GIOIA COSTA PREFAZIONI NOTA DEL TRADUTTORE



Nota del traduttore


“Come, come, come? Perché si è attori, eh?
Si è attori perché non ci si abitua a vivere nel corpo imposto,
nel sesso imposto.
Ogni corpo d’attore è una minaccia, da prendere sul serio,
per l’ordine dettato dal corpo, per lo stato sessuato;
se un giorno si finisce a teatro è perché c’è qualcosa
che non si è potuto sopportare.
In ogni attore c’è qualcosa che vuole parlare, come un nuovo corpo.
Un’altra autonomia del corpo si fa strada,
e scaccia la vecchia economia imposta”.

Valère Novarina scrive all’attore, per l’attore. I testi sono popolati di nomi e di apparizioni e vi si incontrano figure di lingua, le cui parole sono di carne. Si può dire che la carne dei suoi personaggi è costituita dalle loro parole, che montano e smontano il mondo chiamando e nominando.
Eppure questa parola non appartiene al personaggio, non è l’espressione della sua psicologia e della sua azione. Al contrario, è il personaggio ad appartenere alla parola. Il teatro di Valère Novarina non è quindi un teatro di personaggi, è un teatro per attori. Tutto il conflitto orale che mette a confronto lingua e parola è, in realtà, un dono all’attore.
Sfogliando i vecchi vocabolari, leggendo i testi che hanno lavorato sul respiro ampio e gli autori che sanno “scrivere con le orecchie”, Novarina condanna una lingua muta dal troppo parlare. La lingua francese è divenuta un’odalisca pigra, grassa e miope, esausta di non dir nulla. Adagiata su divani damascati, fra dopocena e thé pomeridiani, ha perduto la memoria delle origini e l’agilità che la vita richiede.
L’operazione di Valère Novarina consiste nello spogliarla dai vizi che un troppo lungo benessere le ha conferito. Ma il desiderio di violare la lingua non è desiderio di creare uno stile, un timbro riconoscibile a distanza. Novarina ha nostalgia di una unità oggi definitivamente perduta: l’unità corpo-voce, che si esprime in una pienezza pastosa, in un flusso parlato e respirato che esce dal corpo nuovo ogni volta, che cerca ogni possibilità di apertura, di scavo, di vertigine.
E’ innanzitutto uno scavo nel francese, alla ricerca di una oralità non rigida, di una parola capace di riscoprire il suo potere generante e la sua forza visionaria.
Quando si decide di uscire dalla propria lingua per accogliere la lingua di Novarina, di ascoltare il movimento orale piuttosto che seguire il senso, quello che avviene è innanzitutto un incontro. Fra le lingue. Fuori da sé. Perché fra le lingue, quando le si libera dalle loro regole e dalle loro abitudini, si produce qualcosa di sorprendente: un richiamo verticale fra le parole che permette scoperte inattese. Dai luoghi più nascosti riaffiora la loro vecchia radice comune, che un tempo era percettibile, e che ricompare quando si tratta di ascoltare piuttosto che di cogliere.
La prima cosa che colpisce, leggendo un testo di Novarina, è il modo in cui l’ascolto si impone: ci sono come dei richiami ad eco che trascinano la lingua fuori dal tracciato abituale, e ci si ritrova in un percorso orale fatto di ispirazioni, di pause, di movimenti legati fra loro. Valère Novarina è alla ricerca di una scrittura vocale che possa accorciare la distanza fra la pagina e la gola, fra la grafia e l’emissione. E’ lontanissimo dal gioco di parole, dal calembour e da ogni virtuosismo: dietro ad un neologismo c’è sempre una etimologia da cercare, un’antica parola, una radice profonda che possiede legami precisi con una lingua, una regione, un dialetto. Si tratta ancora una volta di ascoltare e di ritrovare il motivo che ha fatto cadere la parola proprio in quel punto della pagina. Perché le onde provocate da una parola creano la vibrazione dell’intera frase, chiamano altre parole, si legano in cerchi sempre più larghi costituendo fra loro un legame intimo che chiede intimità per svelarsi.
La lingua si spoglia dolcemente, silenziosamente, nell’ombra protetta della non ripetizione, e rivela un corpo brillante, luminoso, ricco e inedito che induce al silenzio e alla contemplazione.
Nel caso della traduzione, cosa fare per salvare questo “corpo”? Innanzitutto si tratta di cercar di rendere percettibile nella lingua tradotta il movimento segreto del francese, perché il movimento di una lingua è parte del suo corpo. Le parole producono una rete di senso e stabiliscono fra loro legami che appartengono unicamente a quella pagina e non ad altre. Ogni parola emana qualcosa e, toccando le altre, le modifica.
E’ quindi un errore immaginarle le une accanto alle altre, pronte al viaggio da un libro all’altro. Non avranno né lo stesso senso né lo stesso suono dopo aver compiuto il viaggio. Michel Foucault chiama queste trasmigrazioni di caratteri “traduzioni laterali”, nelle quali masse di senso e di suono scivolano in una nuova lingua passando attraverso un metal detector che le spoglia dei loro elementi. Ne escono pulite, neutre, anonime.
Je Suis, di cui Lo spazio furioso rappresenta la versione per la scena, aveva una diversa scansione dei personaggi. Comparivano la Logique e la Grammaire, che dissertavano sulle figure del discorso. Il Docteur Plenier e il Docteur de Vacuité esaminavano varie modalità di smembramento e dissoluzione del corpo e del linguaggio. Altri personaggi avevano il nome degli attori che li rappresentavano in scena, suggello dello speciale rapporto di Novarina con l’attore che trangugia il personaggio per sputare in scena carne orale dosata dal respiro e dalle pause.
Lo spazio furioso rappresenta l’ultima cesura, l’ultimo taglio di un lavoro che ha fatto della sottrazione il suo elemento caratteristico.
Tutta la drammaturgia di Valère Novarina è un conflitto orale, alimentato dal fatto che ogni parola sia, in se stessa, ‘un dramma’. La pagina, quindi, racchiude in sé tutto il teatro del mondo.
Per cogliere tutto questo noi dobbiamo spogliarci della nostra lingua, e riapprenderla ritrovando quelle correnti, quei gorghi e quelle assonanze che Novarina cerca nelle pagine del passato e che magicamente, da uno scaffale all’altro, gli antichi volumi continuano ad offrirgli durante i suoi vagabondaggi fra le parole.



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