GIOIA
COSTA INCONTRI PETER SELLARS
Regista
di cinema, teatro, opera e televisione, Peter Sellars ha un modo originale di
fondere la tradizione Occidentale con quella Orientale. Ha studiato ad Harvard,
in Cina, in Giappone e in India. A ventisei anni ha diretto la compagnia American
National Theatre di Washington, ha recitato nel King Lear di Godard, dall'88 al
'96 ha diretto il Festival di Los Angeles. Nel frattempo ha fatto più di
cento regie, ed ha solo 43 anni. Insegna Arti e Culture del Mondo alla UCLA e,
da quest'anno, dirige l'Adelaide Festival of the Arts in Australia. Torna al Romaeuropa
Festival, dove è già stato invitato con Peony Pavillion e con The
Story of a Soldier, per presentare le Bach Cantatas. Ma la guerra oscura l'arte,
e la cantante Lorraine Hunt Lieberson non ha voluto lasciare New York. Con Monique
Veaute, Sellars ha creato un nuovo evento, il 25 e 27 ottobre al teatro Argentina:
Due concerti tra Oriente e Occidente: un modo per celebrare il dialogo fra due
culture che si stanno allontanando con una velocità allarmante. Lo abbiamo
incontrato a Roma per parlare di questo appuntamento. - La sua curiosità
per gli incontri fra culture lontane la ha portata a esplorare forme diverse.
Perché ha scelto Bach, che sarà eseguito anche nel nuovo concerto?
- Ho passeggiato tutto il giorno, e il barocco è morbido come il corpo
umano, come le strade di Roma, mentre l'America è dritta, alta, razionale.
Le architetture decidono l'anima di chi abita le città. Ecco il primo incontro.
Bach è più antico: con un gruppo di musicisti a Boston ho lavorato
dieci anni in una chiesa nella quale, ogni domenica, si suonavano le cantate di
Bach. Sono duecento, e pochi le conoscono. È lui il grande maestro, e la
sua musica aiuta a capire la vita. Ogni cantata ha un tema, non è mai un
intrattenimento. Purtroppo Lorraine Hunt Lieberson non se la è sentita
di venire: la paura bisogna vincerla ma, quando c'è, va rispettata. Bach
è sopravvissuto per secoli, resisterà anche a questo. Invece, i
due concerti di giovedì voglio siano un appuntamento spirituale. -
Perché ha unito Bach nella direzione di Rinaldo Alessandrini alla musica
sufi della cantante uzbeka Monâjât Yulchieva? - Monâjât
è una delle grandi interpreti del mondo, e la musica sufi è basata
su una disciplina che parte dall'interno: noi occidentali siamo abituati a qualità
esterne, e lavoriamo sulle tecniche, mentre nella loro tradizione il suono nasce
dalla concentrazione, dall'apprendimento del respiro, dalla disciplina del fiato
che insegna l'estasi. Nella musica sufi la voce si innalza in volute come fa Borromini.
In questo, somiglia a Bach: il loro senso della calligrafia vocale tocca le forme
più alte della rappresentazione spirituale. Ciò che si vede nell'architettura,
nella scrittura e nella musica islamica, esiste anche nel barocco europeo. Questi
due concerti uniscono Oriente e Occidente per ricreare un dialogo che si è
interrotto solo negli ultimi cinque secoli, che storicamente non sono molti.
- Lei propone un incontro fra culture lontane in un periodo di ibridazioni fra
arti diverse: cosa pensa della contaminazione di generi e stili? - In Cina
un poeta è anche pittore, in India un musicista è anche ballerino,
fa parte della loro tradizione. Anche in Grecia tutto era suono e danza e poesia
e musica. Abitiamo lo stesso pianeta, e dobbiamo imparare a condividerlo. Come
fare?, è questa la domanda. Anche nell'arte, dobbiamo trovare il punto
di incontro. Non ci sono più confini economici, politici, linguistici:
eppure, la vicinanza ha generato insicurezza. Se solo ci perdiamo di vista ci
sentiamo storicamente soli. Il capitalismo si sposta come il mercato, con facilità,
ma i singoli sono paralizzati dalla paura, pensi a Lorraine a New York. Il compito
dell'arte è aprire le frontiere. - Secondo lei, cosa può dare
l'Occidente all'Oriente in questo momento, e cosa può prenderne? -
Molto, come ha sempre fatto. Ma gli incontri dipendono dal grado di intimità,
nella vita e nell'arte: la non conoscenza impone gentilezza e uno scambio formale.
Più ci si avvicina più lo scambio si libera e si approfondisce,
fino a toccare quel punto magico nel quale ciò che si ha e ciò che
si dà diventano la stessa cosa. Bisogna vincere la sfiducia, che è
profondissima. Serve pazienza, e lo sguardo rivolto lontano. Un po' di lungimiranza.
- Qual è il ruolo dell'arte in questo momento storico? - È successa
una cosa importante, nella creazione: non esiste più la firma sotto l'opera,
il capolavoro come idea. Quei tempi sono finiti. Ogni opera è un corpo
al lavoro, e nulla si può separare, nulla si conclude. L'arte indica, aiuta
a scegliere, a vedere, ma è il signolo che decide. L'arte fa capire dove
si arriva prendendo una direzione, offre una visione. È importante e delicato,
il suo ruolo. - Secondo lei l'artista deve offrire una visione, ma oggi questa
parola è ambigua: intende una visione del mondo o uno squarcio? - Ciò
che manca nel mondo e nella politica è l'Utopia. Inibiamo ogni slancio
sotto uno scetticismo che offusca tutto. Basta cambiare livello per ritrovare
la voglia di fare. Il cinismo è delle società ricche, quelle povere
lo ignorano. Compito dell'arte è dare ideali, ispirazione: questa è
la visione. Siamo circondati da miracoli e non li riconosciamo, vediamo solo coincidenze.
Mandela dopo ventisei anni di prigione è diventato il presidente del Sud
Africa: l'arte deve ricordare alle persone che accadono cose straordinarie, come
quella che è successa a Mandela. - Lei frequenta il cinema, la televisione,
la musica, il teatro. Quali sono le loro diverse specificità? - Ogni
forma ha le sue leggi: io arrivo sempre da un'altra esperienza e posso chiedere
cose che altri non potrebbero. Conosco le leggi del cinema, ma non le possiedo.
Quindi sono libero, è un felice paradosso. Posso chiedere alla musica di
pensare con la mente del cinema. Ma il mio grande amore è il teatro, perché
è una combinazione di musica, gesto, pittura. È la forma più
sintetica che esista, e questo lo rende infinito. Come gli uomini: si formano
con gli incontri, con il tempo che dedicano alle cose. Per questo è importante
scegliere chi ci accompagna e ci forma: bisogna andare verso l'alto, come Borromini.
25
ottobre 2001 <
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