GIOIA
COSTA INCONTRI JAN FABRE
/ PROVOCO DUNQUE SONO Jan
Fabre da venti anni mette in scena il conflitto: provoca per toccare lo spettatore
e crea mondi onirici coperti di sangue, fluidi scorie, eiezioni e detriti. Costruisce
immagini potenti fra il divino e il mostruoso, ma non fonde mai i linguaggi. In
teatro, come nell'arte, la sua forza sovversiva colpisce il pubblico spaccandolo
ogni volta in due. Dopo Je suis sang, creato in luglio al Festival di Avignone,
da venerdì sarà al Teatro Argentina con As Long as the World Needs
a Warrior's Soul, ospite di RomaEuropa Festival. In occasione dello spettacolo
e delle sue mostre Umbraculum e L'uomo che misura le nuvole, che si terranno a
Roma il 18 ottobre, l'una alla Galleria Comunale d'Arte Moderna e Contemporanea
e l'altra all'Accademia Belgica, lo abbiamo incontrato nel suo albergo. -
As Long as the World Needs a Warrior's Soul è stato accolto come teatro
del pericolo, provocazione estrema, rabbia scenica. Può raccontarcene la
genesi? - Quando lavoro cerco sempre la bellezza, che per me ha il colore
della libertà. Non è rossa o nera, e non è legata all'estetica,
altrimenti sarebbe trucco, maquillage. La bellezza è legata all'etica.
Questo spettacolo è nato ad Anversa, la mia città, e risponde a
due urgenze. La prima è l'esito delle nostre ultime elezioni, nelle quali
la destra ha vinto. È il mio modo di dire che non sono con chi distrugge
la libertà, non ne condivido le opinioni. È dedicato al corpo, che
è un confine, una corazza, una soglia; e protesta. Il corpo protesta sempre.
Qui vuole difendersi: il primo tema quindi è politico. L'altro è
una riflessione sul terrore della chiarezza. Pensiamo alla morte: la accettiamo,
la diamo anche, ma non vogliamo mai vederla. Me lo ricordo, l'odore del sangue
in macelleria, quando ero piccolo. Oggi c'è il cellophane; tutto è
protetto, isolato. Igienico, si dice. Noi mangiamo carne, e manchiamo di rispetto
agli animali non volendo sapere. Chiudere gli occhi è un crimine. Ci fanno
credere sia civile il cellophane e incivile il mattatoio: è solo ipocrisia.
Ecco perché nello spettacolo uso tanto ketchup, cioccolato, uova: in scena
diventano sangue, escremento, sperma. Diventano i liquidi del corpo. - Il
corpo che protesta come si difenderà? - Mio nonno era entomologo, e
da bambino vedevo coleotteri, scarabei e altri invertebrati dalle corazze lucenti.
Dagli insetti so quali protezioni servono, quali strategie di difesa elaborare.
E l'entomologia arriva negli spettacoli, ma anche sulla tela, nelle sculture,
nei disegni. Quando lo scheletro uscirà fuori anche in noi, quando la pelle
sarà fatta dalle ossa, allora finirà il Medioevo nel quale, nonostante
tutto, viviamo; allora potremo riscrivere la storia e le emozioni. In futuro le
ossa saranno come le corazze dei coleotteri. E finalmente potremo difenderci,
non ci feriranno più. - Come ha composto lo spettacolo? - Ho immaginato
due figure di guerrieri: i guerrieri diurni, che non sanno ciò che fanno
e, confusamente, si ribellano al corpo perché temono la chiarezza, e i
guerrieri poeti, che protestano e non si arrendono alla fine dell'individuo. La
drammaturgia è composita: c'è una canzone di Billie Holiday, Strange
fruit, che rappresenta gli anni '40, una di Léo Ferré, Le chien,
degli anni '60, una dei Velvet Underground e un testo di Dario Fo dedicato alla
terrorista Ulrike Meinhof, che parla del dolore. Frammenti diversi che diventano
un'unica storia, come avviene nella vita. In realtà, noi prepariamo l'undici
settembre da sei decenni. - Nei suoi spettacoli ci sono monologhi che si spezzano
e rinviano immagini molteplici, come in uno specchio. Che ruolo ha la figura del
doppio? Nasce dalla mia storia: Je suis sang è legato alla mostra Umbraculum
come questo spettacolo a L'uomo che misura le nuvole. La mostra prende il nome
dalla statua di bronzo che sarà sul tetto dell'Accademia Belgica. Ma quella
statua è anche mio fratello, che è morto molto giovane, il mio doppio.
Ho un rapporto profondo con lui e, in scena, la sua assenza diventa il doppio
metaforico. D'altronde, ogni carattere è un insieme di personalità:
la loro frattura genera energia, che diventa movimento, tensione, vita. -
Lei è contro l'ibridazione in ogni forma arte. Vuole parlarcene? -
Si può giocare solo conoscendo le regole del proprio gioco. Ogni ambito
artistico ha un linguaggio, e la strada che compone una forma è sempre
lunga: è fatta di memoria, di fili da trovare. Anche nella scena più
visionaria tutto è separato, e conserva la sua lingua. Si possono creare
legami, non fusioni. La contaminazione distrugge l'intensità, moltiplica
e quindi sfigura tutto. La buona avanguardia ha profonde radici nella tradizione.
Eppure sono perduto, perduto come ogni artista sincero. Siamo Imperatori della
perdita, sempre. Non si crea per vincere, per arrivare da qualche parte; semmai
si vuole perdere qualcosa, e si è guidati da un ideale. Io cerco la bellezza
e credo negli uomini. Pensiamo a un angelo: è perfetto, unico, originario,
e non fa nessuna fatica. L'uomo, invece, cade, si alza, prova a camminare, a migliorare
le cose. Non è unico, non è originario. E ha il corpo, questo strumento
misterioso con reazioni chimiche indipendenti dalla volontà. - Lei
disegna tutti i giorni, e la sua bic blu è diventata leggendaria. Che ruolo
ha la pittura del passato? - Copiare è bellissimo: Bosch e Van Eyck
mi hanno regalato un mondo, e sono ricchi di segni ancora da scoprire, che posso
prendere e far parlare di nuovo. Bosch è l'esplosione dello spazio, Van
Eyck dell'anatomia. Pensi ai quadri di Bosch: impossibile stabilirne il centro.
O le figure sedute di Van Eyck: quando si alzano sono completamente sbagliate
dal punto di vista anatomico, eppure sono potenti. Attraverso la sproporzione
Van Eyck ridisegna il mondo, è più virtuale di qualsiasi computer.
Da loro continuo a imparare, a rubare, sono contemporanei oltre la storia. La
pittura fiamminga è una fortuna meravigliosa. I tedeschi e i fiamminghi
sono vicini eppure hanno due immaginazioni lontanissime. Nei primi c'è
sempre un punto focale, un orientamento, mentre nei fiamminghi l'immaginazione
esplode, è selvaggia, senza centro. - Borges in un suo racconto parlava
dei giusti, persone che, non conoscendosi fra loro, stavano salvando il mondo.
Pensa che il teatro possa farlo? - Credo nel teatro perché non ha tradito
la sua natura: è il luogo più spirituale che esista oggi. Tiene
lontani i media con il loro alone di morte. Anche i musei, penso a quello di Lione
o agli altri recenti, sono diventati supermercati. Dicono che sia il futuro, un
futuro dove ogni desiderio è merce, e i valori costi. Il teatro è
fuori da questa logica, e lavorando si può cambiare qualcosa, credo.
- In che modo? - Essendo generosi, prima di tutto. Bisogna aprire gli occhi
e dare, e magari riuscire a provocare le persone. La provocazione è considerata
una cosa negativa. Secondo me è elegante: sveglia la mente, pone problemi,
arricchisce. È un richiamo: vocare, chiamare a sé. - Che rapporto
ha con la morte, così vicina alle sue immagini insanguinate eppure mai
presente come messaggio nichilista, come minaccia o timore? - La morte è
energetica, riattiva i circuiti, e anche la speranza. Tutto il mio lavoro nasce
dalla speranza ed è contro il cinismo. Torniamo al mattatoio, visto che
mi hanno definito carnefice dopo Je suis sang: il mattatoio non è il male,
fa parte della realtà. Il male è chiudere gli occhi, far finta di
niente, come il cellophane di oggi. Allontanarsi dal corpo è un crimine:
la civiltà non è nella distanza, nel tonno in scatola, nei formaggi
affettati. Quello è solo cinismo, menzogna. Eppure l'uomo, se non mente
un po' a se stesso, non è felice. È una strana cosa, la felicità.
LUnità, 16.10.2001
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