GIOIA COSTA ARTICOLI VASSIL'EV


Vasil’ev neutralizza i corpi e Medea è tragedia della parola

Firenze. Medeamaterial, presentato nell’ambito della IX edizione di Fabbrica Europa, è lo spettacolo della lingua: Anatolj Vasil’ev ha messo in scena il linguaggio, e questa è una idea che certamente segnerà il suo lavoro per molti anni. Gilles Deleuze, nel suo seminario alla Femis, diceva che "avere un’idea è una festa", perché organizza un pensiero e ordina un percorso iniziato da anni: ciò che prima si dava come frammento, emergenza isolata, affiora come forma.
Dopo l’analisi delle azioni fisiche, che aveva trovato nei tre spettacoli di Pirandello momenti di grande felicità non dimenticabili da chi ha avuto la fortuna di assistervi, è adesso la visione della lingua, della centralità del linguaggio, a guidare il suo lavoro con gli attori. L’idea che il teatro sia innanzitutto un’arte "verbale", e che sia l’unica arte che usi la parola dal vivo, era nata lavorando sull’Anfitrione di Molière, e si era poi ampliata nel Convitato di pietra e nel bellissimo Mozart e Salieri, entrambi di Puskin, trovando una sua configurazione teorica nel lungo seminario sui dialoghi di Platone conclusosi nel 1997. In questi anni il corpo dell’attore sembra sia diventato per lui un impaccio, e riveli la sua falsità rispetto al personaggio: Vasil’ev ha radicalmente cambiato stile all’apice del suo successo.
Con Medeamaterial di Heiner Müller, ha raggiunto una precisione formale e un rigore stilistico di rara suggestione. Il più potente dei miti femminili –Medea infanticida, ai limiti della follia, belva dell’ira che da Euripide, Seneca, Corneille e fino a Heiner Müller ha rappresentato il modello della ferocia femminile-, è accolto da Valérie Dreville con un controllo di toni e gesti che creano in scena una sospensione dall’intensità crescente. L’attrice arriva con un abito di lino a grandi quadrati e siede in proscenio. Gambe aperte e piedi ben poggiati a terra, non abbandona più la posizione. Dietro di lei, su uno schermo, scorre la parte centrale del trittico di Heiner Müller, Medeamaterial, in lingua originale. Valérie Dreville rompe il francese in una dizione sincopata, spezzata, antinaturalistica, e fa emergere alcune parole –enfants, frère, Jason-, che tornano ossessivamente nel monologo. Sono le sue immagini del tradimento. Lentamente, apre il vestito e inizia a spalmare il viso e il corpo di una crema sulla quale incolla delle bende, vano placebo alla sua inguaribile ferita. Il vestito cade: lei è nuda, seduta di fronte al pubblico. Un sesso eretto, trasparente e pieno d’acqua, la copre e al tempo stesso la espone ancor di più. Inizia a bendare il suo corpo, lentamente, nelle sincopate parole del dolore.
Medea tradita da Giasone non può che tradire se stessa, distruggendo per punirlo i due figli avuti da lui. La sua rabbia sfocia spesso in una follia contenuta, in spasimi che cambiano il movimento della lingua. Il francese si dissolve nelle contrazioni, per darsi come puro pasto sonoro, cui fa da specchio il mare ora calmo ora in tempesta sullo schermo sospeso. Le immagini del video sono il contrasto naturale alla tenuta rigorosa di Medea, e diventano il doppio di una parola costretta in misure violente dal compito che si prefiggono: l’uccisione dei bambini. Questi sono due pupazzi di juta riempiti di riso, che lei tira a sé con una fune senza spostarsi, e dilania con le unghie per poi gettarli in un bacile nel quale già brucia il suo abito, prima pelle di Medea quand’essa –barbara- viveva nell’amore. Con la pelle bruciano i due figli di Giasone.
Immobile, l’attrice ripete lentamente le ultime due batture del testo: "GIASONE: Medea. MEDEA: Balia chi è questo qui". Le ripete, esausta, feroce, immobile. È la fine dello spettacolo, e lei continua a chiamare identità dissolte. Immobile, bendata, nuda. Pochi osano alzarsi e il silenzio della platea denuncia una tensione che distingue le grandi notti del teatro.

L’Unità, 14 maggio 2002

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