GIOIA
COSTA VALERE NOVARINA LETTERA SULL'ATTORE
Lettera
a Gioia Costa
7 dicembre 1991 Cara Gioia, Il teatro di parole non sarà tradotto,
ma con lei andrà da una lingua allaltra: lei sa quanto mi commuova
leggere oggi questi testi in quella che avrebbe potuto essere la mia lingua natale.
Il francese e litaliano sono dello stesso seme e come due alberi gemelli:
essere di nuovo insieme, e attraversarsi la strada, per loro avviene sempre nella
gioia. Due figli del vecchio latino che si ritrovano con emozione dopo aver viaggiato,
nella felicità della differenza fraterna. Esercizi di orientamento,
prove di scrittura, lettere a sé stessi, dialoghi di traversata, rifugi
per perdersi, diario di un viaggio lontano dal teatro a forza di scavare al centro,
gioia di precipitarvi, salto nel vuoto, ruminazioni comiche, cantiere, riapertura
perpetua: queste centosettantatre pagine di autoscopie e di invettive, di catene
di litanie rimasticate centosette volte al giorno, io le dedico a colui che deve
sempre ripetere la sua entrata come una nascita disperante, a colui che cambia
corpo novantasette volte, allattore, allattore , lui che viaggia nelle
vie interiori, al portatore di parole, orante e carnivoro. Deve farci ascoltare
la catastrofe ritmica. Avanzando contro la sua ombra, separandosi per parlare,
egli sa che la parola è il crocevia del corpo, il suo viaggio, la sua traversata.
E che vè azione ad ogni parola. Niente di umano in lui. E un
uomo che cammina sulla scena per mostrare che non c'è uomini lassù.
Viene a dirci che la parola non è dentro di noi, ma siamo noi, gli uomini,
ad essere nel teatro che pronunciamo. Non cè scena per noi: perché
noi siamo il teatro di tutto. Il teatro non è un luogo dove ci rappresentiamo,
ma un luogo dove passiamo e che trangugiamo. Dove mangiamo a vista il tempo parlando.
Lattore viene a mostrare questa respirazione udibile. Esce didentità:
non rappresenta nessuno, salvo il nostro dramma respiratorio, il cortocircuito
dellaria dentro di noi, la parola che risale, masticata e rimemorata e che
avanza contro il tempo, che disfa la nostra azione. Lattore non è
un porta-parola, né strumento di nulla, né attrezzo di qualcuno.
Non raffigura. E un parlante che tiene nella sua bocca lo spazio dal vero,
tutto il teatro tra i denti. Spalanca la lingua nel vuoto, avanza in noi per aprire
una volta di più e più a fondo il dramma di parlare. Agisce assente
e in parole: lavorato dalla parola e librato di fronte a noi come una bestia che
la parola lavora. Lazione dellattore è disagita, dun
istante e ad un tratto. E un atto a sorpresa nel quale qualcosa viene tolto
da qui, un mistero di sorgività che scompare. Qui il teatro non rappresenta
alcun altro mondo né il medesimo, ma mette in gioco dinanzi a noi la presenza
del mondo che accade un'unica volta. Lattore, nella sua discesa interiore,
trasale e abbandona la propria ombra. E disincarnato, a forza dessere
in un corpo, e risale le parole ogni volta più lontano. Torna a dire che
il teatro dove è appena caduto è il luogo della sua uscita da qui.
Niente è più bello di ciò che nasce dalla sua caduta: il
comico cristallino. Niente più santo del riso, che è la nostra apertura
e il nostro sì al mondo luminosamente incomprensibile. La materia è
morta? Il reale è parlato? Come accade che parliamo? Come fa la carne
ad esprimersi?. A teatro, queste domande si pongono agli occhi. Nel mistero
della divisione delle parole. La scena è questo cammino di contraddizioni,
questo luogo dove interrogare comicamente la nostra carne, il nostro mistero di
carne verbale. Si vede a teatro - non lo si vede che a teatro - che cè
qualcosa di comico e una risata nello spazio. In verità, il teatro non
appare che agli attori. Questa scena invisibile dobbiamo comprenderla con gli
occhi. Non cè niente da vedere a teatro, tranne uno squarcio aperto,
una fuga verso il mai còlto. Il mondo non va preso. Il mondo non era una
presa per noi. Non cè presa per quelli che non sono di qui. Scambio
respiratorio con lattore: gli sono vicino, gli sono lontano, gli sono separato,
respiro con lui. Il teatro deve essere dato a uno solo. Cè un legame
damore profondo fra lattore e chi gli è di fronte; il pubblico
non è una mandria, una massa riunita, un gruppo sociale, ma un coro di
soggetti. Con ognuno di loro lattore va più a fondo: nellunione
di tutti e allinterno di ciascuno. A due. Noi non siamo che il dramma della
parola nello spazio crocifisso. Nello spazio che la nostra respirazione mette
in croce, nomina e libera. Lattore va, con noi, fino in fondo, fino
a quello che in noi è più intimo, e che non ci appartiene. Ci dà
ciò che non ha. Il teatro è santo per il sacrificio dellattore
e il riso dessere staccato da sé. Lattore è come un
morto che si separa del corpo per un istante. Ci parla per farci ascoltare il
silenzio. Procede, e lascia lo spazio davanti a sé; lega, unisce, agisce
per assenza, si ricorda di parlare, pronuncia il teatro, come ogni parola pronuncia
il mondo. Lontano e disumano, è nonostante questo una stella vicina:
una luce ascoltata. A teatro si vede che la luce non illumina, la luce ci vede.
La avvertiamo una volta passata: illumina tutto invisibilmente, nel nostro ascolto
e nella nostra comprensione. Niente è più nudo del teatro, niente
è più spoglio, niente più lacerato da sé, niente più
attaccato a sé. Ho sempre cercato una brutalità e un vigore più
nudi della scena, una infanzia ancora più grande. Lattore, filosofo
e ballerino, recita davanti a noi la sua morte mimata e attraversata. Solo il
teatro è vero. Chiedo al teatro uno sfinimento. Chiedo tutto al teatro:
gli chiedo una visione, uno svelamento. Il teatro lacera. Cè qualcosa
di comico e terribile che solo il teatro può dire. I nostri pensieri dicono
di non avere che la nostra carne per parlare. Le scrivo da Marsiglia, dove
abbiamo appena recitato Je suis per lultima volta, e dove tutte le parole
sono appena scomparse. Con amicizia. Valère Novarina
< indietro
|