GIOIA
COSTA INCONTRI GIORGIO BARBERIO CORSETTI
/ FORUM DELLA CREATIVITA'
INTERVENTO:
GIOIA COSTA - GIORGIO BARBERIO CORSETTI Costantino DOrazio:
Grazie a Paolo Rosa e a Ludovico Pratesi per la concisione e la densità
delle loro parole. Chiudiamo e riapriamo velocemente il sipario sul teatro con
Gioia Costa e Giorgio Barberio Corsetti, mentre il video ci introduce il lavoro
di Corsetti. Giorgio Barberio Corsetti è ospite di questo forum per una
sua particolarità: da una parte come grande e riconosciuto autore di teatro
che ha rinnovato la scena italiana, dall'altra come direttore della sezione teatro
della Biennale di Venezia. Quindi non è soltanto autore di se stesso, ma
gode di un osservatorio privilegiato nei confronti delle nuove tendenze del teatro
internazionale. In virtù di questo, vorremmo ci desse un parere poliedrico
sulla situazione dell'oggi e del domani del teatro. Gioia Costa: Questo doppio
profilo di Giorgio Barberio Corsetti mi pare prezioso per avvicinarsi in maniera
complessa a ciò che può voler dire nel teatro non solamente far
uso delle nuove tecnologie, ma anche accogliere nel proprio lavoro i diversi linguaggi
della scena. Vorrei partire dal titolo del nostro incontro di oggi, che anche
Alberto Abruzzese analizzava poco fa. La domanda che ci riunisce questo pomeriggio
è come le nuove tecnologie abbiano influenzato il modo di fare arte oggi.
Mi sembra allora importante iniziare il nostro incontro distinguendo due maniere
di esplorare il nuovo. E' una distinzione cardine che decide i modi di fare teatro
e che spesso viene cancellata: quella fra la ricerca e la sperimentazione. La
sperimentazione è qualcosa che indaga quello che è nella superficie,
indaga cioè i linguaggi che si alternano fra ciò che è noto
e ciò che non è ancora noto, fra il precario e quello che di nuovo
preme e che vuole uscir fuori. La ricerca, invece, ha un obiettivo molto preciso,
ricerca intorno a qualcosa. A partire da questa considerazione si può dire
che tutti gli elementi che compongono lo spazio teatrale, gli elementi che concorrono
alla composizione di uno spettacolo, sono e si possono leggere come segni, segni
di un fare teatro il cui linguaggio è composto appunto da elementi diversi,
non soltanto dalla lingua, dalla parola, ma dalle luci, dai corpi, dai suoni e
da ciò che tende a costruire il fatto teatrale. Le nuove tecnologie nelle
loro diverse forme fanno parte di questo linguaggio, sono elementi di quella scrittura
rappresentata dallo spettacolo. Se questo è vero, capiamo che non è
più così centrale chiedersi se sia "contemporaneo" usare
le nuove tecnologie. Ci diceva in maniera preveggente Paolo Rosa quanto i pericoli
delle nuove tecnologie ci circondino come un'aura della quale non ci rendiamo
conto. Ma sono il nuovo che preme di cui parlavamo prima, e per molto ancora sarà
così. Nel teatro italiano Giorgio Barberio Corsetti è stato
uno dei primi ad utilizzare le nuove tecnologie. Questo è avvenuto perché
la sua linea di ricerca è molto marcata fin dagli inizi, dalla metà
degli anni Settanta quando la sua compagnia si chiamava "La Gaia Scienza".
Penso a Cuori strappati, che risale al 1983 , ed era una costruzione di immagini
molto forte, ricca di suggestioni nell'uso del rapporto fra corpi e spazio, suggestioni
che mettevano in dubbio le leggi naturali come la forza di gravità e le
consuetudini del racconto. Questo ha portato Giorgio Barberio Corsetti, già
nel 1987, a realizzare con Studio Azzurro e con Paolo Rosa La camera astratta
e Prologo a diario segreto contraffatto. L'interazione fra il video che esplorava
il corpo e il corpo che si faceva video, si faceva schermo, rappresentava una
novità che apriva ricche possibilità di analisi e di riflessione.
Negli spettacoli successivi la ricerca ha mantenuto la sua tensione, anche cambiando
di segno. Prendiamo l'ultimo, Il Graal, presentato lo scorso anno. E' stato tappa
di una ricerca che poi continuerà altrove. Questo spettacolo ha preso uno
dei miti fondatori della nostra cultura per raccontarlo in un altro modo e lo
ha fatto anche usando macchinerie teatrali apparentemente povere, che sono ancora
una volta suggestioni visive potenti, come la grande pozza d'acqua nella quale
si riflette tutto. Gli elementi, i segni, sono dei passaggi di studio e di ricerca.
Devo dire che Barberio Corsetti ha sempre declinato in modo molto personale la
visione, il racconto per immagini: anche nei casi più squisitamente visivi
è frequente il rapporto con le origini letterarie, nonostante lo spettacolo
le racconti in maniera nuova. Pensiamo a Descrizione di una battaglia da Franz
Kafka: la scena era un enorme muro bianco che gli attori attraversavano bucandolo
e uscendone fuori, e da Kafka nasceva la possibilità di un uso molto diverso
dello spazio scenico. Vorrei iniziare col chiedere a Giorgio Barberio Corsetti
se è d'accordo con la possibilità di iscrivere il tecnologico fra
i linguaggi della scena, considerandolo quindi il segno di un linguaggio.
Giorgio Barberio Corsetti: Da quando, nel 1986, ho lavorato con Studio Azzurro,
sono cambiate molte cose. Come quando in teatro, per illuminare, si usavano candele
immerse in una boccia d'acqua, e la luminosità aumentava come attraverso
una lente, e poi sono arrivati i proiettori che ci illuminano adesso. C'è
stato un passaggio, un cambiamento importante. Vedendo molti spettacoli mi sono
accorto che, a parte i miei, sono tanti quelli nei quali entra in maniera decisiva,
come elemento del linguaggio scenico, l'utilizzazione dei media. C'è stata
una grande trasformazione, un grande cambiamento. Nel mio lavoro il punto di passaggio
è stato quando, con Paolo Rosa, ci trovavamo di fronte al palcoscenico
e a questi elettrodomestici davvero ingombranti e per altro, all'epoca, parlo
dell'86-'87, ancora molto fragili. Avevamo difficoltà nel farli muovere
e dovevamo articolarli in una durata che è quella di uno spettacolo teatrale.
L'installazione video, la video ambientazione, ha un tempo potenzialmente infinito;
vive là, si anima, prende vita come un quadro, si riflette nella coscienza
dello spettatore che passa e decide il tempo della sua fruizione. Uno spettacolo
è tutta un'altra cosa: ha una sua durata, una sua organizzazione; pone
dei problemi diversi di composizione, determina quindi come gli elementi si incrocino
tra loro e altro ancora. In quelle prime esperienze di fatto il lavoro era metalinguistico,
era una riflessione sul mezzo: La camera astratta rappresentava un modo di attraversare
questo luogo astratto e mentale che è lo spazio virtuale, e poneva una
serie di interrogativi che forse oggi non è il caso di sollevare. Di fatto
poi c'è stata una integrazione, anche grazie al lavoro svolto con Studio
Azzurro. Infatti, dopo qualche anno, alcune cose che avevamo messo insieme, ma
anche immagini, io le ho ritrovate altrove. Voglio dire che funzionavano, tanto
è vero che anche altri hanno pensato bene di utilizzarle. Nello stesso
tempo, però, l'uso della tecnologia o del virtuale non era più centrale.
Era una parola che poteva essere più o meno articolata in funzione del
linguaggio della scrittura scenica. Eppure alla fine, nel teatro, questo luogo
strano, questa zona in alto o in basso rispetto a voi, comunque un punto verso
il quale si guarda, che attira lo sguardo in un tempo definito, alla fine, dicevo,
il vero territorio nel quale si incrociano i linguaggi, il luogo che è
trafitto da tutti i linguaggi possibili, è e resta il corpo. Il teatro
è il luogo del corpo, non c'è niente da fare, anche se il luogo
è assente, non appare mai. Comunque il teatro denuncia una presenza, è
il luogo della presenza. A partire da questo emerge una serie di pensieri:
la necessità, a teatro ad esempio, di ritrovare il silenzio. E' il luogo
del corpo, è il luogo della presenza, è il luogo del silenzio; tutto
ciò che viene fatto, che viene detto, avviene a partire dal silenzio. Non
è un pieno, è un vuoto. Il teatro fa il vuoto, leva, toglie, non
mette niente. E' il luogo delle ombre. Non sto facendo un discorso mistico o metafisico,
voglio dire che la nostra mente, il nostro corpo, sono attraversati continuamente
da luci, ombre, immagini, frammenti. Noi siamo composti anche da questo. Il gesto
teatrale restituisce tutti i frammenti, ma lo fa dopo che questi ci hanno attraversato.
Io credo che il gesto artistico non abbia una sua oggettività; certo, si
lavora su elementi oggettivi, ma tutto è frutto di una operazione di filtro,
di decantazione. Vorrei fare un esempio molto convenzionale: quando si ascolta
Cechov recitato bene in teatro si dice: "Ma
è come la vita!",
invece è come un quartetto di Mozart, è ipercomposto, ma sembra
che tutto succede così, là. E'un raffinatissimo decantamento della
vita così com'è. E' altro, è arte. Forse non ho detto quello
che dovevo dire, parto per la tangente, perdonatemi. Anche la parola creatività,
non so perché, ma per me contiene un frastuono, un rumore. Bisogna togliere.
C'è pieno ovunque, viviamo in un troppo pieno. GC: L'esigenza di fare
il vuoto, del fatto che si entri in scena per far scomparire qualcosa. E' una
necessità che torna ogni volta che un corpo d'artista parla. E' sorprendente:
quando la parola viene a voi, agli artisti, dalle esperienze più lontane
torna sempre questa necessità, in tutti uguale. Tornando al tema ti chiederò,
dal tuo osservatorio privilegiato non solo di artista ma di direttore della Biennale,
se puoi dirci in che modo secondo te queste nuove tecnologie entrano a far parte
del processo creativo. GBC: Facciamo un esempio: parliamo delle luci, dell'uso
del computer per fare le luci. E' stato un cambiamento incredibile. Tutto è
diventato più facile, più realizzabile, è diventato possibile
mettere insieme uno spettacolo in modo nuovo, semplificando ogni passaggio. Assistiamo
alla nascita di un orizzonte tecnologico straordinario. Anche in quello che è
il rapporto tra l'immagine e il suono, quello che viene chiamato la sintesi granulare,
o tra il suono e la luce, si affacciano nuove possibilità, e man mano che
si aprono, si scoprono delle frontiere, e si scopre anche che queste frontiere
hanno a che fare con il funzionamento del nostro cervello, sempre. Andando in
giro, guardando spettacoli nati da esperienze, lingue e paesi diversi, mi accorgo
che i confini tra le arti sono molto labili: soprattutto quando ci si muove nelle
zone della tecnologia non si sa più di che cosa si stia parlando. Molte
cose sono anche legate all'aspetto musicale: esistono eventi di musica e di immagini
con una loro durata, che è la durata del pezzo musicale, per esempio. Voglio
dire che c'è un movimento enorme, che si percepiscono possibilità
diverse. Serve però sempre quell'elemento soggettivo che si appropria di
questo, lo distrugge e lo ricrea con un gesto artistico. GC: La domanda che
ci poniamo oggi è in che modo le nuove tecnologie abbiano modificato il
fare artistico contemporaneo. Ripensando a a quello che già vent'anni fa
faceva Carmelo Bene con la fonica ti chiedo se sei d'accordo che oggi il tecnologico,
come gli altri segni, si inscriva all'interno di un linguaggio, la scrittura di
scena, come elemento che punteggia la composizione del fare artistico? Sicuramente
adesso abbiamo degli elementi in più, come stavi dicendo, elementi nuovi,
però questo genere di ricerca è sicuramente antica,. GBC: Sicuramente,
però cambiano anche i modi di sperimentare. Negli anni Settanta era un
lavoro di trincea che non aveva niente a che fare con il rapporto col pubblico.
Poi, negli anni Ottanta, ci si è incominciati a preocupare di trovare anche
un pubblico per quello che si faceva. Oggi le cose sono ancora diverse e continuano
a cambiare. Fortunatamente il teatro non è necessariamente legato ad un
luogo convenzionale: oggi siamo qui, all'Acquario Romano, e questo è uno
dei luoghi in cui ho fatto delle cose, in questo spazio ma anche nel quartiere.
In realtà tutto dipende da chi prende in mano la cosa e si costituisce
le sue regole, i suoi rapporti con i linguaggi che attraversa, che siano spazi,
luoghi o corpi. Quando ho un'idea, per esempio sull'uso della video proiezione
all'interno di uno spettacolo, poi può succedermi di vedere qualcosa che
non ha alcun legame con quello che faccio io, dove c'è un uso diverso della
video proiezione, ad esempio, e questo mi sorprende perché, partendo da
un nuovo punto di vista, altri possono essere arrivati a fare cose totalmente
diverse che funzionano, e che sono belle. Quindi la tecnologia ha senso solo se
iscritta dentro un pensiero, un pensiero sul teatro o sull'arte. Non esiste di
per sé, è un sogno, come diceva prima Paolo Rosa, è qualcosa
che viene dal profondo, e che parla a te. Indubbiamente si deve avere una conoscenza
per utilizzarla, anche se oramai la grande sofisticatezza dei mezzi, diciamolo,
è alla portata di chiunque. Una telecamera digitale o un video proiettore,
solo pochi anni fa costavano una fortuna. E una telecamera comprata oggi fra tre
mesi costerà la metà. Tutto si muove, c'è una corsa e questo
è anche entusiasmante. Adesso si lavora col disco e non con le cassette.
Sembra una banalità, ma pensate al lavoro che avete appena visto fatto
da Studio Azzurro: anni fa si sarebbe fatto su cassetta. Io ricordo, ad esempio,
che quando loro facevano Il nuotatore dovevano sincronizzare trentasei videoregistratori
premendo il pulsante tutti insieme. Oggi è un altro mondo, un altro modo
di lavorare. GC: Sottolinei la rapidità di questo cambiamento. Secondo
te verso cosa si sta andando e quale sarà il cambiamento compositivo?
GBC: Francamente non lo so. Posso parlare di cosa cambia in me, di cosa cambi
fuori mi è difficile parlare. Ovviamente, lo avrete capito, ho due punti
di vista diversi: quello di chi che fa le proprie cose e l'altro, quello di chi
le fa fare ad altri, entro limiti determinati da un budget non proprio grandioso.
Quando guardo il lavoro degli altri conservo sempre una grande possibilità
di meraviglia, di stupore, di sorpresa sul loro lavoro. Devo dire che incontro
esperienze ricchissime, nelle quali per esempio il corpo non è presente
là, è presente nell'immagine. Eppure, nella durata e nel modo di
mettere insieme il suono e l'immagine, improvvisamente qualcosa si apre, e ne
nasce una riflessione sul corpo fortissima. Ci sono ancora molte sorprese..
GC: Costantino D'Orazio ci sta facendo un cenno.. CDO: Abbiamo soltanto altri
cinque minuti. Qualcuno vuole forse fare una domanda? Ludovico Pratesi: Io
volevo fare una domanda a Giorgio Barberio Corsetti. Dunque, secondo me, probabilmente
per ragioni di tempo, è stato poco esplorato il rapporto tra le diverse
arti. Tutti lo hanno evocato, ma nella realtà queste esperienze sono meno
frequenti di quanto immaginiamo. Ancora oggi nel mondo del teatro, dell'arte visiva,
del cinema, della musica, se ne parla poco e se ne conosce poco. Anche se le nuove
tecnologie permettono di sapere, teoricamente, tutto su tutti. Negli anni Sessanta
e Settanta le collaborazioni erano più frequenti. Tu hai lavorato con Studio
Azzurro, ma pensi ancora di lavorare con altri artisti, con artisti non necessariamente
legati al mondo tecnologico? La stessa domanda la si potrebbe porre ad Ozpetek
per quanto riguarda i suoi film, a Max Gazzè per i suoi video. Ancora oggi
mi pare che ci sia poca interazione reale tra i vari mondi dell'arte. E' corretto?
Volevo sapere se avevi intenzione o voglia di aprire la tua collaborazione anche
ad altri. GBC: Sì, sempre e comunque. Tra l'altro, La Gaia Scienza
è nata così. All'epoca c'erano Dessì, Bianchi, Ceccobelli,
verso la metà degli anni Settanta, dopo di che ci sono stati contatti,
incontri, sia in Italia che all'estero, con artisti di provenienze molto diverse,
spesso musicisti, ma anche artisti visivi. Quest'anno, e ora cambio giacca,
la giro e mi metto quella di direttore della Biennale, quest'anno facciamo più
cose con Zeman, su Shakespeare and Shakespeare c'è stata una collaborazione,
altre cose le facciamo insieme. Con il cinema e con le altre arti cerco di viaggiare
sempre su queste zone di confine. CDO: C'è un'altra domanda. X:
Io ho visto Il Graal qui a Roma e volevo farle i complimenti perché mi
ha colpito molto: sentivo i miei cinque sensi appagati completamente. Mi sembrava
di entrare davvero in una fabbrica in cui si producesse qualche cosa, ma che non
avesse nessuna attinenza con quello che poi c'era fuori dalla fabbrica. Nel teatro
si incontra raramente un linguaggio che rispetti la mia interpretazione, il mio
punto di vista o anche la mia intimità. Il teatro come luogo in cui apprezzare
fino in fondo quello che si vede, che si sente, che si prova. Avviene raramente
negli altri tipi di arte, mi riferisco per esempio alla televisione o al mondo
delle immagini. La nostra vita è piena di immagini che ci vengono
imposte, luoghi comuni da cui si è attorniati. Vedere un posto, une fabbrica,
nella quale rivalutare la propria sensibilità credo sia importante e spero
che sia la strada che il teatro come l'arte possa prendere. GBC: Non mi sembra
che ci fosse una domanda, ma ti ringrazio. Posso dire che il fatto che Il Graal
avesse luogo fuori dalla città, che si facesse una certa fatica per arrivarci,
e che poi, arrivati lì, si dovesse comunque seguire un percorso, tutto
questo stabilisce un altro rapporto con quello che si vede. Uscire dai luoghi
deputati a volte fa molto bene all'arte. Lo sa perfettamente il nostro ospite
che organizza cose straordinarie di arte in giro per la città. Questo era
uno degli elementi. E devo dire che nel mio lavoro ho una percezione del teatro
che è fatta anche di materia, di materiali, di immagini: ogni passaggio
per me è come costruire un quadro, un insieme che non è unicamente
dato dal lavoro degli attori ma da tutto quello che c'è sulla scena. Per
cui la scenografia è racconto, la chiamo scenografia perché non
saprei come altro chiamarla, ma in realtà si tratta di altro, e fa parte
del racconto come tutto il resto. Quello che c'è in scena è fondamentale.
Se con quello che si mette sulla scena insieme agli attori si deve solo descrivere
ciò che viene detto dalle parole forse è meglio non metterci niente,
è meglio togliere tutto. Se si mette qualcosa, oggetti, materie, ad esempio
il legno piuttosto che il ferro, significa che si sta raccontando qualcos'altro.
E c'è una grande opportunità in questo qualcos'altro, che si può
raccontare attraverso la scenografia, ovvero attraversoquello che compone insieme
agli attori l'immagine. Anche la parola immagine è un po' consumata: immagine
significa rendere evidente non una cosa che c'è ma una cosa che non c'è.
Icona forse sarebbe il termine giusto. E' dare un'evidenza a un pensiero. L'icona
è il pensiero visibile, per questo quando si popola la scena, quando la
si riempie di cose, si ha una responsabilità enorme, perché ciò
che ne verrà fuori potrebbe essere veramente osceno se non lo si fa bene.
La tendenza all'oscenità dilaga, perché l'oscenità in genere
è determinata dalla inconsapevolezza, cioè dal fatto che le scelte
vengono fatte così, senza pensiero. Forum delle creatività,
organizzato dallassociazione culturale Futuro, a cura di Costantino DOrazio,
Roma, Acquario Romano, 7 aprile 2001 <
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