GIOIA COSTA ARTICOLI PARIGI, LA NUOV A SCENA


PARIGI. Duecentocinquanta spettacoli al giorno, questa è la Ville Lumière. Fra novembre e dicembre Parigi festeggiava la trentesima edizione del Festival d'Automne, che quest'anno ha invitato Spiro Scimone con La Festa e Bar nella bella traduzione di Jean-Paul Manganaro, e la Socìetas Raffaello Sanzio con Giulio Cesare e Buchettino. L'Académie Expérimentale des Théâtres conclude dieci anni di attività con dieci giorni di incontri e spettacoli al teatro del Rond-Point, quello mitico fondato da Madelaine Renaud e Jean-Louis Barrault. Artisti come Vassiliev, Langhoff, la Malina, Novarina, Nekrosius, Castellucci, Arias, Bartabas, hanno creato un omaggio all'Académie e alla sua direttrice Michelle Kokossowski. Si è proiettata la conferenza di Gilles Deleuze alla Femis, nella quale si interroga su cosa sia avere un'idea in cinema, ma si sono anche visti i primi spettacoli del Living o del lavoro di Grotowski, o il film della Betti su Pasolini, in prima nazionale. Le proposte provenienti da tutto il mondo sulle scene francesi confermano che a teatro assistiamo al trionfo dell'immagine: sono le visioni a popolare la scena. La parola declina, declina la presenza dell'attore, mentre acquistano sempre maggior peso le nuove tecnologie, e l'uso dei corpi è amplificato da immagini proiettate, microfoni e luci taglienti.
Un esempio regale di questo modo di usare i segni è il Woyzeck che Bob Wilson e Tom Waits hanno presentato all'Odéon. Ricco di idee e di una precisione scenica sorprendente, questo Woyzeck è davvero un dono. Il testo, lasciato incompiuto da Büchner nel 1836 all'età di 24 anni, è di una modernità sorprendente, e possiede una carica sovversiva resa ancor più evidente dalla giovinezza dell'autore. Nello spettacolo le scene, gli animali di carta, i costumi scolpiti, le musiche e le luci, tutto ciò che Wilson ha utilizzato e creato con i proiettori contribuisce a una riscrittura vitale e fredda del testo, che si somma a recenti e passate visioni, da quella di François Tanguy a quella di Giorgio Barberio Corsetti o di Alexis Forestier. I colori delle luci e dei costumi, come le loro fogge, hanno memorie futuriste nelle loro geometrie sghembe, e le silhouettes di carta che traversano la scena possiedono il nitore di squarci fortemente innovatori. Si apre il sipario: Woyzeck rade il capitano e la sua figura si staglia su fondi luminosi e musicali che scandiscono i gesti resi esemplari da una scena senza fondo. Le luci tagliano, diventano testo e stabiliscono i tempi del racconto. Si alternano colori forti a bianchi e neri nettissimi, per far scivolare un filo di rosso sulla lama di una ghigliottina che diventa segno potente sulla scena bicroma. L'apparire e lo scomparire degli elementi, evidenziati da un colore o cancellati da un'ombra, scrivono in scena il delinearsi rigoroso di un'idea. Come quella mano rosso fuoco sul corpo bianco latte che si prepara all'assassinio senza mai allontanarsi dal fascio di luce che la tinge con una perfezione mirabile.
Di tutt'altra natura il lavoro del Wooster Group che, ospite del Festival d'Automne, ha presentato al Centre Pompidou The Hairy Ape, da Eugene O'Neill. Se è vero che il confine che separa le arti è incerto, è anche vero che la pratica della contaminazione ha aperto i confini della creazione. Dal 1974, il Wooster Group lavora a Soho, New York, sotto la direzione di Elisabeth LeCompte, sulla sovrapposizione fra corpi, suoni, video e musiche. I loro spettacoli sono segnati dalla pratica della contaminazione: il testo è un materiale teatrale che viene esaminato come un controluce, per rivelare nella stratificazione dei piani i paradossi moderni, come la convivenza di culture destinate a fondersi, l'ascesa del materialismo e la conseguente degenerazione di costumi e valori, per sottolineare l'importanza del ruolo dell'artista nella società. The Hairy Ape si svolge in una gabbia punteggiata da microfoni, creata con tubi innocenti, tiranti a vista e piattaforme mobili, nella quale gli attori emergono come figure nere di una farsa capitalistica: volti tinti di nerofumo, rumori e voci metalliche creano un universo d'incubo nel quale solo la violenza aiuta a sopravvivere. Willem Dafoe (che abbiamo visto nel Paziente inglese), è alla guida di un transatlantico nel quale le rivendicazioni sociali fra i lavoratori sono origine del malessere, e domina i suoi sottoposti con godimento tanto più duro quanto definitiva è la sua disperazione umana. Sette schermi televisivi contrappuntano l'immagine diventando voragini di visioni, e battono il tempo dell'incontro trasformando il palcoscenico in un ring nel quale gli incontri sono scanditi dalle musiche di John Lurie. Otto incontri scandiscono un gioco di livelli testuali, visivi e agonistici perfettamente definiti, nei quali la speranza non ha luogo.
Diverso per composizione è il loro secondo spettacolo, To you, Birdie!, di Paul Schmidt dalla Fedra di Jean Racine. Una partita a volàno con gli schermi che ne raccontano gli esiti e un microfono in scena che scandisce il punteggio, To you Birdie! è costruito a strati frontali, evidenziati dal passaggio di pannelli divisori. Anche qui siamo davanti a un gioco di schermi e figure, ma su un unico livello, e la costruzione del palcoscenico lascia più liberi gli attori, consentendo loro di esplorare il testo e di riscriverlo in scena con il corpo, i video e la musica, non senza qualche eccesso escremenziale. Quando il figlio di Teseo entra nell'acqua, l'acqua era in realtà proiettata e il gioco fra realtà e visione rilancia la denuncia di una realtà illusoria. Si delinea un semi-incesto quando Teseo (Willem Dafoe) imita i busti marmorei nella sua autoproiezione narcisistica e Fedra trionfa come essere dominato dalle passioni: tenta il suicidio, si lascia travolgere dagli eventi, accusa che le è vicino e fomenta ire per poi avvelenarsi. Kate Valk modula gli umori del personaggio nella sua voce e nel suo corpo vibratili, che rispondono al testo con arcate del tono o della schiena.
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Peter Brook sa creare in scena la magia della visione: un bastone diventa mare in tempesta, spada, linea dell'orizzonte o arco teso della battaglia, arrivando a costituirsi come scenario sufficiente all'intero spettacolo. L'Homme qui è un adattamento del celebre testo L'homme qui prenait sa femme pour un chapeau del neurologo Olivier Sacks, ed è costruito su brevi scene fra medici e pazienti. Per Sacks, scrive Brook nel programma, i casi più difficili e più dolorosi non sono malati ma "guerrieri che attraversano voragini e abissi interiori con il coraggio e la determinazione degli eroi dei miti tragici", e il carattere tragico dei loro destini traspare: gli attori assumono le vesti di paziente e medico e, cambiando abito, cambiano postura, carattere e maschera. Nelle loro camicie quotidiane sono spaesati, nudi, offerti allo sguardo dell'altro mentre, quando indossano il camice bianco, ritrovano l'appartenenza al ruolo di dottore, e riconquistano così toni e linguaggi rassicurati. In scena ci sono poche sedie bianche e due tavoli con le rotelle su una pedana di legno che delimita l'azione. La semplicità della scena permette di raccontare i diversi casi solo spostando gli elementi, secondo l'estetica di Peter Brook che colpisce per la sua essenzialità ricca di possibili evocazioni, tutte suggerite dalla presenza dell'attore che con Brook riesce a far apparire ciò di cui parla. Questo spettacolo segna un modo caldo di trattare il malessere, la malattia, lo spaesamento, offrendo allo spettatore la possibilità di ridere del dolore, di riderne per non sentirsi colpito o in pericolo. Eppure, Peter Brook strania il riso rigenerante facendo riascoltare al paziente il suo delirio linguistico registrato e questa ripetizione, questa riproduzione del caos, genera un diffuso disagio nel personaggio del paziente come in platea, interrompendo l'onda rassicurante dell'identificazione che separa l'Altro da Noi, il malato dai sani, il deviante dal conforme. Il riso del pubblico unisce e proprio perciò segna un confine, ma questo confine vacilla quando viene riesplorato, lasciando affiorare la debolezza del limite e della distanza. L'homme qui torna sulle scene francesi, e una platea numerosa lo ha accolto con applausi generosi.
(L'Homme qui, di Peter Brook e Marie-Hélène Estienne da Olivier Sacks. Con: Bruce Meyers, Maurice Benichou, Yoshi Oïda e Sotigui Kouyate. Musica di Mahmoud Tabrizi-Zadeh, luci di Philipe Vialatte, realizzazione delle immagini di Jean Claude Lubtchansky. Regia di Peter Brook. Teatro Les Bouffes du Nord).
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Les Cantates è uno spettacolo composto su equilibri che rompono l'unità dello spazio e la linearità del tempo. Una costruzione fatta di masse visive, sonore e cromatiche, nella quale un personaggio seduto in proscenio sembra far da contrappeso all'azione che ha luogo sul fondo: gli attori mantengono in equilibrio una scena nella tempesta del senso, prendendo antichi segni dei loro lavori per ricomporli diversamente. È uno spettacolo magnifico, con il quale è subito oltre l'idea di rappresentazione, e il passaggio dei grandi pannelli sembra tagliare la scena, come fossero lame che sezionano lo spazio, creando ogni volta nuove forme, nuovi spazi per il corpo dell'attore. Anche le voci si aprono alle diverse sonorità delle lingue: l'italiano, il francese, il norvegese, il tedesco. Fosco Coriolano è la prima voce, e questa è quella di Dante. Una proferazione forsennata che assume il colore della profezia nel tono di lotta con la musica. Sotto il suo cappello triangolare, sostenuto e sommerso dalla musica, Coriolano lotta nella parola per arrivare a creare un nuovo spazio, che sarà poi occupato da Laurence Chable. Lei arriva con un piccolo tavolo, e varia con le luci, le musiche, gli equilibri della scena: sembra appartenere allo spettacolo, vi aderisce come i pannelli, i costumi e il suo colletto di pizzo. Come fosse senza volontà nella concentrazione della sua potente presenza: appartiene a quel corpo scenico che è frutto di nove mesi di prove durante i quali si è tolto, cancellato il lavoro lasciandone solo il cuore, che appare allora chiarissimo e luminoso, e sembra dar nuova luce anche ai precedenti lavori del Radeau. Ci sono notti e giorni, in questo spettacolo, come pagine di una riflessione sulla scena che continua ad approfondirsi. Frøde Bjornstad lavora sulla sottrazione, e nel ridisegnare lo spazio riesce, spostando un grande tavolo, a creare una scena di resti. Resti occupati da Katia Fleig, Herik Gerken, Muriel Hélary, Karine Pierre e dalle loro lingue. E così le musiche, i corpi, i costumi sono ciò che resta del teatro, ciò che, dopo le esperienze degli ultimi anni, resta l'essenza del fatto scenico. Possono cambiare segno, come il testo che si dà in frammenti o lo spazio che si scompone a vista, ma sono comunque il cuore del teatro. Brani di Bach, Dusepin, Haydn e Vivaldi incontrano le parole di Dante, di Coleridge, Sofocle e Rilke, creando un flusso di lingue, che scorrono sulla scena come i grandi pannelli. Il regista François Tanguy ha creato uno spettacolo di strati sovrapposti, come le vesti degli attori, o della scena, che è abitata da tele, drappeggiata di luce, di suono, di voci che si sovrappongono creando materia teatrale aperta e aerea, che si compone sotto gli occhi dello spettatore senza scorie, senza niente di approssimativo. È un atto di appartenenza al teatro della tempesta, come quella zattera di Géricault, Le Radeau de la Meduse, che ha dato il nome alla compagnia.
(Les Cantates. Regia e scenografia di François Tanguy - Théâtre du Radeau, con Laurence Chable, Fronde Bjørnstad, Fosco Coriolano, Katja Fleig, Éric Gerken, Muriel Hélary, Karine Pierre. Regia generale Hervé Vincent, suono Mathieu Oriol. Théâtre du Soleil).

L'Unità, 29.12.2001

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