è veristica nella sua lunghezza. Impiastricciandosi il volto senza alcuna vanità e perdendo ogni decoro di fronte ai sovrani, Ofelia si degrada al punto da suscitare quella pena che è già condanna e dalla quale mai potrebbe sollevarsi.
Anche la celebre scena fra Amleto e la madre, quando Polonio (Jacques Sereys) muore come un topo dietro una tenda per mano di Amleto, ha i toni ambigui dell'incesto, ed è un profluvio di stoffe e capelli che si intrecciano nelle confessioni e nelle accuse.
Ma il monologo, banco di prova immaginario per tutti gli attori di teatro, è mal impostato : Amleto arriva correndo da dietro le quinte e giunto al bordo estremo del palcoscenico con un salto inizia il suo "Essere o non essere…", buttandolo nella ricerca di un'idea differente.
Redjep Mitrovitsa è un Amleto guitto e affascinante : il suo fingere la pazzia sembra essere uno dei migliori stratagemmi per liberarsi dalle chiacchiere e dalle trine della vita di corte e gli consente di girare a piedi nudi con il gilè aperto e i pantaloni sbottonati e di far dire agli altri più apertamente del solito tutte le inutili frasi che l'etichetta incoraggia. Biondo platino, rigorosamente in lutto, gioca con la sua pazzia e la vezzeggia come una creatura preziosa, mostrando solo a Orazio (Jean Pierre Michel) e agli attori il suo vero volto.
Il fascino personale dell'attore tinge di maledetto il personaggio, facendolo apparire irraggiungibile nella sua bellezza sprezzante e consapevole. Mitrovitsa era già stato Lorenzaccio alla Comédie, nella regia dello stesso Lavaudant. A due anni di distanza, ha preso lo stile e il tono di questo tempio della tradizione teatrale francese, senza perdere quel fascino un po' nero che ha chiara presa sulla platea.
La scena del duello-massacro finale è condotta con più forza che stile, e si conclude nel macello di corpi avvelenati dallo stratagemma mal calcolato del re. L'unico a resistere è Amleto, che muore con un colpo di genio di regia: in piedi. Aspettando Fortebraccio di ritorno in città, Amleto vuole affidargli il regno e lo aspetta di spalle al pubblico, fino a quando Orazio gli si avvicina gli chiude gli occhi distendendolo per terra.

In “Sipario”, luglio-agosto 1994

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Valère Novarina |
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