GIOIA
COSTA
PREFAZIONI LAMPI
D'ORALE Lampi
dorale Valère
Novarina tende ad annullare qualsiasi senso apparente della lingua per rendere
alla parola la sua capacità di evocazione, che diviene una possibile rigenerazione
del senso. Altera le terminali ma non tocca mai la radice delle parole, innesta
echi di lingue desuete, mescola generi, cambia prefissi e suffissi. Dà
vita ad una pagina di suoni. E così ogni termine, nellonda sonora
che genera nella pagina e che viene accentuata dalla propria originarietà,
assume pieno valore nel riverbero di senso e di suono che crea attorno a sé
quando incontra altri termini. NellAtelier volante la proliferazione
verbale e la follia linguistica di alcuni dei nove personaggi non hanno solo la
funzione di una rottura con schemi e logiche accreditate nella prassi teatrale:
costituiscono in realtà un secondo livello di ascolto e di lettura, offrono
una lingua che si dà nella sua nudità, nel suo essere puro suono,
una lingua che non vuole sottostare alle regole della sintassi. E questa libertà
genera nuove parole, accordi, nuovi e inattesi incontri fra suono e senso.
Daltronde bisogna pur saper custodire un po di senso, per poter poi
perderlo. La storia di Boucot, imprenditore onnivoro che strangola la sua
impresa nel desiderio incontrollabile di aumentare allinfinito la produzione
e quindi il rendimento, accompagnato da Madame Bouche, figura ossessionata dal
denaro, che trasforma ogni prodotto degli impiegati in merce da rivendere loro
in qualsiasi momento di svago, e dal Dottore, allegoria di colui che esercita
il controllo ma anche spalla fedele dei multiformi appetiti dei padroni, sono
un pretesto per mettere in scena il meccanismo impazzito del mondo contemporaneo.
Boucot manipola la sintassi e, con questa, governa. Mentre Madame Bouche,
regina del mercato, regna. Infatti lei non è ossessionata dal Senso e cambia
continuamente registro: moglie devota, poi creatura maliziosa, poi donna capo,
Madame Bouche adotta latteggiamento che più conviene alle diverse
circostanze, affermando sovranamente la sua indifferenza al Simbolico di cui,
invece, Boucot non può fare a meno. I tre sono padroni della lingua
e manipolano gli impiegati confondendo loro le idee con formule e spiegazioni
prive di senso, ma tanto complesse da sembrare inoppugnabili. Mentre i sei impiegati
alfabetici, ebbri di limitazioni, covano imprecisi istinti ribelli perdendosi
poi nei luoghi comuni prefabbricati per confonderli. La bellezza di un paesaggio
da cartolina, il sogno di un amore impossibile, la speranza di unintera
giornata libera fra trenta anni. Perduta la capacità di articolare in un
universo di frasi fatte, gli impiegati perdono in realtà la volontà
che, sola, potrebbe permettere loro di fare il salto e, per una volta, di scegliere.
Durante il primo allestimento dellAtelier volante diretto da Jean-Pierre
Sarrazac, nel 1974, in disaccordo con il regista Novarina ha scritto in una notte
La lettera agli attori. Questo testo è un documento dedicato allo status
odierno del teatro e alla supremazia accordata alla regia nei confronti del copione
e di chi recita. Compito del regista è cancellare ogni singolarità,
mettere in bella corpi e voci, attenuare le differenze uniformando
lo spettacolo allo stile dellunico corpo che non si espone, che non varca
le quinte, quello del regista, appunto. Ecco che si ripropone il conflitto fra
padroni e impiegati, ovvero il conflitto fra personaggi, che nella lettera viene
esteso al conflitto fra il regista e gli interpreti, trasformandosi in competizione
per il possesso del corpo dellattore e della lingua. Fare parole di
teatro vuol dire preparare la pista dove la cosa ballerà, mettere ostacoli,
siepi sulla pista di cenere, ben sapendo che solo i ballerini, i saltatori, gli
attori, sono belli..., scrive Novarina, e ricorda loro che lattore
non esegue ma si esegue, non interpreta ma si penetra, non ragiona ma fa risuonare
il suo corpo. Non costruisce il suo personaggio ma decompone il corpo civile e
in ordine, si suicida. Non composizione del personaggio, ma scomposizione della
persona, scomposizione delluomo: ecco cosa si fa in scena. Siamo
di fronte a un teatro che si presenta come eccesso teatrale nella scrittura, nel
quale la parola assume su di sé la tragedia dellesistenza e della
sua crudeltà, nel senso indicato da Antonin Artaud: ogni essere, per nascere
e venire al mondo, deve sopprimerne un altro, deve cercare di soddisfare il suo
appetito vitale mangiando la vita di un altro. Non è un caso che la
ricorrenza del verbo mangiare sia presente in tutti i testi di Novarina. Mangiare
è latto estremo dellaffermazione della volontà di vita
e in questa accezione rivela la propria derivazione da Artaud: divorare la vita
mentre si è divorati da essa. Il dramma della vita consiste
nellalternanza di pieno e vuoto e nella tragedia della divisione degli esseri.
I personaggi, che diverranno nei testi successivi nomi parlanti, apparizioni orali
di figure dette, sono lo specchio dellimpossibile singolarità dellindividuo.
Infatti la condanna della modernità risiede proprio nellaccordo indiscriminato,
nelladerenza a regole e stili messi a punto per annullare ogni possibile
devianza. Ed è proprio la conformità ad aver generato laberrazione,
conformità che Antonin Artaud ha denunciato nel desiderio di ammalare e
sanare attraverso la prova del dolore estremo, e che Novarina ha messo in evidenza
tramite lattribuzione di un senso altro, la possibile lettura sonoramente
e sovranamente estranea a regole e codici. Ma Latelier volante è
anche lincarnazione di unimmagine che accompagna Novarina fin dalle
origini: quello dellattore-tubo, corpo forato alle due estremità
percorso nel suo interno dalla parola. Una parola che genera la vita attribuendo
nomi, che feconda con latto stesso di emettere suoni. E lattore, corpo
cavo per eccellenza, è colui che, accogliendo nel proprio corpo ciò
che lautore ha tracciato per lui sulla carta, trasforma in materia e in
soffio orale la scrittura che aera le sue cavità. Come ha messo in
luce Maurizio Grande, della cui passione ed acutezza molti di noi sentono la mancanza,
Novarina condensa e riespone la sua idea di teatro nella diluizione dei
nomi parlanti, nellorgia di una carne famelica che il teatro pretende di
dire e di salvare dicendo, proferendo. Per questo, nei suoi testi, le orecchie
sono così spesso citate, evocate, chiamate alla scena. Le orecchie, ovvero
le parti del corpo più aperte allesterno, volti inguardabili dellascolto,
che Novarina invoca perché attraverso le orecchie si formi quellunico
teatro possibile della parola: un soffio che si trasforma in voce e che si ri-trasforma
in suono nel suo presentarsi alle buche esterne del capo, della testa, questo
tappo poggiato sul totem delluomo-trou, del nome poggiato su un buco
attraverso il quale passa il dolore della vita. E questo dolore, che
permea la scrittura di Novarina eretta contro ogni forma di comunicazione, passa
dalla pagina alla scena attraverso lecolalia e la filastrocca riaffermando,
al di là del senso, la sovranità del suono sorgivo. In
Valère Novarina, Latelier volante, Costa &Nolan, Milano 1998
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