GIOIA
COSTA INCONTRI MARGARETHE VON TROTTA
Margarethe
von Trotta ha trasformato il suo talento in gesto critico. Fin dalle prime esperienze
come attrice, di teatro inizialmente e di cinema poi, ma ancor di più quando
è passata dietro la macchina da presa, ha raccontato storie difficili.
Considerata regista "di sinistra" e persino filoterrorista all'epoca
di Anni di piombo, è una voce forte che si leva nel disimpegno che ha caratterizzato
gli ultimi decenni della storia europea. Lo testimoniano i film successivi, Lucida
follia, Rosa Luxemburg, Il lungo silenzio, La promessa, titoli che hanno segnato
il cinema. Dal suo incontro con il regista Volker Schlöndorff sono nati molti
film, ed è in quel periodo che Margarethe von Trotta ha iniziato a scrivere
sceneggiature, scoprendo la sua capacità di racconto. Il loro sodalizio
artistico li legò anche nella vita privata, e firmarono una regia insieme,
L'onore perduto di Catharina Blum. Colpo di grazia è una delle migliori
prove della loro collaborazione, Schlöndorff come regista e Margarethe von
Trotta come attrice e sceneggiatrice. Fra i film realizzati insieme, Fuoco di
paglia (1972) e Baal, adattamento del primo testo di Brecht nel quale lei recitava
insieme a Fassbinder. Dall'incontro con Rainer Werner Fassbinder sono nati
film come Gli dei della peste (1969), Il soldato americano (1970), Attenzione
alla puttana santa (1970).
Com'era lavorare con Fassbinder?
- Riusciva
a far sentire tutti eccezionali, ma al tempo stesso angosciati e sotto controllo,
non liberi di esprimersi. Spesso trattava gli altri in modo offensivo e mi infastidiva,
benché non lo facesse con me: se qualcuno mi manca di rispetto me ne vado,
anche se muoio di fame e ho bisogno di lavorare. Comunque, lui era più
disperato e più vulnerabile degli altri, e questo me lo ha fatto amare
molto, suscitando in me un lato protettivo. È stato un rapporto complesso,
nel quale mi sono sentita a volte materna e a volte sua allieva. Ha iniziato a
far cinema prima di me, ma al tempo stesso era più giovane. Mi ha insegnato
molto. Ciò nonostante, non me la sentii di entrare nella sua comunità,
l'Antiteater. Ero troppo individualista per far gruppo. O forse sapevo che non
era quella, la mia strada".
Il suo terzo film, Anni di Piombo, conferma
il dubbio di allora. È stato accolto come il caso più interessante
e difficile del nuovo cinema tedesco. Aveva deciso di raccontare la storia di
Marianne (Christa Klages), e la aveva eletta a emblema di un fenomeno che aveva
colpito la Germania e l'Italia. Di cosa era emblema, nella sua visione?
-
Posso rispondere adesso, dopo aver girato Rosa Luxemburg, La promessa, Il lungo
silenzio. Parlo sempre della storia, soprattutto della Germania. Non mi interrogavo
solo sul terrorismo, anche se allora nessuno ne parlava ed è stato il primo
film che ha osato affrontarlo senza giudicare, senza prendere posizione. Mi chiedevo
piuttosto da dove venisse quella violenza, non solo di spirito e di pensieri ma
anche di atti. La prima generazione del terrorismo era composta da Ulrike Meinhof,
Gudrun Ensslin, Ian-Carl Raspe, Andreas Baader, Holger Meins e pochi altri. Era
sorprendente che, a parte Baader, tutti avevano studiato, e avevano un retroterra
culturale alto. Ulrike Meinhof veniva da una famiglia protestante, era cresciuta
con una zia radicale nel suo moralismo, anche se aperta. Anche Christiane Ensslin
veniva da una famiglia di pastori protestanti. Uno di loro voleva addirittura
prendere i voti, in gioventù. Quindi, almeno tre componenti della prima
generazione avevano una concezione morale forte. Cercavo di capire l'origine della
loro violenza, che per me risiede nel nostro passato, il nazismo, del quale fino
al '68 non si parlava mai, in Germania.
Di quella violenza cosa voleva
mostrare?
- Il titolo del film, Anni di piombo, non era legato all'immagine
italiana del piombo nelle pistole; era la citazione di un verso di Hölderlin,
che si riferiva a un'epoca di piombo. Lo erano anche gli anni '50, quando esisteva
solo il miracolo economico, e tutti lavoravano come pazzi per dimenticare e cancellare.
Alexander e Margarete Mitscherlich scrissero un bel libro sull'incapacità
del lutto, l'incapacità di affrontare la colpa del nostro popolo. Ma coloro
che erano nati durante la guerra, o dopo, sapevano che esisteva una colpa taciuta,
e avevano -come Christiane- un codice morale forte: volevano parlarne, ma la società
non lo permetteva e al tempo stesso si susseguivano eventi come il Vietnam o l'affermazione
del capitalismo, che rendevano lo schermo di copertura sempre più grande.
E qual era l'origine della violenza di quegli anni?
- Le radici
della loro azione sono il nostro passato. In Germania non c'è stata resistenza:
molti ebrei tedeschi avevano lasciato la Germania, e la maggior parte di quelli
assassinati erano russi o polacchi. I dissidenti o sono andati via subito, nel
'33, o sono finiti nei campi o sono morti. La resistenza era impossibile. Quella
dei militari iniziò solo nel '44 - penso al famoso attentato di Claus Schenk
Graf von Stauffenberg contro Hitler che fallì -, quando la catastrofe era
alle porte. In Italia, invece, molti hanno finto di aver preso parte alla resistenza,
dopo. Era un altro modo di rimuovere. Il terrorismo nasceva da questo ritorno
del passato nel presente, con il Vietnam ad esempio, che ha spinto a una ribellione
totale e poi anche all'uso delle armi. Ma è una strada di morte e di distruzione
e questo lato oscuro della nostra cultura è molto tedesco. Nella prima
guerra mondiale c'è stata una forma di lode della morte: accettare la morte
per una causa era un tratto molto germanico.
Dopo Anni di piombo il film
che la ha fatta conoscere al pubblico italiano, lei è stata considerata
una regista impegnata. Si riconosce in questa definizione?
- C'è
un libro, uscito in Italia, cui debbo molto per aver ricollocato il mio cinema
in una dimensione più complessa. È L'identità divisa di Ester
Carla de Miro, che ha analizzato altri aspetti del mio cinema soffermandosi su
lati più interiori e meno di facciata. Credo che il cinema sia un atto
di resistenza, ma non di cambiamento. Resistenza contro la disperazione. Forse
può far cambiare un individuo, ma non una società. Una volta un
tassista mi ha fatto scendere dalla sua macchina perché ha detto che sua
moglie, dopo aver visto Lucida follia, aveva divorziato da lui. Forse è
questo, l'unico cambiamento che si può provocare! Quando si è
giovani, a venti o trenta anni, si vuol plasmare l'altro, e poi crescendo si scopre
che è impossibile. Si diventa sempre più se stessi. In alcuni momenti
il cinema ha avuto un ruolo. Penso al neorealismo, che è caduto in un momento
storico nel quale più forze esplodevano, e anche il cinema diventò
un'energia che seguiva le altre. Ma questo è un regalo della storia, non
lo si può chiedere. Succede, ed è un momento glorioso, uno stato
di grazia.
Eppure, lei non ha mai cambiato il suo sguardo sulla realtà...
-
Non è un mio merito, sono fatta così. Forse perché sono vissuta
in un certo momento storico, in un dato paese, e ho avuto genitori che mi hanno
aiutata a guardare il mondo con i miei occhi, senza influenzarmi troppo. Un insieme
di eredità, epoca storica, vicenda personale. Se fossi nata sotto il fascismo
forse questa attenzione sarebbe rimasta in me, e non avrei potuto esprimerla.
Invece ho potuto farlo. E in Italia cosa succede? La libertà di espressione
è a dura prova e non so se si possa ancora parlare di libertà di
espressione, adesso.
Il doppio ruolo di attrice e regista in che modo
ha influenzato il suo sguardo?
- Innanzitutto so cosa un attore desidera
da un regista: vuole essere guardato, amato, vuole avere un suo spazio e sentire
di essere importante per il film. Bergman ha sempre detto che dobbiamo amarli
moltissimo, gli attori, perché sono loro che si mettono a nudo e non il
regista che resta dietro, nascosto. Io mi sento un po' la sua erede, e cerco di
guardare all'interno, di far emergere le contraddizioni di un essere umano. Questo
mi interessa, nel cinema: mostrare la pena di non sentirsi uno, ma doppio o triplo,
tanto che non si sa come mettere insieme i propri pezzi.
Per questo il
suo è sempre stato un cinema di coppie: coppie di donne, storie speculari,
ambivalenze...
- Sì. Lo faceva anche Hitchcock: metteva a confronto
un personaggio cattivo e uno buono, ma il pubblico si riconosce in entrambi. Sono
l'uno dentro l'altro, due aspetti che convivono, è il segreto del suo cinema.
D'altronde, non si può raccontare una storia senza raccontare un po' se
stessi. Almeno, io non posso; forse perché scrivo quasi sempre le mie sceneggiature,
e scrivendo non si può restare fuori: se si è vivi, si deposita
una parte di sé, volenti o nolenti.
Lei ha detto che il vero partner
dell'attore è la macchina da presa, che è come un amante da sedurre.
Lo pensa ancora?
- Un'attrice di Bergman mi raccontava che loro amavano
avere la macchina vicina, considerarla come uno specchio. Non è narcisismo
o vanità, è un dialogo con ciò che si cerca di tirar fuori.
Si deve sedurre l'altro, che è se stessi ma anche l'altro dietro la macchina...
Quando feci il primo film con Jutta Lampe, che veniva dal teatro e non aveva mai
recitato per il cinema, lei mi diceva: "Questo mostro nero, non lo avvicinare".
E, nelle prime tre settimane, dovevo riprenderla da lontano, per lei la macchina
da presa era una minaccia.
Nei suoi film tornano spesso gli stessi attori.
Qual è il motivo?
- Nei casi fortunati si può lavorare scoprendo
entrambi qualcosa di nuovo, e allora è una avventura. E cosa si cerca,
se non qualcosa che non si conosce ancora? Bisogna non aver paura del timore,
seguire l'insicurezza, il dubbio, cercare. Certo, lavorando insieme la fiducia
aumenta, con il tempo. Spingo gli attori, ma quando per loro diventa penoso li
proteggo. Cerco di non lasciarli mai soli.
Qual è per lei lo specifico
del cinema, in contrapposizione al teatro?
- Il cinema può entrare
nelle persone. Come regista posso fare dei movimenti sugli attori, invece di aspettarli
da loro. In teatro, ma è una difficoltà che ho avuto anche con l'opera
lirica, si vede sempre tutto. Mi interessa costruire il percorso dello sguardo
dello spettatore, e con la macchina da presa si eliminano alcuni campi per rafforzarne
altri. In teatro invece tutto è esposto, e si può guardare altrove
dall'azione. Posso dire che per me il cinema è lo specchio dell'anima.
Può parlarci del suo prossimo film?
- Ho appena finito Rosenstrasse,
che spero venga distribuito anche in Italia, e adesso ho iniziato un nuovo film
con Barbara Sukowa che ritrovo con grande piacere dopo tanti anni.
Ha detto
di aver amato il cinema italiano neorealista, ed ha vissuto a lungo a Roma. Qual
è il suo rapporto con l'Italia e con il suo cinema?
- Manco dall'Italia
dal 1994, e da allora vedo il cinema italiano soprattutto nelle cassette che mi
manda l'European Film Academy per scegliere e premiare alcuni artisti. Non è
abbastanza per avere una visione seria del nuovo cinema: arrivano solo alcuni
film e lo spettro è incompleto.
Posso dire invece che ci sono due
parti in me, una nordica e una legata al sud. La parte nordica, che mi unisce
a Bergman, è scura, con i cieli plumbei, i grigi, i grandi spazi e tanta
notte. Ma ho bisogno del sud, che non è quella terra gaia, solare e caotica
che il cliché dipinge; il sud è anch'esso spezzato, e possiede un
senso di morte e una frequentazione del tragico molto profonda. La tragedia greca
viene dal sud, e saper dire è già un modo di superare il tragico.
Al nord non si parla, è una capacità che manca. La mia affinità
e affettuosità verso l'Italia è sempre la stessa e ogni volta che
torno a Roma mi dico che questa è proprio la mia città, e vorrei
tornare a vivere lì.
Romaeuropamese,
maggio 2003 <
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