GIOIA
COSTA SAGGI CARMELO BENE, O DELL'ABBANDONO Camerino
dellOpéra Comique di Parigi, alla fine di Romeo e Giulietta. Si affaccia,
elegantissimo, Jacques Lacan. Carmelo Bene, madido di sudore, si strucca davanti
allo specchio. Bonsoir maître. Jacques Lacan, (pas maître).
Je veux relire tout Shakespeare. Mi ostinai a dargli le spalle, per
averlo tutto e niente allo specchio. Lui taceva, io tacevo. Lì per lì
non presi atto chera quel silenzio reciproco la tregua dellagire-patire.
Ripensai alle infantili combines con Pierre Klossowski, ai generosi, scambievoli
flussi con Gilles Deleuze, del nostro così dichiarato lessere luno
per laltro. E invece lui taceva. E io tacevo. Lascolto che ascoltava.
Oltre i vetri chiusi, i nasi spiaccicati dei lacaniani adoranti, eredi senza eredità
di un geniale clown che non ha lasciato nemmeno le briciole del suo spericolato
andar fuori di strada. Devo alla sovrintelligenza di Lacan e alla mia lucida
spossatezza questo memorabile incontro a vuoto (..) Tacere: ecco un bel modo di
dichiararsi amore e rispetto. Disparve Lacan, come era apparso, felpato, fra i
flash dei fotografi in calore e le occhiate concupiscenti dei suoi e dei miei
fans. Strizzato dal curiosare dei soliti cronisti, mi risulta che rilasciò
questunica frase: En tout cas, il sait ce quil fait .
Carmelo
Bene, o dellabbandono
Ci vorrebbe una bella catastrofe, fortune
che non capitano più Carmelo Bene In
un saggio illuminante, Søren Kierkegaard sosteneva che perdendo il
tragico, la nostra epoca trova la disperazione.
sì, io direi che
è solo quando ha il tragico che lindividuo è felice. Il tragico
ha in sé uninfinita dolcezza, e propriamente, dal punto di vista
estetico, rispetto alla vita umana è quello che sono la grazia e la misericordia
divina, anzi, è ancor più dolce, e perciò dirò: è
un amore materno che placa lafflitto! Letico è severo e duro
. Il tramonto del tragico confina quindi lindividuo in una soggettività
sottomessa allimperio del caso, che lo destina alla mutevolezza del volere.
Il soggetto esposto, che ha perduto la propria fatalità individuale per
essere parte di un tutto guidato anchesso dal caso e dal capriccio degli
uomini, è un essere fragile davanti alleternità e balìa
degli eventi. Carmelo Bene si è posto come assoluta singolarità
nel panorama del teatro, una singolarità guerreggiante e melanconica, guidata
dalla ricerca del bello e da una preveggenza estetica che ha sconvolto le regole
dellarte scenica. In questo modo, ha indicato una possibilità del
tragico nel mondo moderno. Seguendo la visione di Kierkegaard, infatti, lo
scenario del moderno può essere rappresentato come tragedia dellinforme,
dellindefinito, dellaperto. È questa la sola forma di tragedia
possibile, perché lindistinzione apre nuovi campi di indagine, davanti
alla cui ampiezza trionfa la paura. Larte si muove nel più pericoloso
scenario che esista: quello della libertà. E la libertà è
terrificante, bisogna essere molto forti o molto felicemente cagionevoli
come direbbe Carmelo Bene per sostenerla. Perché se rende possibile
quasi tutto, al tempo stesso rivela il limite, mostra lerrore, denuncia
ogni cedimento. Il confine che separa le diverse creazioni è divenuto
incerto, e questo ha messo in crisi lidea stessa di forma: la fotografia
ospita la pittura e questa a sua volta accoglie proiezioni, materie e suoni; il
cinema entra negli spettacoli teatrali i quali abbandonano la trama, i ruoli e
ogni postulato aristotelico; il confine fra i diversi generi di musica è
sempre più esile, come lo è la distanza fra teatro, danza e circo.
Anche in letteratura, i saggi sono scritti come romanzi e i romanzi come saggi.
In realtà, la crisi della forma non è che la manifestazione
di una più ampia crisi: quella dellopera. Lidea stessa di compiutezza
è minata alle sue radici. E questo configura scenari ancora in divenire,
che modificano radicalmente non solo la prassi ma la percezione stessa del reale.
Tutto procede per contiguità: il mondo di Sergej Ejzenstejn e la sua geniale
intuizione sviluppata in Teoria generale del montaggio -laddove formula e analizza
il montaggio verticale- lascia il posto ad un universo caratterizzato dallorizzontalità,
a volte miope ma spesso sorprendente. È la contiguità, la legge
del moderno. Si accostano stili e linguaggi che mai sarebbero entrati in contatto
e, dal caos prodotto dal loro incontro, una nuova grammatica della percezione
affiora. Innegabilmente è troppo presto per tentare delle conclusioni,
per analizzare compiutamente un simile cambiamento. È allora interessante
sapere che si è sulla soglia, restare sul limitare e guardarlo consapevoli
di essere nellentre-deux. La figura che meglio e con maggiore anticipo
ha capito questo momento nel teatro è certo Carmelo Bene: la sua lezione
è ancora da esplorare e, questa, è una buona notizia. Ciò
che Carmelo Bene ha praticato in scena è stato offuscato dalla forza della
sua presenza che, paradossalmente, giustificava lattitudine a non capire
il valore estetico della sua ricerca e la finezza del suo pensiero. Nel deserto
creato da unomologazione di modelli sociali ed estetici generati
in parte dallincredibile potere uniformante della televisione, e in parte
dalla pressione verso il basso che contamina varie forme della creazione ,
il grande patrimonio di saperi, libertà e bellezza che Carmelo Bene lascia
a chi ha la fortuna di ricordarlo, al lettore delle sue traduzioni e dei suoi
testi, allo spettatore dei film o dei video, a colui che ascolta la sua voce,
è un conforto e un invito. Dargli la parola per ricordare alcuni momenti
della sua ricerca è un modo di farlo essere un po con noi. È
tenace il suo desiderio di scomporre lordito: Minvade negli
ultimi anni questo assillo di sprogettare ogni cosa, che accompagna lorrore
della presenza: Credo in Dio perché non esiste: sono in ginocchio
davanti allassenza. Ha teorizzato con un anticipo sorprendente il
valore delloblio: Cè dei critici che si complimentano
con degli attori per la loro straordinaria memoria. Qui è ora di dimenticare.
Ricordare è una vergogna, e chi si ricorda, ricorda una cosa morta.
Contro questa memoria che va a letto con la morte, contro gli equivoci
dellunione, Carmelo Bene ha sempre praticato la solitudine. Spiegava, durante
le prove del Macbeth al Teatro Ateneo di Roma, ma questo vale per tutti i suoi
spettacoli, che: Macbeth è in due ma non è a due. Non cè
dialogo, sono due monologhi. Sono due solitudini insieme. In Otello
andato in scena nel 1979, e il cui montaggio cinematografico è stato da
lui considerato concluso con una lettera spedita al direttore di Rai Educational
il 14 marzo scorso, quasi volesse ritenerlo il suo congedo , Iago ha spesso
la voce di Carmelo. Ha doppiato i suoi attori, oppure li ha mandati in scena muti,
costretti ad ingoiar la parte, accartocciata in piccoli fogli. È
seccante quando, a un tono, un attore replica con un altro. Figurarsi se ce ne
sono cinque o sei, di attori. Se in musica larmonia è una legge
che va ben oltre laccordo degli strumenti, allo stesso modo per Carmelo
Bene in scena la voce obbedisce a regole precise: Il fraseggio è
il comico della frase. Grazie a Dio fraseggiare non vuol dire sviluppar concetti,
ma vuol dire deconcettualizzare la frase attribuendole una musicalità e
una ritmica, un ritmo tutto diverso. Questo è il fraseggio. Non è
il concetto, è la deconcettualizzazione. Come il solfeggio. Questo è
tutto. Non è che parlando uno solfeggia. Siccome sfortunatamente si recita
come nella vita reale, le conseguenze si vedono. Possiamo considerarlo
il più grande autore della scena italiana della seconda metà del
secolo: è lui ad aver inventato la scrittura di scena
la cui definizione la dobbiamo invece a Giuseppe Bartolucci come prassi
creativa, rivoluzionando così lidea di regia. È lui ad aver
fatto della voce un corpo struggente. È ancora lui ad aver trasformato
i corpi in pezzi di scenografia: imprigionandoli nei marmi, dotandoli di microfoni,
con voci amplificate o registrate, equiparando lattore alla musica e ai
cantanti, le presenze animate diventavano parti mobili e fluttuanti della composizione
scenica. Ha teorizzato un teatro senza spettacolo, e con questa formula, felice
per la sua chiarezza, ha reso alla scena una dignità indiscutibile. La
sua rilettura e traduzione dei classici, il modo specialissimo di leggere la poesia,
per la quale si è iniziato a parlare di phoné, limprovvisa
comparsa delle musiche, potenti come lingresso di un nuovo personaggio,
e luso delle citazioni pittoriche o letterarie, lasciate cadere in scena,
hanno popolato il suo teatro di immagini profondamente legate alla cultura e allarte
italiana, restituendo loro autorità e splendore. Carmelo non è
stato soltanto uno dei più grandi attori che l'Italia abbia avuto, ma un
raffinatissimo lettore di testi, un dicitore che ha creato uno stile, un traduttore
di impareggiabile intelligenza. La sua esperienza cinematografica non è
di minor peso: ancora oggi il suo primo film, Nostra Signora dei Turchi - che
risale al 1968 - precorre ciò che verrà. L'uso del montaggio accelerato,
la non linearità del racconto, l'adozione di alternanze fra primi piani,
sequenze e dettagli, sono una lezione di composizione dell'immagine. Lezione proseguita
poi nella Salomé dal montaggio vertiginoso -50 minuti, 7000 fotogrammi-,
dove a metà film cambia l'attrice protagonista, Veruschka sostituita da
Donyale Luna. Ma anche le rielaborazioni per il video degli spettacoli, da
Riccardo III ad Amleto, sono un alto esempio di trascrizione, nel quale l'uso
della macchina da presa diventa non un limite alla percezione dell'attore ma un
occhio supplementare nella visione. In Quattro modi diversi di morire in versi,
la lettura del Majakovskij univa lavanspettacolo nella velocità,
nella sterzata, nello stacco dei toni e nel cambio di registri- alla tradizione
italiana dellattore-mattatore, concludendosi con una valanga di parole divenute
suono e ritmo nella velocità del dire guidato da una dizione impeccabile. Autore
romantico per eccellenza, Carmelo Bene convocava la sera gli amici dellombra:
Søren Kierkegaard, Jacques Lacan, Arthur Schopenhauer. A loro si rivolgeva
nei discorsi come negli spettacoli, e a loro faceva appello cercando idee e visioni.
I copioni erano contrappuntati di note a margine, nelle quali si leggeva, ad esempio:
Questa è la Pietà, ma non si sappia. Ha fatto vibrare
le platee di tutto il mondo, guidandole con la voce in zone inesplorate. L'uso
dei microfoni, con i quali ha trasformato la parola in onde tumultuose, resta
impareggiato. Ha saputo dominare lo struggimento, il deliquio, la possanza e l'impeto
nei suoi "Concerti per attore solo", accolti da platee numerosissime
con applausi che raramente il teatro ha conosciuto. La lettura di Dante dalle
torri di Bologna è diventata una pagina della storia del teatro, come la
notte a Recanati, nella quale ha letto Leopardi davanti a una piazza ventosa e
gremita. Una delle lezioni importanti che ci lascia è quella di aver
decretato la morte dellillusione, a teatro: se ancora oggi si discute di
psicologia, naturalismo, immedesimazione e
straniamento, fin dagli anni 60 Carmelo Bene ha stabilito che
il teatro è il luogo della lirica, e con questo gesto ha cancellato lucidamente
unintera visione della scena, precorrendo lincontro fra arti diverse
che ha poi aperto un nuovo terreno di ricerca. Se un attore si immedesima
e vuol rendere plausibile il passaggio dal pianto al riso, è la via più
sbagliata. I testi sono una teoria contro limmedesimazione, contro il teatro
di immedesimazione. Bisogna uscir di parte e poi, finalmente, si arriverà
ai vuoti, alla Scena dei Vuoti. Molta roba va fatta in quinta . La sua
riscrittura dei classici, da Shakespeare a Laforgue, da Majakowskij a Eisenin,
ha creato una lingua fuori dal tempo e dalle sue fragilità, una lingua
dominata dalla signoria della parola che lattore trasforma in sovranità
della phoné: non è più il senso a governare la voce ma il
dire, che si fa soggetto e assume nuove forme, nuovi significati, nuove valenze.
Aver separato la voce dal senso è stato un modo di render vita alla
parola. La sua tecnica antifrastica ha minato le basi dellIo scenico, distruggendo
tutta laffettività domestica della recitazione per riconsegnarla
al mistero della presenza. Che, come la passione, non è oggetto di un discorso.
Laddove si manifesta è una forza che può essere soltanto subita
e che annienta il capriccio della volontà. Ma ciò che lo ha
reso inavvicinabile è stato il suo apparire su una scena di guerra: aste,
microfoni, apparecchiature foniche e luministiche di rara complessità,
armature, calici e pugnali sono il corpo delle sue scene, quasi sempre dominate
da un enorme letto, telaio di Penelope e luogo della tessitura di ogni esistenza. Della
guerra ha esaltato liconografia simbolica, rendendo le scenografie un brillare
di metalli feriti da luci nettissime, colpiti da suoni o da inattese modulazioni
della voce. Un colpo, un rotear degli occhi, una parola caduta, una musica che
sottolinea la vulnerabilità di unarmatura. Tutto sembra esser pronto
a una guerra che non sha da fare. La scena di Carmelo Bene
è la rappresentazione della simulazione che si fa modello al punto da cancellare
la sua inautenticità. Mostrando il falso, essa diventa vera. Ma la scena
è armata, come armati erano i suoi spettacoli. In Nostra signora dei
Turchi pugnace era la luce di Otranto, che colpiva i volti troppo umani dei suoi
abitanti, fissati nella loro inconsapevole umanità imbelle. Ma la scena
di guerra era la preparazione della salsa di pomodoro, che macchiava ogni cosa
nel ghigno del frate cuoco e diavolo che imbrattava anche la lucente Lydia Mancinelli;
in Lorenzaccio armato era il Tempo, impotente davanti alla irreciprocità
fra atto ed effetto: mai ad un gesto seguiva una conseguenza, e questo deprivava
lagire di senso, annullandone il valore in una discronia resa visibile.
In Salomé le belle mani di Veruschka strappavano la pelle del volto del
Tetrarca esigendo la testa di Jokanahan: quelle mani sono lincarnazione
della volontà cieca che destituisce di senso un regno e il suo intero apparato
simbolico. Vanità del volere che solo la crudeltà può soddisfare:
la bella Salomé distrugge il vizio del imponendo il capriccio a Legge.
In Pinocchio armato era il legno, che inibiva allumanità qualsiasi
esposizione, relegando il burattino a un volere simulato, emulo difforme e perciò
ancor più rivelatore delle spie del difetto umano: lambizione, la
menzogna e linsipienza. Nella Cena delle beffe il corporobot di Giannetto,
rilucente come larmatura di un Dio greco, era la macchina che si oppone
alla carne, era metallo in lotta con la pelle; in Macbeth larma era lAtto,
quellabominevole assassinio a due che si specchiava nei calici, negli argenti,
nelle preziose stoffe, nella candida Lady Macbeth o nelle folli armature di punzoni
e corazze dellesausto Macbeth, pedina della sua spossata quanto smisurata
ambizione. In Otello Desdemona, già-morta prima di perder la vita, giace
dallinizio alla fine riversa su un letto di paure nel quale lamore
incerto del Moro la confina nel terrore di perderla e la perde nel terrore di
averla. In Pentesilea, come nellAchilleide, una scena di brandelli e resti
umani ricordava lorrida visione del massacro dopo una battaglia. Ma ferita
era la celluloide, non la bambola, e, nello spazio disseminato di braccia, gambe
e busti, Carmelo Bene si aggirava con la sua voce ancor più struggente
davanti al tramonto del senso. La sua assenza è popolata da immagini,
suoni, melodie che riappaiono improvvise: basta sentire Cajkovskij, guardare la
curva di una statua, vedere una luce algida, e lemozione si rinnova. Torna
allora il vento delle piazze, che trasportava in una folata le parole della Divina
Commedia dalle Torri fin giù per poi allontanarle di nuovo, torna la Signorina
Felicita che tosta il caffè, tornano Manfred, Campana, Eisenin, Egmont.
Carmelo Bene è con loro, e la sua presenza fra noi è il dono che
la musa Arte ha fatto allItalia. Il valore di questo dono sarà, una
volta di più, scoperto nella mancanza. La morte è un sonno,
nel quale si dimentica lindividualità: ma tutto il rimanente si risveglia,
o piuttosto non sè addormentato . " In Lespressione
rivista di filosofia, "Guerre", anno I, numero 0, marzo 2003, Cronopio,
Napoli. <
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