GIOIA
COSTA INCONTRI OTAR IOSELIANI
Otar Ioseliani ha portato nel cinema la grazia dell'intelligenza.
I suoi film possiedono il dono di raccontare storie con un linguaggio che fonde
surrealtà, ironia e spirito di analisi. Sono commedie nutrite dallo spirito
georgiano, che tratta leggermente ciò che è serio e seriamente ciò
che è leggero, uno stile che ha permesso alla cinematografia di questo
paese di passare attraverso le rigide forbici della censura bolscevica e di creare
un modello di racconto per immagini nel quale le denunce, la testimonianza e la
riflessione sono affidate alla commedia, che ritrova così la sua natura
rivelatrice degli intoppi e degli scarti fra desiderio e realtà, tornando
ad essere quel magico specchio di pulsioni e slanci che animano la vita di ciascuno. Una
bella pubblicazione, Ioseliani secondo Ioseliani, racconta sotto forma di libro-intervista
non solo la storia della cinematografia sovietica e delle sue vicissitudini storico-politiche,
ma fa anche affiorare ritratti rari - da Buster Keaton a Fellini, da Dovcenko
a Barnet, da Koncalovskij a Tati, da Ejsenstejn a Tarkovski -, e ospita una sezione
nella quale Ioseliani, durante un seminario, racconta il suo metodo di lavoro
e la sua idea di cinema. A questo regista condannato a non copiare, a non ripetere
parole d'altri, a non trovare conforto in alcuna ovvietà, lo schermo appare
come un mondo fantastico nel quale la tristezza, la solitudine, la ripetitività
cieca e assordante degli uomini offre uno spicchio di universo per raccontare
favole. E le sue favole danno vita a oggetti e volti, creando piccoli mondi nei
quali vizi, parole e indolenze ritrovano il loro potere di libertà e il
piacere della scelta.
Esiste nel cinema georgiano una vena di umorismo
che riaffiora con diversi caratteri nei film. Il suo è velato di malinconia,
e non tocca mai le cose direttamente, ma lascia affiorare sullo schermo fantasmi,
ombre, oggetti che diventano figure. Da cosa nasce il gusto per questa forma di
racconto?
- Direi dalla mentalità nella quale ho vissuto la mia
giovinezza. In Georgia parlare delle cose serie seriamente è maleducato.
Per questo la commedia e l'ironia sono una antica tradizione, sia nella letteratura
che nel folclore, e sono così vive nel cinema georgiano perché hanno
rappresentato un modo per dire: nell'epoca bolscevica la censura non colse il
lato serio della commedia. Credeva non toccasse l'essenziale, ovvero la propaganda
del modo di vivere sovietico. Quando capì, prese molto male questa leggerezza.
Il metodo è semplice: si tratta di raccontare una storia mettendo in
primo piano piccoli dettagli sui quali attrarre l'attenzione. Lentamente, questi
dettagli diventano i personaggi principali del film. Ad esempio, in I favoriti
della luna, ci sono le antiche porcellane di Sevrès, delle quali si segue
la storia dall'inizio, dalla loro fabbricazione. Poi queste porcellane passano
di mano in mano, si rompono, e diventano testimoni della vita di diverse generazioni
e strati sociali. Con la rivoluzione francese e i tragici eventi che hanno attraversato
l'Europa, la porcellana si ritrova in case di persone cui non era stata destinata.
Abbiamo osservato l'intera catena di coloro che hanno toccato quella porcellana.
Gli oggetti passano da un personaggio all'altro, e questi non si conoscono
fra loro, ma servono lo stesso circolo di avvenimenti. Così si crea una
rete, una filiazione degli oggetti attorno ai quali si scoprono gli avvenimenti
sociali, ma anche politici: ci sono i poveri, gli artistocratici, le prostitute,
i vagabondi, i nuovi ricchi, e ci si può divertire a fare il ritratto di
una società. Un ritratto non così realista, eppure nel suo fondo
realista.
Lei ha più volte manifestato la sua diffidenza verso i
metodi, pur riconoscendo che la lingua, ad esempio, sia creatrice di un metodo.
Da cosa nasce la sua diffidenza, dalla stessa matrice per la quale la sola idea
di fare "grande cinema" è per lei irritante?
- Il cinema
si occupa della vita delle persone, e lo fa usando il metodo della drammaturgia
tradizionale, che costruisce storie a ostacoli raccontando il desiderio insoddisfatto
e l'accanimento delle persone che vogliono realizzare ad ogni costo il loro scopo.
Anche la storia di Amleto, che voleva scoprire la verità sulla scomparsa
del suo amato padre, si fonda su un desiderio che incontra ostacoli. Questo metodo
è radicato nel nostro cinema di oggi. Chi per primo lo ha distrutto? Non
bisogna cercare molto lontano. Forse è stato Barnet, nel suo film Ocraina,
e subito dopo i grandi rappresentanti del cinema neorealista italiano, poi Jacques
Tati in Francia, che desidera nulla ma che è immerso nel mondo dei desideranti.
Se ci avviciniamo al cinema italiano più recente, Federico Fellini
ha alzato il velo sulla stupidità e la vanità di questo mondo. L'unico
a desiderare qualcosa in Amarcord è il vecchio pazzo arrampicato sull'albero,
che grida "Odio la donna". Rispetto molto anche Nanni Moretti, perché
scivola accanto alla drammaturgia tradizionale. Ma l'autore più caro
al mio cuore è Buster Keaton, perché mi spinge a credere che il
cinema possieda un linguaggio completamente libero, che non soggiace al metodo
drammaturgico tradizionale. Invece tutto ciò che è melodramma,
ovvero i cosiddetti classici del cinema, per me è un po' triste osservarli:
Via col vento è considerato un grande esempio di cinema classico; non sono
davvero incantato dall'uso della metodologia drammaturgica, dalla sua costruzione.
È un peccato che le persone abbiano iniziato a far questo.
A proposito
del suo cinema si è parlato di "etica del paradosso". È
d'accordo con questa definizione?
- Esiste un'etica alla quale aderisco,
perché nei miei film non mi permetto mai di tagliare alberi, o di uccidere
animali, o mettere gli attori in relazioni sgradevoli. Non posso tagliare i capelli
di una signora per la macchina da presa e non posso uccidere un pollo per filmarlo.
Al tempo stesso detesto far piangere le persone, o vederle prendersi a pugni davvero.
Nei miei film le persone non si baciano nemmeno. È per far capire che faranno
l'amore? Trovo assolutamente scorretto mostrare questo sullo schermo e divertire
così la curiosità dei piccoli borghesi che adorano guardare dal
buco della serratura. Questo per quanto riguarda l'etica, mentre del paradosso
adoro parlarne. Stranamente tutti gli avvenimenti nascondono dietro di loro un
altro senso. Il Generale della Rovere è un esempio dell'uso del paradosso
al cinema assolutamente mirabile. È fondato sul paradosso stesso, che diventa
la grande verità: il gioco di nascondino apre in lui un lato che non conosceva
e che è un vero contenuto.
Viviamo un'epoca sopraffatta dall'idea
di comunicazione. Pensa che il cinema possa o debba comunicare?
- La parola
è nata dopo l'invenzione del telegrafo, della radio e del telefono. Prima
esistevano invece i rapporti e le relazioni, che erano vivibili. Nella parola
comunicazione c'è sempre un rumore, che dipende dai mille ostacoli elettronici.
Se invece serve ad avvisare che il nemico si avvicina accendendo un fuoco, o a
stabilire un contatto fra marinai nel mare con il linguaggio morse delle bandiere,
questo modo è piuttosto entrare in relazione. Comunque, quando si vuole
comunicare una idea a qualcuno bisogna esser certi di farsi capire, e questo dipende
dal livello di padronanza del linguaggio; sappiamo che sotto gli stessi segni
(parole o immagini) le persone possono riconoscere cose diverse e anche opposte.
Si parla molto di comunicazione senza saper trasmettere. Chi emette il messaggio
e chi lo riceve devono possedere lo stesso linguaggio, altrimenti non possono
capirsi. Nel migliore dei casi, il cinema può toccare il cuore di una
persona, e trasmettere a qualcuno il modo di pensare dell'altro, che in questa
relazione è l'autore. Se succede vuol dire che il cineasta invia un messaggio
a uno spettatore amico, anche se sa che si rivolge a pochi. Tanto meglio, sono
pochi coloro con i quali si può entrare in relazione. Un simile atto cinematografico,
quanto l'atto di lettura di un testo, rende felice colui al quale il messaggio
era destinato perché può dirsi: "Pensavo la stessa cosa".
Allora non è più solo.
Dopo Acquarello il suo interesse
per il principio formale del cinema che direzione ha preso?
È stato
il mio primo, piccolo film. Ho capito che si può comunicare una sola cosa:
che niente è grave, che tutto è perdonabile, tranne atti pesanti
da ricevere. Ma la cosa più divertente è che gli uomini nella struttura
dei loro atti sono sempre come due cavalieri che incrociano le spade in gesta
onorifiche. Un cinema che non fa male, che non dà una lezione di distruzione
e di aggressività, questo è il principio che ho scelto dall'inizio.
Invece è sempre più sanguinoso, aggressivo e raffinato nella descrizione
dei metodi di violenza verosimile, fino a è diventare una scuola nella
quale gli spettatori che non sanno come reagire a tale o talaltro atto lo imparano
al cinema. Arancia meccanica è stato una lezione per coloro che hanno rifatto
la stessa cosa a Lione. Lo hanno imparato lì, anche se il fine di Kubrick
non erano certo di fare la propaganda di quel metodo. I film che si soffermano
sulla superficie degli avvenimenti e che non cercano di mostrare il lato violento
e aggressivo dell'essere umano, che anzi mettono in sordina l'esistenza della
violenza nel mondo, mi incantano. Da qui nasce il mio enorme rispetto per La nave
va o il triste film Ginger e Fred o La messa è finita.
In Addio
terraferma arriva sul set la bella Lili con il suo marabù, i volti accesi
dal riso, il caos della compagnia della Baraque. Come è nata l'idea di
lavorare con loro?
- È semplice: io avevo il personaggio di un filosofo,
diciamo. Un filosofo che osservava la follia attorno a lui, gli andirivieni di
maman, la sciocchezza del vecchio padre, le avventure dei ragazzi, i piccoli amori,
l'ubriachezza; e quando ho visto il marabù mi sono detto che era meglio
dividere il personaggio in due e darne una parte a questo uccello che osserva.
È testimone, ed è visibilmente molto intelligente e pensatore. L'altra
metà la ho data a un clochard, che sa solo cantare e bere; una specie di
Diogene. L'uccello era accompagnato da un'affascinante signora che si chiama Lilì
e quindi li ho presi tutti e due. (Ride). Ecco tutto. Bisogna sempre vivere
e guardare, e la vita offre a volte dei regali: incontri, personaggi, caratteri
interessanti.
In I lunedì mattina c'è l'immagine dell'uomo
sempre in viaggio. Da cosa è nata l'idea della traversata eterna?
-
I viaggiatori sono i personaggi più pazzi della terra, a partire da Marco
Polo, che non sappiamo nemmeno se arrivò veramente in Cina o se la inventò
nelle sue memorie, ma tornò con il bagaglio dei suoi ricordi, e stranamente
fu poi condannato a non muoversi più. Succede a tutti i viaggiatori, tornando
vivono una profonda disillusione. È successo anche a Cristoforo Colombo:
lui era andato davvero lontano, eppure il suo viaggio finì molto male per
coloro cui rese visita. Si concluse con la distruzione di nazioni, con il saccheggio
dei beni, il banditismo, i conquistadores spagnoli. Capitain Cook, che ha traversato
il mare in ogni direzione, è tornato deluso. Swift, nei viaggi di Gulliver,
racconta la bizzarria del mondo con la quale dimostra che, si tratti di giganti
o di lillipuziani, somigliano tutti alla società dell'Inghilterra di oggi.
Mettere in viaggio il personaggio significa permettergli di sbattere la porta
e di andare lontano. Si suppone che incontrerà qualcosa di straordinario.
Ma, poiché questa terra è uguale ovunque, non scopre nulla di diverso.
E quando torna a casa forse è più saggio e più calmo. Bisogna
trovare il senso dove si è e non altrove. Ecco è il canovaccio del
film.
Quando si diventa maestri si ha non solo uno sguardo sull'arte ma
anche della concezione etica che si trasmette. Crede che il cinema possa essere
considerato ancora un atto di resistenza?
- Parliamo prima della parola
"maestro". Anche questa è una antica tradizione. Dei muratori,
dei falegnami, degli allievi dei grandi pittori. Dovevano dimostrare di esser
diventati maturi creando un "capolavoro", qualcosa che non doveva assomigliare
in nulla a ciò che era stato già fatto, non doveva essere una copia.
Allora gli specialisti riconoscevano nel novizio un loro pari. Maestri si
diventa possedendo il segreto di un mestiere e avendo una marcia in più.
Ecco, è questa la definizione, seguendo l'accezione degli artigiani. È
qualcuno che aggiunge qualcosa a ciò che è stato fatto prima di
lui nel suo mestiere. Il desiderio di diventare maestro è ancorato nell'anima
dell'essere umano, di questo sono sicuro. La resistenza è il film personale,
quello fatto da qualcuno che vuole dimostrare qualcosa ai suoi colleghi, che passa
un esame per diventare maestro nel suo mestiere. Ma nel caso del cinema questo
artigiano deve avere due palle in testa e un piccolo sacchetto di idee in tasca.
È una forma di resistenza alla stupidità della cultura di massa,
sulla quale riposa la creazione della grande macchina che produce quel "grande"
cinema.
Briganti era un film sul potere altrui. Assistiamo a una pericolosa
rinascita della violenza e dell'idea di potere, che non più taciuta perché
le regioni coinvolte sono economicamente interessanti. Come giudica la situazione
internazionale in questo periodo storico?
- Penso che non ci saranno vincitori,
in questa situazione. Coloro che sono infiammati da false idee oggi, siano essi
da una parte o dall'altra, invecchieranno, e perderanno l'interesse. Capiranno
la vanità dei loro sforzi, e lasceranno questa terra senza aver fatto nulla
né aver creato nulla. In Briganti volevo dimostrare che è sempre
stato così, non c'è niente di nuovo. Calmatevi, e pensate che è
nella natura delle cose di arrivare tardi al rimpianto, quando tutto è
finito. Il cinema non può cambiarlo questo mondo, non è il suo
fine. Può però trovare un'eco nel cuore di un altro spettatore che
capisce e pensa la stessa cosa. Quello che accade nel mondo dall'epoca dei
conquistadores e degli autodafé in Spagna, dalle atrocità fasciste
o naziste, dai gulag in Russia, poi finisce. Lascia tracce, e dolore, evidentemente,
ma se si vive abbastanza a lungo si vede che non abbiamo mai creato qualcosa che
duri, sulla terra. E l'ambizione di qualsiasi impero, sia esso romano o cinese
o atzeco o d'Egitto, è sempre stata quella di creare qualcosa di durevole.
Ma è solo vanità: la terra continua a girare nello stesso modo,
e la quantità di dolore non diminuisce sulla sua superficie.
Crede
che quest'ombra che cala sulla cultura Occidentale, impigrita dal benessere e
dal desiderio a portata di mano, possa restituire all'arte urgenza, desiderio
di compimento e ridarle una forza che sembra non avere più?
- Sì
e no. Il cinema - se lo si considera come una delle forme d'arte - non deve basarsi
su fatti di cronaca. Ad esempio Roma alle 11 nasceva da un fatto di cronaca tratto
da un articolo di giornale, ma De Santis ha tentato di estrapolarlo e di farne
un modello generale. Certo, il cinema può nutrirsene, ma se non c'è
l'estrapolazione che fa durare il modello creato dal cineasta allora diventa mortale,
e molto rapidamente scompare. Senza una conclusione metafisica il cinema non può
esistere. Pensi alla storia di Socrate: perché lo hanno condannato
a morte, gli ateniesi? Certo non per il suo piccolo delitto. Eppure è rimasto
nella storia come un fatto istruttivo. E Ulisse, perché non poteva traversare
quel piccolo mare e tornare ad Itaca? Dio solo lo sa, ma è bellissimo,
ciò che gli è successo. La tristezza per Ulisse inizia quando è
costretto a istallarsi definitivamente nel suo piccolo regno di Itaca vedendo
solo Penelope e Telemaco e nient'altro. Lì inizia il tema di Lunedì
mattina, se vuole. Ma Omero, che era un grande poeta, interrompe in quel momento
il suo racconto. Perché il resto non lo interessa, quello è un altro
destino: è entrare nel circolo di idee che ci circonda.
Romaeuropamese,
giugno 2003
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