GIOIA
COSTA CATALOGHI INCONTRO CON VALERE
NOVARINA Incontro
con Valère Novarina, introdotto da Renzo Tian e Gioia Costa Firenze,
Teatro della Pergola, 13 ottobre Renzo Tian Da questa giornata, presentata
in collaborazione con il Festival Intercity che ringrazio, emerge il ritratto
di una delle figure più interessanti e originali del teatro contemporaneo
francese ed europeo. Valère Novarina è una personalità molto
originale, da qualcuno ritenuta difficile, mentre io sono convinto del contrario.
Parlare di Novarina significa anche riprendere, osservandola da una prospettiva
diversa, una polemica che negli anni fra il 50 e il 70, ma anche più
tardi, ha investito il teatro italiano, cioè la diatriba, molto antica,
sul tema della prevalenza del testo o dello spettacolo. Ho sempre ritenuto che,
impostato così, questo fosse un falso problema, e che in realtà
bisognasse cercare di pensare in termini diversi alla contrapposizione tra chi
chiedeva che la parola - la parola nel senso del testo teatrale fosse sovrana,
e chi invece pretendeva che avesse la meglio lo spettacolo, la parte visiva e
dellimmagine. Questo perché quando si usa lespressione parola
- la parola-parola, come dice da qualche parte Novarina -, si pensa
a qualcosa di equivoco, in fondo. Che cosa è il testo teatrale, e che rilievo
ha la parola, al suo interno? In ultima analisi, coloro che rivendicano limportanza
della parola la concepiscono come una serva: serva, ad esempio, del senso, logico
o psicologico, ma non pensano mai a una parola veramente dominante, regina, sciolta
quindi dagli obblighi di servire il senso, la logica o la psicologia. Bisognerebbe
invece pensare, ed è quello che fa Novarina, a una parola realmente liberata
dagli obblighi di servire, quindi a una parola padrona. Tutto il lavoro di Novarina,
a partire dallAtelier volant, tradotto in italiano da Gioia Costa ed edito
nel 1968, vede la parola come padrona di tutto, svincolata dagli obblighi. Ne
risulta una nuova immagine del rapporto fra la parola e il teatro, in cui tutto
sommato lattore, lautore i due termini per Novarina si confondono
hanno un atteggiamento di umiltà nei confronti della parola, che
è qualche cosa a cui ci si sottomette; la parola pronunciata, la parola
detta, la parola orale diventa di per sé qualcosa che assorbe tutto il
resto: è posta al centro della scena e dellattenzione. Esiste quindi
una forte componente di umiltà. In Pendant la matière, un saggio
sul teatro, mi ha molto colpito una frase che esprime molto bene e con grande
chiarezza il concetto dellumiltà di chi conferisce alla parola unimportanza
che non è abituale né tradizionale. Dice Novarina: Ci sono
oggi persone molto intelligenti e molto informate che illuminano il lettore, gli
dicono dove bisogna andare, dove va il progresso, cosa bisogna pensare e dove
mettere i piedi. Io mi vedo piuttosto come colui che benda gli occhi, come qualcuno
che è stato dotato di ignoranza, e che vorrebbe offrirla a quelli che ne
sanno troppo. Un portatore dombra, qualcuno che mostra lombra a coloro
che trovano che la scena sia troppo illuminata, qualcuno che è stato dotato
di una mancanza, qualcuno che ha ricevuto qualcosa in meno. Credo che in
questa frase ci sia la chiave per capire tutto quello che Novarina ha fatto per
il teatro: non li posso e non li voglio chiamare testi, perché non sono
testi, ma sono qualche cosa di più e di diverso. La parola diventa vera
nel momento dellascolto: ecco unaltra idea molto forte che emerge
da tutto il lavoro di Novarina sulle parole. Ci sono frasi molto belle anche nellintroduzione
scritta da Novarina per ledizione italiana dellAtelier volant, dei
momenti in cui egli si sofferma su certe espressioni del dialetto savoiardo, che
ama molto, per vedere che cosa cè dietro alle parole, una volta che
ci siamo abituati a considerarle importanti come oggetti: che cosa nascondono
le parole, oltre al senso corrente, oltre al senso che noi siamo abituati a dar
loro nei nostri rapporti. La parola non è soltanto comunicazione, non serve
solo a mettere in rapporto, ma anche a farci scoprire tutta la ricchezza che cè
dentro ciascuna parola, oltre al senso. Gioia Costa Sono molto felice
che in questa edizione fiorentina del Festival dAutunno, un quadro cosí
importante per la diffusione della drammaturgia contemporanea in Italia, sia stato
invitato proprio Valère Novarina. È significativo che la lettura
di questa sera veda Valère Novarina insieme a Sandro Lombardi. Sia per
lattenzione che Lombardi ha da sempre dimostrato nella scelta degli autori,
coraggiosa e sostenuta con rigore continuo, sia per la differenza tra il lavoro
di Novarina e il modo in cui Sandro Lombardi può interpretarlo, come vedremo
piú tardi. Lincontro di due personalità tanto diverse, ma
unite da una comune passione per la parola, mi sembra particolarmente fecondo.
La scrittura di Novarina si distingue già alla lettura per una differenza
importante: nel suo teatro gli attori non incarnano personaggi. Semmai figure.
I personaggi o non ci sono o si annullano per eccesso. Lunghi mononoghi, figure
retoriche assunte al ruolo di voce parlante o folle di nomi impossibili da rappresentare:
un personaggio vero e proprio ha perduto senso nella scrittura. Questa prima
particolarità si chiarisce analizzando una ossessione tematica di Valère
Novarina: violare la lingua. Infatti desidera spogliarla dai vizi e dagli automatismi,
rivelando il vuoto delle frasi fatte e rendendo palese tutto ciò che lha
resa rigida e impettita. Possiamo isolare tre modalità compositive
ricorrenti nella sua pagina: la ripetizione, la nominazione, la numerazione, che
sono tre forme diverse di elenco, di lista. La ripetizione, come nei giochi dei
bambini, è un modo per arrivare ad una tecnica divinatoria della scrittura:
ripetendo molte volte un termine questo finisce con il perdere il suo senso e
resta solo come veste sonora. Piú la ripetizione è lunga piú
lincantesimo del suono insensato acquista una forza impressiva. La nominazione
invece può essere definita una forma di chiamata alla voce delle cose:
nominando chiama le figure e gli esseri del suo teatro affinché appaiano
in scena. Novarina desidera che la parola non sia uno strumento per far passare,
come nei vasi comunicanti, solo del senso, ma che riacquisti la sua carne, la
sua opacità sonora, la sua densità. La numerazione, infine,
è un modo di disporre nello spazio dei frammenti di lingua. Ogni numerazione
vorrebbe arrivare a una fine, ed è quindi destinata a fallire. I numeri
che si incatenano luno allaltro sono dei cantici mancati e delle condanne
alla perpetuità. Numerando, dissemina cifre per ritrovare segni del suo
passaggio, per non perdersi nelle parole. Ma qual è la genesi della
sua scrittura? Novarina ha detto una volta: "Quando scrivo faccio il vuoto
e se non ci riesco riscrivo maniacalmente finché la scrittura mi oltrepassi,
si impossessi di me e vada sola". È naturalmente unesagerazione,
una sfida a forze inesistenti, un rapporto con la pagina che sconfina nel sacrale
e nel mitico. Eppure, come avviene nel mito, anche nel suo teatro il nome è
la sostanza del personaggio. Siamo di fronte a unimpostazione epica della
scena, perché nei testi di Novarina il racconto coincide con lazione,
o meglio sostituisce lazione, come nella chiamata alla voce dei 2587 personaggi
del Drame de la vie, che sono naturalmente irrappresentabili. E potremmo dire
che questa è una forma moderna di teatro liturgico, se per liturgia si
intende la ripetizione rituale di un evento mitico. La nostalgia dellunità,
ormai perduta per sempre, fra il corpo e la voce, la nostalgia per un senso della
parola che torni ad essere originario ha spinto Novarina a condannare la comunicazione
di tutto a tutte le ore e dappertutto. Televisioni, fax, e-mail, segreterie telefoniche,
telefonini: non cè più nulla da trasmettere. Oggi non esiste
piú la parola, soffocata dal commento di qualsiasi cosa. Siamo circondati
da un perenne rumore di fondo. Contro la comunicazione dilagante, o meglio
contro la televisione ha scritto un testo molto bello, pubblicato in Allattore:
Entrata nel teatro delle orecchie. Lí definisce la televisione la
cattedrale del XX° secolo, piccolo altare domestico che emana un alone
cadaverico imbrattando le pareti con il suo azzurrino funereo e intermittente.
Quella stessa televisione che in Heimat Reiss fa definire allanziana Maria
"lombra della morte", Novarina la liquida con limmagine
del rosone domestico utile a funzioni simulate e messe sconsacrate. Per Novarina
lo scambio di informazioni indiscriminato funziona per contagio: ammala e vizia
lascolto, inibisce il silenzio e il pensiero. E allora riscrivendo maniacalmente
è come se cercasse di raggiungere una specie di trance nella rielaborazione,
che si avverte già nella pagina: leggendo il suo teatro si sa subito che
non è possibile affrontarlo con gli schemi tradizionali della scena. Innanzitutto
perché lascolto si impone, e crea un vero e proprio percorso orale,
indifferente allo svolgimento narrativo della storia. Non ci sono virtuosismi
né invenzioni forti: schegge di dialetto savoiardo, echi di lingue antiche,
brani di memoria latina danno corpo a una nuova creatura orale, che conserva una
radice etimologica precisa come a dichiarare a sua estraneità al gioco
di parole. Ma parliamo dellAtelier volante, che oggi siamo qui per presentare.
Novarina lo ha scritto nel 1968 ed è il suo primo testo teatrale. Abbiamo
scelto di tradurlo perché Latelier ha ancora una scansione in atti
e scene, un numero ragionevole di personaggi, nove in tutto, e permette di avvicinarsi
piú dolcemente a una scrittura considerata difficile; penso daltronde
sia un po semplicistico definirla tale. È una scrittura la cui novità
si enuncia nellaver stabilito regole diverse con la scena e con la recitazione.
Daltronde, la nuova drammaturgia si definisce non dallanno
di creazione dellopera ma dal potenziale spostamento dei codici teatrali
che contiene al suo interno. E, se questo è vero, la scrittura di Novarina
è fra le piú nuove che si possano leggere. Latelier volante
è la fabbrica del teatro di Novarina, una micro-istituzione
totale in cui il circuito produzione-consumo-riproduzione funziona a pieno ritmo
e in ogni direzione. Nellatelier si fabbricano cappelli di carta, giocattoli
da spiaggia, strani e inutili oggetti. Ma in realtà ciò che si produce,
si consuma e si riproduce non è soltanto la vita sociale, ma quel grande
corpo di desideri e bisogni rappresentato dalla lingua. Ma cosa accade? Una coppia
di padroni, Boucot e Madame Bouche, si nutre del lavoro di sei impiegati talmente
privi di identità da aver perso il diritto al nome proprio. Sono infatti
indicati con le lettere dell'alfabeto ABC, DEF. Boucot è un essere onnivoro,
nel quale si possono riconoscere echi dellUbu di Jarry. È ossessionato
dal desiderio incontrollabile di aumentare la produzione, la vendita e il guadagno,
quindi continua ad accelerare la ruota che scandisce i tempi del lavoro per aumentare
il ritmo degli impiegati. Madame Bouche è invece ossessionata dal denaro,
e rivende agli impiegati ogni loro prodotto appena arriva la sera e si chiude
latelier. Boucot manipola la sintassi e, con questa, governa. Mentre
Madame Bouche, regina del mercato, regna. Infatti lei non è ossessionata
dal Senso e adotta latteggiamento che piú conviene alle diverse circostanze
per perseguire il suo scopo, avere piú denaro. Cosí Madame Bouche
afferma la sua indifferenza al Simbolico di cui, invece, Boucot non può
fare a meno. Latelier volante è un testo di una comicità
fredda ma molto divertente, che contiene una potente metafora del teatro. Ci sono
infatti due immagini del regista-padrone, una visibile e laltra invisibile.
Limmagine visibile del regista è naturalmente consegnata a Boucot
e a Madame Bouche, due emblemi del padrone che tutto controlla: lunica cosa
che sfugge loro è il luogo in cui si forma la lingua degli impiegati, quel
buco dal quale escono parole e suoni che si contrappongono alla lingua del padrone.
Limmagine invisibile del regista è invece consegnata alla Lettera
agli attori, che è una specie di diario delle prove dello spettacolo.
La leggenda narra che Novarina, allontanato dalle prove dal regista Sarrazac,
abbia scritto in una notte la Lettera agli attori. Nata come invettiva contro
la regia, è in realtà un complemento critico del copione e una riflessione
profonda sullattore, che custodisce il mistero della propria differenza.
Il conflitto fra padroni e impiegati, che è lo specchio del conflitto fra
personaggi, viene qui riflesso nel conflitto fra il regista e gli attori. Insomma,
con Valère Novarina il teatro comincia ad essere messo in discussione dalla
lingua: esiste una lingua che comanda e una lingua comandata. Tutto ciò
rivela non solo l'opposizione delle classi ma l'irrimediabile estraneità
dei linguaggi, che rende impossibile ogni comunicazione. E l'eccesso teatrale
che emerge nella scrittura, questa proliferazione di immagini verbali o vitali
fa sí che Novarina individui nella parola la tragedia dellesistenza
e della sua crudeltà, avvicinandosi cosí a un altro grande pensiero
del Novecento, quello di Antonin Artaud. Ogni essere, per nascere e venire
al mondo, deve sopprimerne un altro, deve cercare di soddisfare il suo appetito
vitale mangiando la vita di un altro. Non a caso, negli scritti di Novarina si
trova frequentemente il verbo mangiare. Mangiare è latto estremo
dellaffermazione della volontà di vita, e il dramma della vita
consiste nellalternanza di pieno e vuoto e nella tragedia della divisione
degli esseri. Un testo si chiama addirittura Le Repas, e contiene limmagine
del divorare la vita mentre si è da essa divorati. Artaud aveva affidato
allattore-folle -guidato però da un regista demiurgo-
il compito di rivoluzionare radicalmente la scena attraverso lespressione
totale dellenergia corporea. Il soffio vitale e lurlo al di là
della parola sono i motivi centrali della crudeltà metafisica del teatro
descritta da Artaud. Leccesso e la proliferazione non soltanto verbale
ma anche fisica, che Novarina dispiega nelle sue pagine, destituisce di senso
lordine logico della scena, impone linvenzione di una nuova grammatica
e capovolge le abitudini e le attese dello spettatore. Ora, il problema è
come rendere questo lavoro sulla lingua in unaltra lingua. Tradurre una
scrittura cosí composta è un po una scommessa. Michel Foucault
aveva avuto unimmaggine molto bella: parlando della traduzione dellEneide
ad opera di Pierre Klossowski, aveva individuato una differenza fra le traduzioni
laterali e le traduzioni verticali. Le traduzioni laterali sono quelle che fanno
scivolare masse di senso da un libro allaltro, passando sopra la rilegatura
del libro, mentre le traduzioni verticali tengono conto delleco che una
parola, cadendo in un punto della pagina, provoca attorno a sé, ovvero
di tutto un riverbero di senso, e dopo di suono, e dopo ancora di significato,
che ogni parola genera. A me sembra unidea illuminante; proprio leggendo,
ascoltando i testi prima di tradurli è possibile sentire che spesso cè
un ritmo battuto nella prosa, una scansione secca. E allora penso che per uscire
dal vicolo cieco generato ancora una volta da un gioco di parole, traduzione-tradimento,
sia bene spostare il problema dalla fedeltà (che così posto, per
restare con Michel Foucault, è il problema delle traduzioni laterali) alla
ricerca di equivalenze: credo si debba trovare un equivalente ritmico di sottofondo,
che possa rendere nella nuova lingua la tessitura delloriginale. Come
giustamente sottolineava poco fa Renzo Tian, le parole non sono serventi, non
sono sottomesse unicamente al senso o alla logica. Infatti, quando nominiamo una
cosa in una lingua non è detto che appaia la stessa cosa in unaltra
lingua: chiamare una parola in un contesto linguistico può far emergere
sulla pagina creature diverse quando il contesto cambia, quindi bisogna ascoltare
con molta attenzione e cercare di vedere lintero testo come un insieme compiuto
e non come frammenti uniti dalla loro contiguità. In un piccolo preziosissimo
libro sulla scrittura, Il piacere del testo, Roland Barthes a un certo punto dice
che "ciò che si perde nella trascrizione è semplicemente il
corpo", perché la trascrizione e la traduzione sono forme di trasposizione
che allontanano loggetto dal discorso che se ne fa. E allora, cosa fare
per 'salvarÈ il corpo di una lingua? Credo che una delle cose piú
importanti sia far sentire in italiano il movimento delloriginale. Perché
il movimento di una lingua è parte del suo corpo. Bisogna quindi cercare
di ottenere unequivalenza che tenga conto del lavoro linguistico e di ciò
che si è prodotto nella pagina, unequivalenza che renda possibile
ritrovare la pasta della lingua. È possibile riuscirvi ripetendo la stessa
operazione: scegliendo fra le lingue le forme piú arborescenti, le piú
originarie e le piú vaste, cercando di restituire in italiano l'esperienza
del respiro ampio. Da molti anni Valère Novarina disegna le scene dei
suoi spettacoli: abbiamo la fortuna che oggi sia qui con noi. Lui stesso ci racconterà
qual è il percorso dalla pittura alla scena. Valère Novarina
Desidero ringraziare il Festival dAutunno, il Festival Intercity, Barbara
Nativi, e gli amici qui alla Pergola, che hanno fatto in due giorni un lavoro
fantastico. Grazie a Gioia Costa: è già il mio terzo libro che traduce,
e ieri lo ho visto nascere in scena attraverso la recitazione di Sandro Lombardi.
È stato un momento di forte emozione: litaliano è una lingua
che non capisco, ma non una lingua straniera. È comunque lidioma
che un tempo si parlava nella mia famiglia. Ho invece limpressione sia una
lingua che ho perduto, e che dimprovviso ritrovo nella traduzione di Gioia:
è molto bello vedere il passaggio da una lingua allaltra. La
traduzione è di per sé un lavoro poetico, perché apre voragini
tra le lingue, persino tra lingue vicine, e fa apparire lo spazio allinterno
delle parole, mostra ciò che le separa e ciò che le unisce. Si crea
un rapporto amoroso tra due lingue durante la traduzione: si respingono, si riavvicinano,
si sovrappongono, muri e abissi le separano. La traduzione di un testo è
qualcosa di commovente, non può avere niente di tecnico o di meccanico:
è perdere la propria lingua per attraversare le pause, i respiri, le volute
di unaltra lingua. Mi piacerebbe tradurre. I grandi scrittori francesi
del Seicento Racine, o La Fontaine - parlavano tutti litaliano; credo
che la pratica dellitaliano, il contatto con questo cugino sia
essenziale per gli scrittori francesi. Confrontarmi con litaliano può
darmi molto: queste due lingue sono come un albero e la sua ombra, unombra
doppia rispetto al latino. Ho sempre abitato il francese come una lingua
straniera: è lestraneità del francese, o più semplicemente
della lingua ciò che alimenta le mie domande. Questi viaggi, questi passaggi
da una lingua allaltra toccano il cuore dellestraneità della
parola. Sono molto contento che LAtelier volant sia stato tradotto, perché
si tratta del primo testo in cui, dimprovviso, ho incontrato il tema della
parola. NellAtelier cè la scena delle lingue o della parola:
malgrado la abbia scritta trenta anni fa, è una scena dalla quale non sono
mai uscito. Lì sono condannato a scavare in eterno, sebbene in modi diversi.
Può sembrare paradossale ma, per parlare di questo teatro che ruota attorno
alla parola, vi racconterò delle mie attività di disegno, scenografia
e pittura, che nutrono il lavoro della scrittura. Dopo LAtelier volante
ho smesso di scrivere veramente per il teatro: da allora in poi ho composto libri
di utopia teatrale. Il primo è stato Le Babil des classes dangereuses,
con 600 personaggi. I personaggi hanno iniziato ad accumularsi nei libri perché
non avevano più via duscita sulla scena. Era nato un teatro senza
racconto. Le Babil des classes dangereuses è un libro, ma i suoi 565 personaggi
chiedevano comunque unincarnazione, unesistenza altra rispetto al
testo, quindi ho iniziato a dare loro una forma. Dopo averne scritto a macchina
i nomi su alcuni fogli, li ho disegnati molto velocemente, con colori primitivi:
bianco, rosso, nero. Parallelamente al lavoro di scrittura, ho iniziato a fare
varie azioni di disegno: a Lione, a Fara dAdda, con un lavoro dal titolo
Il teatro separato, ovvero il teatro del disegno e il teatro del libro
non riuniti sulla scena. La stanza in cui disegnavo era come un piccolo laboratorio,
un mini atelier volant, con gli impiegati intenti a produrre carta: cera
il disegnatore, qualcuno che appendeva i fogli, qualcuno che li faceva asciugare.
Una decina di persone al lavoro. Alla fine dellazione cerano più
di mille e ventun disegni: la stanza ne era completamente ricoperta, sino al soffitto;
si aveva limpressione che fossero geroglifici, che si trattasse di sismografi,
elettrocardiogrammi e musica sul muro. Ho continuato a lungo a fare simili azioni,
fino al Festival della Rochelle, dove ho toccato la punta massima, producendo
2587 disegni in due giorni. Erano proprio i 2587 personaggi del Drame de la vie,
scritto dopo il Babil. In cima alla torre della Rochelle cera un grande
neon che indicava i 2587 personaggi: quella notte, tutte le luci del porto erano
state spente affinché lo si potesse vedere. Lintera torre era concepita
come una cassa di risonanza, uno strumento musicale: durante lelaborazione
dei disegni un gruppo di attori ripeteva in continuazione, come in una litania
perpetua, il nome di tutti i personaggi. Entrando nella torre, si vedeva, appesa,
la lista dei loro nomi: allepoca calcolai che cerano più personaggi
nel Drame de la vie che nella Bibbia; feci un calcolo in un dizionario dei personaggi
biblici, arrivando a questa conclusione. Lultimo personaggio ad entrare
nel Drame de la vie è il primo ad entrare nella Bibbia: Adamo. Il
disegnatore - che poi ero io - si trovava su una piattaforma piuttosto alta costruita
per loccasione, con una specie di tavolo in plexiglas che mostrava dal basso
il lavoro. Aveva bisogno del totale isolamento per produrre: con quel tavolo era
sì in vista, dato che lazione era pubblica, ma nondimeno era assolutamente
tranquillo. Non mi interessava il lato spettacolare né il fatto di disegnare
in pubblico, bensì la possibilità di avere molta manodopera attorno
a me che si occupasse dei disegni che producevo. Se si disegna da soli nel proprio
atelier, ben presto si è sommersi: ogni spazio è occupato, ogni
superficie è coperta di fogli. Invece, in questo caso cera chi prendeva
i fogli, chi li attaccava, chi li metteva ad asciugare. I disegni venivano sempre
eseguiti a china o con il bambù, il colore era nero o rosso, su fogli quasi
bianchi su ciascuno dei quali in precedenza era stato scritto a macchina il nome
del personaggio. Essendo deciso a fare 2587 disegni in due giorni, ogni tanto
scendevo nella sala in basso per disegnare, rapidissimamente, cinquanta fogli
trovati sul tavolo, per poi tornare a esecuzioni più accurate nella sala
espositiva dellazione disegno. Lultimo fu Adamo, apparso verso le
quattro del mattino. Successivamente quei disegni, incorniciati, sono stati
esposti in varie gallerie, a Parigi e i Francia. Recentemente sono stati di nuovo
tutti insieme a Orléans. Dopo il Drame de la vie mi sono vietato il plurale,
imponendo a me stesso di scrivere un libro con un solo personaggio: Le Discours
aux animaux. Ogni libro obbedisce a una sorta di regola che si fissa a poco a
poco, un imperativo per non rifare la stessa cosa. Mentre scrivevo Le Discours
aux animaux, avevo fatto unazione di pittura dal titolo La chambre
noire. Lintera galleria era coperta da un telo nero: ho dipinto per
due giorni, prima le figure bianche, poi le figure rosse. Ho disegnato sino al
soffitto; la galleria era diventata un dipinto allinterno del quale si poteva
camminare. Un dipinto abitabile. Per queste azioni dedico sempre molta attenzione
alla scelta dei mezzi tecnici - bambù, chine, colori, tele -, ma la vera
preparazione artistica consiste nelliniziare il quadro al mattino senza
avere la minima idea di quello che dipingerò: anche nel caso di La
chambre noire non avevo cartoni né progetti. Utilizzando le particolarità
strutturali e architettoniche del luogo si otteneva un effetto del tutto particolare:
le figure uscivano dagli angoli, come se fossero state create attraverso un percorso
interno della galleria, e sempre senza progetto. A terra cera una grande
figura: Breznev. Era il periodo della sua morte, e lo riconobbi nel personaggio
sdraiato al suolo. Dopo lazione della Chambre noire ho curato,
nel 1986, la messa in scena del Drame de la vie al Festival di Avignone. Lesperienza
della La chambre noire è riaffiorata, spingendomi a dipingere
grandi quadri ancora una volta senza cartoni preparatori, in bianco e nero, a
partire dal pavimento e su fino al cielo. Non volevo usare scale: tutto è
stato dipinto da terra mediante lunghe pertiche alle quali erano fissati i pennelli,
per mantenere un rapporto fisico con la tela, un rapporto che tenesse conto della
proporzione. La tela era molto più grande di me, ed io ero piccolo al suo
cospetto, dovevo allungare le mani per raggiungerla. Il soffitto, ad esempio,
è stato dipinto senza spostarlo dalla posizione in cui era, al di sopra
di me: benché fosse stato fatto scendere in basso, manteneva la sua posizione,
in modo tale che io lo dipingevo alzando il braccio. Ho voluto mantenere una relazione
autentica con lo spazio. Le figure del Drame de la vie sono grandi pannelli quadrati
di sei metri per sei, che ho usato come scene in teatro, al Théâtre
Municipal di Avignone: durante lo spettacolo i pannelli si muovevano formando
una grande diagonale, apparivano e scomparivano ritmando lazione. Anche
il pavimento era dipinto. Da allora in poi ho compiuto alternativamente attività
di scrittura, pittura e disegno, ma mai contemporaneamente. Ho sempre praticato
la pittura in serie: non ho mai dipinto una tela soltanto, ma sempre sei o dodici
in ununità di azione. Per esempio, a Caen mi sono chiuso per una
decina di giorni in un teatro con delle tele bianche che avevo ordinato e ho prodotto
una serie di disegni. Per Vous qui habitez le temps, nel 1989, ho dipinto su tele
dopera recuperate, risalenti al diciannovesimo secolo: lavorando su una
pittura preesistente, ho composto una sorta di caverna, foresta o luogo allucinatorio,
fuori dallo spazio. Sono gli spettatori ad abitare il tempo, così come
gli attori abitano il teatro. E il teatro mi sembra il luogo dove si può
condividere il tempo. A quellepoca mi hanno proposto di lavorare per
il video, con lelettronica: ho concepito allora una installazione di sedici
monitor televisivi, sui quali cerano quattro occhi di attori; linsieme
dei monitor era disposto in forma di mandorla, un cerchio allungato, che somigliava
alla forma dellocchio. Cerano quattro occhi di attori e quattro televisori
su cui appariva, composta con una tavolozza grafica, la scritta La lumière
nuit, una frase assolutamente intraducibile che vuol dire la luce
nuoce, ma anche la luce notte. Sugli altri monitor apparivano
e scomparivano dei disegni. Mi interessava il rapporto con il tempo, e ho apprezzato
la possibilità di utilizzare la tavolozza grafica, perché non era
chiaro se si fosse nel momento della distruzione o dellapparizione delle
cose: la tavolozza permetteva una pittura perpetua, che appariva e scompariva.
Volevo trovare una macchina che restituisse il tempo autentico della pittura,
lo svolgimento reale, e non accelerasse il lavoro. Ad ogni sequenza sul video
si poteva vedere mezzora di pittura, senza montaggio. Poi il titolo si cancellava
e riappariva di nuovo mentre unattrice, Roseliane Goldstein, leggeva in
maniera circolare le ultime pagine dellInquiétude, la versione per
la scena del Discours aux animaux. Gli attori, che avevano il permesso di battere
le palpebre, ma non di muovere la testa, erano stati filmati, o meglio solo i
loro occhi erano stati filmati, per mezzora senza interruzione e senza alcun
montaggio. Ciascun dipinto veniva distrutto e sostituito da un altro: non si capiva
se le cose stessero apparendo o svanendo. Il rapporto con il tempo è
fondamentale nelle azioni di disegno, nella pratica della pittura, nel lavoro
su video, ed è per questo che il teatro è al centro di tutto ciò:
lo chiamo il lavoro del tempo. Se in uno spettacolo non si è
lavorato sul tempo, non mi interessa; bisogna agguantare il tempo alla vita per
lavorarlo come si lavora la pasta, per farne apparire il plurale: trovo molto
bello che in francese la parola tempo, temps, abbia una
s finale. Il titolo Vous qui habitez le temps deriva da un salmo di
Davide: in una comune Bibbia, il salmo inizia con Voi che abitate il mondo,
ma nelle traduzioni latine più antiche cominciava con Homnes qui
habitatis tempus, ossia Voi che abitate il tempo, che è
una dizione molto più interessante. Ho confrontato loriginale ebraico,
che non riportava Voi che abitate il tempo, bensì Voi
che siete in piedi nel sospeso. Ho parlato a lungo agli attori di questo
stato di sospensione del teatro, del fatto che lattore fluttua e non poggia
su un sostegno stabile, e che il teatro è un altro stato della gravità,
un luogo dellantifisica: a teatro, non si è in un mondo naturale.
Nel corso delle mie pratiche di disegno, ho sempre cercato una fragilità
della pittura, unapparizione e sparizione dei tratti. La pittura in questo
è vicina al teatro, che è larte della fragilità e della
scomparsa. Vorrei scrivere un testo sul teatro, del quale non ho in mente
che il titolo, Demeure fragile. È questo ciò che si può dire
agli attori. Il teatro è un habitat leggero, un modo molto lieve di abitare
il mondo: rispetto allarchitettura, il teatro è una tenda leggera.
Il mio lavoro con gli attori consiste nel raccomandare loro che il tratto non
si appesantisca, che resti allo stadio di incisione o di disegno senza diventare
pittura, poiché col tempo la recitazione si irrigidisce, si cristallizza,
mentre bisogna ritrovare sempre il primo slancio delle cose. Quando scrivevo La
Chair de lhomme nel mio atelier, la scrittura e la pittura si alimentavano
a vicenda, e a poco a poco ho affisso il libro al muro, una pagina accanto allaltra.
Gran parte del mio lavoro è una deambulazione nel libro, con limpressione
che cambiando una parola in un punto cambierà la luce nel libro intero:
il testo deve essere lavorato come un quadro. In La Chair de lhomme il dipinto
interveniva molto lievemente. Era un quadro soffiato, una grande tela che ostruiva
lo spazio, si elevava e spariva: un dipinto in movimento nello spazio. La tela
era come un sipario che tendeva a scomparire durante le due ore e mezzo di spettacolo:
indietreggiava, cedeva un poco di spazio, poi permetteva di vedere tutto lo spazio
del teatro. Infine scompariva, per lasciar apparire unarchitettura autentica,
che è nel teatro. Nello spettacolo successivo, Le Jardin de reconnaissance,
recitato al Théâtre de lAthénée di Parigi, la
pittura era unicamente sul pavimento, al suolo. Appena visibile dallo spettatore.
Era come se tutto il linguaggio fosse caduto a terra, accumulato e divenuto pittura
caduta. Come se le parole pronunciate si fossero ammassate al suolo in una specie
di deposito, cadendo luna dopo laltra, simili alla neve. Quindi in
questo spettacolo la pittura era leggermente messa da parte, usata solo per il
pavimento. Dopo Le Jardin de reconnaissance ho deciso che nello spettacolo successivo
avrei dipinto soltanto i camerini degli attori. Dato che la lettura è
molto densa, e che stasera assisterete a una lettura, per non aggiungere altre
parole ho voluto affrontare questioni più concrete. Vi ho parlato dellattività
di pittura e disegno, ma avrei potuto parlare anche del lavoro della scrittura,
che è parallelo e si compie nel medesimo modo, perché cè
un momento nel quale le parole si capovolgono, così come si capovolge la
pittura, quando una macchia diventa una figura. La pratica della pittura mi ha
fatto prendere coscienza della straordinaria fisicità del linguaggio e
del fatto che gli attori sono come pittori: a mio avviso, sono grandi artisti,
non interpreti. Lavorando con Chatelain in Le Jardin de reconnaissance, ogni tanto
gli dicevo: Oggi hai lavorato come Soutine. Facendo un paragone tra
la pittura e il teatro, mi pare che il lavoro di rinnovamento, di rimessa in questione
della rappresentazione delluomo che è stato intrapreso dalla pittura
moderna - penso a Soutine o a Picasso - attaccando il ritratto, tutto il lavoro
di ricostruzione delluomo, sia stato fatto troppo poco in teatro. Il teatro
ha riprodotto limmagine delluomo ricevuta dal passato, mentre proprio
il teatro sarebbe un luogo straordinario per distruggere lidolo umano e
rifarlo da zero. Rifare luomo a partire dal linguaggio: talvolta, durante
il mio lavoro ho limpressione di lanciare parole che ricostituiscano luomo,
che contengano germi duomo atti a ricrearlo. È unantropogenesi
del teatro, che si fonde alla mia ossessione personale di vedere la parola: il
linguaggio si può vedere sui libri, e anche a teatro si vede il dramma
del linguaggio e dello spazio. Esiste un incrocio tra la parola e lo spazio che
da nessuna parte meglio che in teatro si può osservare: il teatro come
incrocio di tempo e spazio, incrocio della parola e dello spazio, luogo dove ritrovare
una percezione plurale, dove le percezioni separate riescono a incrociarsi altrimenti
e a ritrovarsi nel loro errare. Si arriva forse a riscoprire la percezione infantile
dellestraneità della lingua: estranea, e a noi consustanziale, perché
credo che noi siamo fatti della nostra lingua e delle nostre parole, che sono
come carne. Si ha limpressione che il corpo sia nostro, ma al tempo stesso
ci è estraneo. Si ha limpressione che lattore sia colui che
porta il suo corpo di parole davanti a sé. Lattore ci fa abitare
diversamente il nostro corpo: è un viaggio quello che ci invita a fare.
Un viaggio di uscita dal corpo umano. Domanda del pubblico Il rapporto
che lei stabilisce con la pittura e la parola è dettato da un movimento
inconscio, oppure obbedisce a una deliberata strategia di lavoro? Valère
Novarina Potrei esprimere la mia doppia attività di pittura e scrittura
con la formula: Dipingo per curarmi e scrivo per ritrovare il mio male.
La pittura ha un effetto curativo perché si rivolge al mondo esterno: dopo
una giornata fra fogli e colori la sera cè qualcosa sul muro, e sento
che mi ha fatto bene. Ma i miei dipinti sono anche destinati a dare forza agli
attori. Non concepisco il legame pittura-scrittura in maniera teorica, ma so che
una alimenta laltra. Esiste una frase di SantAgostino nel De Trinitate
che mi sembra penetri il cuore della questione: Il linguaggio si sente,
ma il pensiero si vede. È straordinario: di fronte a questa frase
sono come davanti al mio problema, al problema degli uomini. Non posso spiegarlo,
ma so che il legame fra le due è inestricabile. Pittura e scrittura si
alimentano a vicenda, sono luna assieme allaltra. Domanda del
pubblico Trenta anni dopo la Lettera agli attori qual è oggi la sua
idea della regia? Valère Novarina Ho sempre creduto che fosse lattore
a possedere il sapere profondo del testo: da quando ho fatto delle regie mi è
parso di sapere che non era per me il contatto straordinariamente profondo con
il testo che lattore invece possiede. Lattore è obbligato a
somatizzarlo, a respirarlo, a memorizzarlo completamente. Lattore ha il
contatto con il testo, non il regista. Lutopia, o la mia concezione di ciò
che dovrebbe essere la regia, è che tutto debba sorgere dal contatto tra
il testo e gli attori: se dirigo uno spettacolo, io devo favorire questo incontro
e, nella migliore delle ipotesi, devo essere il medico dellattore. Ma, come
un buon medico, non devo credere troppo nella medicina. Tutto fuoriesce dallattore;
è lui il vero creatore teatrale. Domanda del pubblico Dei suoi
testi tradotti in italiano, quale amerebbe vedere in scena? Valère
Novarina Nella messa in voce dello Spazio furioso e dellAtelier volante,ho
incontrato un attore con il quale avrei voglia di lavorare: abbiamo visto nascere
qualcosa ieri con Sandro Lombardi, e sarei felice che questavventura potesse
aprirsi ancora. Peraltro, non conosco molti attori italiani: una volta ho lavorato
un poco con Walter Malosti. Ma voi avete, in Italia, uno straordinario attore
con il quale lavoro mentalmente. Certo, è Carmelo Bene. La cosa più
commuovente fra quello che ho visto di lui (commuovente nel senso che mette il
cuore in marcia, lo fa muovere, trasforma in tempesta la neve morta che riposava
nella sfera di vetro dellanima
) la cosa che più mi ha commosso
è questultimo Pinocchio. Al Teatro dellAngelo,
il 10 novembre 1998, ho visto Carmelo Bene uscire da sé come uno shite
del teatro Nô e come un artista del circo. E poi, bisogna pur dirlo, non
cè niente di più bello del MITO DI PINOCCHIO. Val bene Faust
e Don Giovanni
Noi siamo dei Pinocchio a rovescio: siamo di legno e dobbiamo
liberarci di noi - liberarci delluomo e tornare ad essere maschere. Lattore
davanti a noi è un animale che non si sottomette allimmagine umana.
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