GIOIA COSTA CATALOGHI INCONTRO CON VALERE NOVARINA

Incontro con Valère Novarina,
introdotto da Renzo Tian e Gioia Costa
Firenze, Teatro della Pergola, 13 ottobre

Renzo Tian
Da questa giornata, presentata in collaborazione con il Festival Intercity che ringrazio, emerge il ritratto di una delle figure più interessanti e originali del teatro contemporaneo francese ed europeo. Valère Novarina è una personalità molto originale, da qualcuno ritenuta difficile, mentre io sono convinto del contrario. Parlare di Novarina significa anche riprendere, osservandola da una prospettiva diversa, una polemica che negli anni fra il ‘50 e il ’70, ma anche più tardi, ha investito il teatro italiano, cioè la diatriba, molto antica, sul tema della prevalenza del testo o dello spettacolo. Ho sempre ritenuto che, impostato così, questo fosse un falso problema, e che in realtà bisognasse cercare di pensare in termini diversi alla contrapposizione tra chi chiedeva che la parola - la parola nel senso del testo teatrale – fosse sovrana, e chi invece pretendeva che avesse la meglio lo spettacolo, la parte visiva e dell’immagine. Questo perché quando si usa l’espressione “parola” - la “parola-parola”, come dice da qualche parte Novarina -, si pensa a qualcosa di equivoco, in fondo. Che cosa è il testo teatrale, e che rilievo ha la parola, al suo interno? In ultima analisi, coloro che rivendicano l’importanza della parola la concepiscono come una serva: serva, ad esempio, del senso, logico o psicologico, ma non pensano mai a una parola veramente dominante, regina, sciolta quindi dagli obblighi di servire il senso, la logica o la psicologia. Bisognerebbe invece pensare, ed è quello che fa Novarina, a una parola realmente liberata dagli obblighi di servire, quindi a una parola padrona. Tutto il lavoro di Novarina, a partire dall’Atelier volant, tradotto in italiano da Gioia Costa ed edito nel 1968, vede la parola come padrona di tutto, svincolata dagli obblighi. Ne risulta una nuova immagine del rapporto fra la parola e il teatro, in cui tutto sommato l’attore, l’autore – i due termini per Novarina si confondono – hanno un atteggiamento di umiltà nei confronti della parola, che è qualche cosa a cui ci si sottomette; la parola pronunciata, la parola detta, la parola orale diventa di per sé qualcosa che assorbe tutto il resto: è posta al centro della scena e dell’attenzione. Esiste quindi una forte componente di umiltà. In Pendant la matière, un saggio sul teatro, mi ha molto colpito una frase che esprime molto bene e con grande chiarezza il concetto dell’umiltà di chi conferisce alla parola un’importanza che non è abituale né tradizionale. Dice Novarina: “Ci sono oggi persone molto intelligenti e molto informate che illuminano il lettore, gli dicono dove bisogna andare, dove va il progresso, cosa bisogna pensare e dove mettere i piedi. Io mi vedo piuttosto come colui che benda gli occhi, come qualcuno che è stato dotato di ignoranza, e che vorrebbe offrirla a quelli che ne sanno troppo. Un portatore d’ombra, qualcuno che mostra l’ombra a coloro che trovano che la scena sia troppo illuminata, qualcuno che è stato dotato di una mancanza, qualcuno che ha ricevuto qualcosa in meno”. Credo che in questa frase ci sia la chiave per capire tutto quello che Novarina ha fatto per il teatro: non li posso e non li voglio chiamare testi, perché non sono testi, ma sono qualche cosa di più e di diverso. La parola diventa vera nel momento dell’ascolto: ecco un’altra idea molto forte che emerge da tutto il lavoro di Novarina sulle parole. Ci sono frasi molto belle anche nell’introduzione scritta da Novarina per l’edizione italiana dell’Atelier volant, dei momenti in cui egli si sofferma su certe espressioni del dialetto savoiardo, che ama molto, per vedere che cosa c’è dietro alle parole, una volta che ci siamo abituati a considerarle importanti come oggetti: che cosa nascondono le parole, oltre al senso corrente, oltre al senso che noi siamo abituati a dar loro nei nostri rapporti. La parola non è soltanto comunicazione, non serve solo a mettere in rapporto, ma anche a farci scoprire tutta la ricchezza che c’è dentro ciascuna parola, oltre al senso.

Gioia Costa
Sono molto felice che in questa edizione fiorentina del Festival d’Autunno, un quadro cosí importante per la diffusione della drammaturgia contemporanea in Italia, sia stato invitato proprio Valère Novarina.
È significativo che la lettura di questa sera veda Valère Novarina insieme a Sandro Lombardi. Sia per l’attenzione che Lombardi ha da sempre dimostrato nella scelta degli autori, coraggiosa e sostenuta con rigore continuo, sia per la differenza tra il lavoro di Novarina e il modo in cui Sandro Lombardi può interpretarlo, come vedremo piú tardi. L’incontro di due personalità tanto diverse, ma unite da una comune passione per la parola, mi sembra particolarmente fecondo.
La scrittura di Novarina si distingue già alla lettura per una differenza importante: nel suo teatro gli attori non incarnano personaggi. Semmai figure. I personaggi o non ci sono o si annullano per eccesso. Lunghi mononoghi, figure retoriche assunte al ruolo di voce parlante o folle di nomi impossibili da rappresentare: un personaggio vero e proprio ha perduto senso nella scrittura.
Questa prima particolarità si chiarisce analizzando una ossessione tematica di Valère Novarina: violare la lingua. Infatti desidera spogliarla dai vizi e dagli automatismi, rivelando il vuoto delle frasi fatte e rendendo palese tutto ciò che l’ha resa rigida e impettita.
Possiamo isolare tre modalità compositive ricorrenti nella sua pagina: la ripetizione, la nominazione, la numerazione, che sono tre forme diverse di elenco, di lista. La ripetizione, come nei giochi dei bambini, è un modo per arrivare ad una tecnica divinatoria della scrittura: ripetendo molte volte un termine questo finisce con il perdere il suo senso e resta solo come veste sonora. Piú la ripetizione è lunga piú l’incantesimo del suono insensato acquista una forza impressiva.
La nominazione invece può essere definita una forma di chiamata alla voce delle cose: nominando chiama le figure e gli esseri del suo teatro affinché appaiano in scena. Novarina desidera che la parola non sia uno strumento per far passare, come nei vasi comunicanti, solo del senso, ma che riacquisti la sua carne, la sua opacità sonora, la sua densità.
La numerazione, infine, è un modo di disporre nello spazio dei frammenti di lingua. Ogni numerazione vorrebbe arrivare a una fine, ed è quindi destinata a fallire. I numeri che si incatenano l’uno all’altro sono dei cantici mancati e delle condanne alla perpetuità. Numerando, dissemina cifre per ritrovare segni del suo passaggio, per non perdersi nelle parole.
Ma qual è la genesi della sua scrittura? Novarina ha detto una volta: "Quando scrivo faccio il vuoto e se non ci riesco riscrivo maniacalmente finché la scrittura mi oltrepassi, si impossessi di me e vada sola". È naturalmente un’esagerazione, una sfida a forze inesistenti, un rapporto con la pagina che sconfina nel sacrale e nel mitico. Eppure, come avviene nel mito, anche nel suo teatro il nome è la sostanza del personaggio. Siamo di fronte a un’impostazione epica della scena, perché nei testi di Novarina il racconto coincide con l’azione, o meglio sostituisce l’azione, come nella chiamata alla voce dei 2587 personaggi del Drame de la vie, che sono naturalmente irrappresentabili. E potremmo dire che questa è una forma moderna di teatro liturgico, se per liturgia si intende la ripetizione rituale di un evento mitico. La nostalgia dell’unità, ormai perduta per sempre, fra il corpo e la voce, la nostalgia per un senso della parola che torni ad essere originario ha spinto Novarina a condannare la comunicazione di tutto a tutte le ore e dappertutto. Televisioni, fax, e-mail, segreterie telefoniche, telefonini: non c’è più nulla da trasmettere. Oggi non esiste piú la parola, soffocata dal commento di qualsiasi cosa. Siamo circondati da un perenne rumore di fondo.
Contro la comunicazione dilagante, o meglio contro la televisione ha scritto un testo molto bello, pubblicato in All’attore: Entrata nel teatro delle orecchie. Lí definisce la televisione “la cattedrale del XX° secolo”, piccolo altare domestico che emana un alone cadaverico imbrattando le pareti con il suo azzurrino funereo e intermittente. Quella stessa televisione che in Heimat Reiss fa definire all’anziana Maria "l’ombra della morte", Novarina la liquida con l’immagine del rosone domestico utile a funzioni simulate e messe sconsacrate.
Per Novarina lo scambio di informazioni indiscriminato funziona per contagio: ammala e vizia l’ascolto, inibisce il silenzio e il pensiero. E allora riscrivendo maniacalmente è come se cercasse di raggiungere una specie di trance nella rielaborazione, che si avverte già nella pagina: leggendo il suo teatro si sa subito che non è possibile affrontarlo con gli schemi tradizionali della scena. Innanzitutto perché l’ascolto si impone, e crea un vero e proprio percorso orale, indifferente allo svolgimento narrativo della storia. Non ci sono virtuosismi né invenzioni forti: schegge di dialetto savoiardo, echi di lingue antiche, brani di memoria latina danno corpo a una nuova creatura orale, che conserva una radice etimologica precisa come a dichiarare a sua estraneità al gioco di parole.
Ma parliamo dell’Atelier volante, che oggi siamo qui per presentare. Novarina lo ha scritto nel 1968 ed è il suo primo testo teatrale. Abbiamo scelto di tradurlo perché L’atelier ha ancora una scansione in atti e scene, un numero ragionevole di personaggi, nove in tutto, e permette di avvicinarsi piú dolcemente a una scrittura considerata difficile; penso d’altronde sia un po’ semplicistico definirla tale. È una scrittura la cui novità si enuncia nell’aver stabilito regole diverse con la scena e con la recitazione. D’altronde, la “nuova drammaturgia” si definisce non dall’anno di creazione dell’opera ma dal potenziale spostamento dei codici teatrali che contiene al suo interno. E, se questo è vero, la scrittura di Novarina è fra le piú nuove che si possano leggere.
L’atelier volante è la “fabbrica del teatro” di Novarina, una micro-istituzione totale in cui il circuito produzione-consumo-riproduzione funziona a pieno ritmo e in ogni direzione. Nell’atelier si fabbricano cappelli di carta, giocattoli da spiaggia, strani e inutili oggetti. Ma in realtà ciò che si produce, si consuma e si riproduce non è soltanto la vita sociale, ma quel grande corpo di desideri e bisogni rappresentato dalla lingua. Ma cosa accade? Una coppia di padroni, Boucot e Madame Bouche, si nutre del lavoro di sei impiegati talmente privi di identità da aver perso il diritto al nome proprio. Sono infatti indicati con le lettere dell'alfabeto ABC, DEF. Boucot è un essere onnivoro, nel quale si possono riconoscere echi dell’Ubu di Jarry. È ossessionato dal desiderio incontrollabile di aumentare la produzione, la vendita e il guadagno, quindi continua ad accelerare la ruota che scandisce i tempi del lavoro per aumentare il ritmo degli impiegati. Madame Bouche è invece ossessionata dal denaro, e rivende agli impiegati ogni loro prodotto appena arriva la sera e si chiude l’atelier.
Boucot manipola la sintassi e, con questa, governa. Mentre Madame Bouche, regina del mercato, regna. Infatti lei non è ossessionata dal Senso e adotta l’atteggiamento che piú conviene alle diverse circostanze per perseguire il suo scopo, avere piú denaro. Cosí Madame Bouche afferma la sua indifferenza al Simbolico di cui, invece, Boucot non può fare a meno.
L’atelier volante è un testo di una comicità fredda ma molto divertente, che contiene una potente metafora del teatro. Ci sono infatti due immagini del regista-padrone, una visibile e l’altra invisibile. L’immagine visibile del regista è naturalmente consegnata a Boucot e a Madame Bouche, due emblemi del padrone che tutto controlla: l’unica cosa che sfugge loro è il luogo in cui si forma la lingua degli impiegati, quel buco dal quale escono parole e suoni che si contrappongono alla lingua del padrone. L’immagine invisibile del regista è invece consegnata alla Lettera agli attori, che è una specie di diario delle prove dello spettacolo.
La leggenda narra che Novarina, allontanato dalle prove dal regista Sarrazac, abbia scritto in una notte la Lettera agli attori. Nata come invettiva contro la regia, è in realtà un complemento critico del copione e una riflessione profonda sull’attore, che custodisce il mistero della propria differenza.
Il conflitto fra padroni e impiegati, che è lo specchio del conflitto fra personaggi, viene qui riflesso nel conflitto fra il regista e gli attori. Insomma, con Valère Novarina il teatro comincia ad essere messo in discussione dalla lingua: esiste una lingua che comanda e una lingua comandata. Tutto ciò rivela non solo l'opposizione delle classi ma l'irrimediabile estraneità dei linguaggi, che rende impossibile ogni comunicazione. E l'eccesso teatrale che emerge nella scrittura, questa proliferazione di immagini verbali o vitali fa sí che Novarina individui nella parola la tragedia dell’esistenza e della sua crudeltà, avvicinandosi cosí a un altro grande pensiero del Novecento, quello di Antonin Artaud.
Ogni essere, per nascere e venire al mondo, deve sopprimerne un altro, deve cercare di soddisfare il suo appetito vitale mangiando la vita di un altro. Non a caso, negli scritti di Novarina si trova frequentemente il verbo mangiare. Mangiare è l’atto estremo dell’affermazione della volontà di vita, e il “dramma della vita” consiste nell’alternanza di pieno e vuoto e nella tragedia della divisione degli esseri. Un testo si chiama addirittura Le Repas, e contiene l’immagine del divorare la vita mentre si è da essa divorati. Artaud aveva affidato all’“attore-folle” -guidato però da un regista demiurgo- il compito di rivoluzionare radicalmente la scena attraverso l’espressione totale dell’energia corporea. Il soffio vitale e l’urlo al di là della parola sono i motivi centrali della crudeltà metafisica del teatro descritta da Artaud.
L’eccesso e la proliferazione non soltanto verbale ma anche fisica, che Novarina dispiega nelle sue pagine, destituisce di senso l’ordine logico della scena, impone l’invenzione di una nuova grammatica e capovolge le abitudini e le attese dello spettatore.
Ora, il problema è come rendere questo lavoro sulla lingua in un’altra lingua. Tradurre una scrittura cosí composta è un po’ una scommessa. Michel Foucault aveva avuto un’immaggine molto bella: parlando della traduzione dell’Eneide ad opera di Pierre Klossowski, aveva individuato una differenza fra le traduzioni laterali e le traduzioni verticali. Le traduzioni laterali sono quelle che fanno scivolare masse di senso da un libro all’altro, passando sopra la rilegatura del libro, mentre le traduzioni verticali tengono conto dell’eco che una parola, cadendo in un punto della pagina, provoca attorno a sé, ovvero di tutto un riverbero di senso, e dopo di suono, e dopo ancora di significato, che ogni parola genera. A me sembra un’idea illuminante; proprio leggendo, ascoltando i testi prima di tradurli è possibile sentire che spesso c’è un ritmo battuto nella prosa, una scansione secca. E allora penso che per uscire dal vicolo cieco generato ancora una volta da un gioco di parole, traduzione-tradimento, sia bene spostare il problema dalla fedeltà (che così posto, per restare con Michel Foucault, è il problema delle traduzioni laterali) alla ricerca di equivalenze: credo si debba trovare un equivalente ritmico di sottofondo, che possa rendere nella nuova lingua la tessitura dell’originale.
Come giustamente sottolineava poco fa Renzo Tian, le parole non sono serventi, non sono sottomesse unicamente al senso o alla logica. Infatti, quando nominiamo una cosa in una lingua non è detto che appaia la stessa cosa in un’altra lingua: chiamare una parola in un contesto linguistico può far emergere sulla pagina creature diverse quando il contesto cambia, quindi bisogna ascoltare con molta attenzione e cercare di vedere l’intero testo come un insieme compiuto e non come frammenti uniti dalla loro contiguità.
In un piccolo preziosissimo libro sulla scrittura, Il piacere del testo, Roland Barthes a un certo punto dice che "ciò che si perde nella trascrizione è semplicemente il corpo", perché la trascrizione e la traduzione sono forme di trasposizione che allontanano l’oggetto dal discorso che se ne fa. E allora, cosa fare per 'salvarÈ il corpo di una lingua? Credo che una delle cose piú importanti sia far sentire in italiano il movimento dell’originale. Perché il movimento di una lingua è parte del suo corpo.
Bisogna quindi cercare di ottenere un’equivalenza che tenga conto del lavoro linguistico e di ciò che si è prodotto nella pagina, un’equivalenza che renda possibile ritrovare la pasta della lingua. È possibile riuscirvi ripetendo la stessa operazione: scegliendo fra le lingue le forme piú arborescenti, le piú originarie e le piú vaste, cercando di restituire in italiano l'esperienza del respiro ampio.
Da molti anni Valère Novarina disegna le scene dei suoi spettacoli: abbiamo la fortuna che oggi sia qui con noi. Lui stesso ci racconterà qual è il percorso dalla pittura alla scena.
Valère Novarina
Desidero ringraziare il Festival d’Autunno, il Festival Intercity, Barbara Nativi, e gli amici qui alla Pergola, che hanno fatto in due giorni un lavoro fantastico. Grazie a Gioia Costa: è già il mio terzo libro che traduce, e ieri lo ho visto nascere in scena attraverso la recitazione di Sandro Lombardi. È stato un momento di forte emozione: l’italiano è una lingua che non capisco, ma non una lingua straniera. È comunque l’idioma che un tempo si parlava nella mia famiglia. Ho invece l’impressione sia una lingua che ho perduto, e che d’improvviso ritrovo nella traduzione di Gioia: è molto bello vedere il passaggio da una lingua all’altra.
La traduzione è di per sé un lavoro poetico, perché apre voragini tra le lingue, persino tra lingue vicine, e fa apparire lo spazio all’interno delle parole, mostra ciò che le separa e ciò che le unisce. Si crea un rapporto amoroso tra due lingue durante la traduzione: si respingono, si riavvicinano, si sovrappongono, muri e abissi le separano. La traduzione di un testo è qualcosa di commovente, non può avere niente di tecnico o di meccanico: è perdere la propria lingua per attraversare le pause, i respiri, le volute di un’altra lingua. Mi piacerebbe tradurre.
I grandi scrittori francesi del Seicento – Racine, o La Fontaine - parlavano tutti l’italiano; credo che la pratica dell’italiano, il contatto con questo “cugino” sia essenziale per gli scrittori francesi. Confrontarmi con l’italiano può darmi molto: queste due lingue sono come un albero e la sua ombra, un’ombra doppia rispetto al latino.
Ho sempre abitato il francese come una lingua straniera: è l’estraneità del francese, o più semplicemente della lingua ciò che alimenta le mie domande. Questi viaggi, questi passaggi da una lingua all’altra toccano il cuore dell’estraneità della parola. Sono molto contento che L’Atelier volant sia stato tradotto, perché si tratta del primo testo in cui, d’improvviso, ho incontrato il tema della parola. Nell’Atelier c’è la scena delle lingue o della parola: malgrado la abbia scritta trenta anni fa, è una scena dalla quale non sono mai uscito. Lì sono condannato a scavare in eterno, sebbene in modi diversi. Può sembrare paradossale ma, per parlare di questo teatro che ruota attorno alla parola, vi racconterò delle mie attività di disegno, scenografia e pittura, che nutrono il lavoro della scrittura. Dopo L’Atelier volante ho smesso di scrivere veramente per il teatro: da allora in poi ho composto libri di utopia teatrale. Il primo è stato Le Babil des classes dangereuses, con 600 personaggi. I personaggi hanno iniziato ad accumularsi nei libri perché non avevano più via d’uscita sulla scena. Era nato un teatro senza racconto. Le Babil des classes dangereuses è un libro, ma i suoi 565 personaggi chiedevano comunque un’incarnazione, un’esistenza altra rispetto al testo, quindi ho iniziato a dare loro una forma. Dopo averne scritto a macchina i nomi su alcuni fogli, li ho disegnati molto velocemente, con colori primitivi: bianco, rosso, nero. Parallelamente al lavoro di scrittura, ho iniziato a fare varie azioni di disegno: a Lione, a Fara d’Adda, con un lavoro dal titolo “Il teatro separato”, ovvero il teatro del disegno e il teatro del libro non riuniti sulla scena. La stanza in cui disegnavo era come un piccolo laboratorio, un mini atelier volant, con gli impiegati intenti a produrre carta: c’era il disegnatore, qualcuno che appendeva i fogli, qualcuno che li faceva asciugare. Una decina di persone al lavoro. Alla fine dell’azione c’erano più di mille e ventun disegni: la stanza ne era completamente ricoperta, sino al soffitto; si aveva l’impressione che fossero geroglifici, che si trattasse di sismografi, elettrocardiogrammi e musica sul muro. Ho continuato a lungo a fare simili azioni, fino al Festival della Rochelle, dove ho toccato la punta massima, producendo 2587 disegni in due giorni. Erano proprio i 2587 personaggi del Drame de la vie, scritto dopo il Babil. In cima alla torre della Rochelle c’era un grande neon che indicava i 2587 personaggi: quella notte, tutte le luci del porto erano state spente affinché lo si potesse vedere. L’intera torre era concepita come una cassa di risonanza, uno strumento musicale: durante l’elaborazione dei disegni un gruppo di attori ripeteva in continuazione, come in una litania perpetua, il nome di tutti i personaggi. Entrando nella torre, si vedeva, appesa, la lista dei loro nomi: all’epoca calcolai che c’erano più personaggi nel Drame de la vie che nella Bibbia; feci un calcolo in un dizionario dei personaggi biblici, arrivando a questa conclusione. L’ultimo personaggio ad entrare nel Drame de la vie è il primo ad entrare nella Bibbia: Adamo.
Il disegnatore - che poi ero io - si trovava su una piattaforma piuttosto alta costruita per l’occasione, con una specie di tavolo in plexiglas che mostrava dal basso il lavoro. Aveva bisogno del totale isolamento per produrre: con quel tavolo era sì in vista, dato che l’azione era pubblica, ma nondimeno era assolutamente tranquillo. Non mi interessava il lato spettacolare né il fatto di disegnare in pubblico, bensì la possibilità di avere molta manodopera attorno a me che si occupasse dei disegni che producevo. Se si disegna da soli nel proprio atelier, ben presto si è sommersi: ogni spazio è occupato, ogni superficie è coperta di fogli. Invece, in questo caso c’era chi prendeva i fogli, chi li attaccava, chi li metteva ad asciugare. I disegni venivano sempre eseguiti a china o con il bambù, il colore era nero o rosso, su fogli quasi bianchi su ciascuno dei quali in precedenza era stato scritto a macchina il nome del personaggio. Essendo deciso a fare 2587 disegni in due giorni, ogni tanto scendevo nella sala in basso per disegnare, rapidissimamente, cinquanta fogli trovati sul tavolo, per poi tornare a esecuzioni più accurate nella sala espositiva dell’azione disegno. L’ultimo fu Adamo, apparso verso le quattro del mattino.
Successivamente quei disegni, incorniciati, sono stati esposti in varie gallerie, a Parigi e i Francia. Recentemente sono stati di nuovo tutti insieme a Orléans. Dopo il Drame de la vie mi sono vietato il plurale, imponendo a me stesso di scrivere un libro con un solo personaggio: Le Discours aux animaux. Ogni libro obbedisce a una sorta di regola che si fissa a poco a poco, un imperativo per non rifare la stessa cosa. Mentre scrivevo Le Discours aux animaux, avevo fatto un’azione di pittura dal titolo “La chambre noire”. L’intera galleria era coperta da un telo nero: ho dipinto per due giorni, prima le figure bianche, poi le figure rosse. Ho disegnato sino al soffitto; la galleria era diventata un dipinto all’interno del quale si poteva camminare. Un dipinto abitabile. Per queste azioni dedico sempre molta attenzione alla scelta dei mezzi tecnici - bambù, chine, colori, tele -, ma la vera preparazione artistica consiste nell’iniziare il quadro al mattino senza avere la minima idea di quello che dipingerò: anche nel caso di “La chambre noire” non avevo cartoni né progetti. Utilizzando le particolarità strutturali e architettoniche del luogo si otteneva un effetto del tutto particolare: le figure uscivano dagli angoli, come se fossero state create attraverso un percorso interno della galleria, e sempre senza progetto. A terra c’era una grande figura: Breznev. Era il periodo della sua morte, e lo riconobbi nel personaggio sdraiato al suolo. Dopo l’azione della “Chambre noire” ho curato, nel 1986, la messa in scena del Drame de la vie al Festival di Avignone. L’esperienza della “La chambre noire” è riaffiorata, spingendomi a dipingere grandi quadri ancora una volta senza cartoni preparatori, in bianco e nero, a partire dal pavimento e su fino al cielo. Non volevo usare scale: tutto è stato dipinto da terra mediante lunghe pertiche alle quali erano fissati i pennelli, per mantenere un rapporto fisico con la tela, un rapporto che tenesse conto della proporzione. La tela era molto più grande di me, ed io ero piccolo al suo cospetto, dovevo allungare le mani per raggiungerla. Il soffitto, ad esempio, è stato dipinto senza spostarlo dalla posizione in cui era, al di sopra di me: benché fosse stato fatto scendere in basso, manteneva la sua posizione, in modo tale che io lo dipingevo alzando il braccio. Ho voluto mantenere una relazione autentica con lo spazio. Le figure del Drame de la vie sono grandi pannelli quadrati di sei metri per sei, che ho usato come scene in teatro, al Théâtre Municipal di Avignone: durante lo spettacolo i pannelli si muovevano formando una grande diagonale, apparivano e scomparivano ritmando l’azione. Anche il pavimento era dipinto. Da allora in poi ho compiuto alternativamente attività di scrittura, pittura e disegno, ma mai contemporaneamente. Ho sempre praticato la pittura in serie: non ho mai dipinto una tela soltanto, ma sempre sei o dodici in un’unità di azione. Per esempio, a Caen mi sono chiuso per una decina di giorni in un teatro con delle tele bianche che avevo ordinato e ho prodotto una serie di disegni. Per Vous qui habitez le temps, nel 1989, ho dipinto su tele d’opera recuperate, risalenti al diciannovesimo secolo: lavorando su una pittura preesistente, ho composto una sorta di caverna, foresta o luogo allucinatorio, fuori dallo spazio. Sono gli spettatori ad abitare il tempo, così come gli attori abitano il teatro. E il teatro mi sembra il luogo dove si può condividere il tempo.
A quell’epoca mi hanno proposto di lavorare per il video, con l’elettronica: ho concepito allora una installazione di sedici monitor televisivi, sui quali c’erano quattro occhi di attori; l’insieme dei monitor era disposto in forma di mandorla, un cerchio allungato, che somigliava alla forma dell’occhio. C’erano quattro occhi di attori e quattro televisori su cui appariva, composta con una tavolozza grafica, la scritta “La lumière nuit”, una frase assolutamente intraducibile che vuol dire “la luce nuoce”, ma anche “la luce notte”. Sugli altri monitor apparivano e scomparivano dei disegni. Mi interessava il rapporto con il tempo, e ho apprezzato la possibilità di utilizzare la tavolozza grafica, perché non era chiaro se si fosse nel momento della distruzione o dell’apparizione delle cose: la tavolozza permetteva una pittura perpetua, che appariva e scompariva. Volevo trovare una macchina che restituisse il tempo autentico della pittura, lo svolgimento reale, e non accelerasse il lavoro. Ad ogni sequenza sul video si poteva vedere mezz’ora di pittura, senza montaggio. Poi il titolo si cancellava e riappariva di nuovo mentre un’attrice, Roseliane Goldstein, leggeva in maniera circolare le ultime pagine dell’Inquiétude, la versione per la scena del Discours aux animaux. Gli attori, che avevano il permesso di battere le palpebre, ma non di muovere la testa, erano stati filmati, o meglio solo i loro occhi erano stati filmati, per mezz’ora senza interruzione e senza alcun montaggio. Ciascun dipinto veniva distrutto e sostituito da un altro: non si capiva se le cose stessero apparendo o svanendo.
Il rapporto con il tempo è fondamentale nelle azioni di disegno, nella pratica della pittura, nel lavoro su video, ed è per questo che il teatro è al centro di tutto ciò: lo chiamo “il lavoro del tempo”. Se in uno spettacolo non si è lavorato sul tempo, non mi interessa; bisogna agguantare il tempo alla vita per lavorarlo come si lavora la pasta, per farne apparire il plurale: trovo molto bello che in francese la parola “tempo”, “temps”, abbia una “s” finale. Il titolo Vous qui habitez le temps deriva da un salmo di Davide: in una comune Bibbia, il salmo inizia con “Voi che abitate il mondo”, ma nelle traduzioni latine più antiche cominciava con “Homnes qui habitatis tempus”, ossia “Voi che abitate il tempo”, che è una dizione molto più interessante. Ho confrontato l’originale ebraico, che non riportava “Voi che abitate il tempo”, bensì “Voi che siete in piedi nel sospeso”. Ho parlato a lungo agli attori di questo stato di sospensione del teatro, del fatto che l’attore fluttua e non poggia su un sostegno stabile, e che il teatro è un altro stato della gravità, un luogo dell’antifisica: a teatro, non si è in un mondo naturale.
Nel corso delle mie pratiche di disegno, ho sempre cercato una fragilità della pittura, un’apparizione e sparizione dei tratti. La pittura in questo è vicina al teatro, che è l’arte della fragilità e della scomparsa.
Vorrei scrivere un testo sul teatro, del quale non ho in mente che il titolo, Demeure fragile. È questo ciò che si può dire agli attori. Il teatro è un habitat leggero, un modo molto lieve di abitare il mondo: rispetto all’architettura, il teatro è una tenda leggera. Il mio lavoro con gli attori consiste nel raccomandare loro che il tratto non si appesantisca, che resti allo stadio di incisione o di disegno senza diventare pittura, poiché col tempo la recitazione si irrigidisce, si cristallizza, mentre bisogna ritrovare sempre il primo slancio delle cose. Quando scrivevo La Chair de l’homme nel mio atelier, la scrittura e la pittura si alimentavano a vicenda, e a poco a poco ho affisso il libro al muro, una pagina accanto all’altra. Gran parte del mio lavoro è una deambulazione nel libro, con l’impressione che cambiando una parola in un punto cambierà la luce nel libro intero: il testo deve essere lavorato come un quadro. In La Chair de l’homme il dipinto interveniva molto lievemente. Era un quadro soffiato, una grande tela che ostruiva lo spazio, si elevava e spariva: un dipinto in movimento nello spazio. La tela era come un sipario che tendeva a scomparire durante le due ore e mezzo di spettacolo: indietreggiava, cedeva un poco di spazio, poi permetteva di vedere tutto lo spazio del teatro. Infine scompariva, per lasciar apparire un’architettura autentica, che è nel teatro. Nello spettacolo successivo, Le Jardin de reconnaissance, recitato al Théâtre de l’Athénée di Parigi, la pittura era unicamente sul pavimento, al suolo. Appena visibile dallo spettatore. Era come se tutto il linguaggio fosse caduto a terra, accumulato e divenuto pittura caduta. Come se le parole pronunciate si fossero ammassate al suolo in una specie di deposito, cadendo l’una dopo l’altra, simili alla neve. Quindi in questo spettacolo la pittura era leggermente messa da parte, usata solo per il pavimento. Dopo Le Jardin de reconnaissance ho deciso che nello spettacolo successivo avrei dipinto soltanto i camerini degli attori.
Dato che la lettura è molto densa, e che stasera assisterete a una lettura, per non aggiungere altre parole ho voluto affrontare questioni più concrete. Vi ho parlato dell’attività di pittura e disegno, ma avrei potuto parlare anche del lavoro della scrittura, che è parallelo e si compie nel medesimo modo, perché c’è un momento nel quale le parole si capovolgono, così come si capovolge la pittura, quando una macchia diventa una figura. La pratica della pittura mi ha fatto prendere coscienza della straordinaria fisicità del linguaggio e del fatto che gli attori sono come pittori: a mio avviso, sono grandi artisti, non interpreti. Lavorando con Chatelain in Le Jardin de reconnaissance, ogni tanto gli dicevo: “Oggi hai lavorato come Soutine”. Facendo un paragone tra la pittura e il teatro, mi pare che il lavoro di rinnovamento, di rimessa in questione della rappresentazione dell’uomo che è stato intrapreso dalla pittura moderna - penso a Soutine o a Picasso - attaccando il ritratto, tutto il lavoro di ricostruzione dell’uomo, sia stato fatto troppo poco in teatro. Il teatro ha riprodotto l’immagine dell’uomo ricevuta dal passato, mentre proprio il teatro sarebbe un luogo straordinario per distruggere l’idolo umano e rifarlo da zero.
Rifare l’uomo a partire dal linguaggio: talvolta, durante il mio lavoro ho l’impressione di lanciare parole che ricostituiscano l’uomo, che contengano germi d’uomo atti a ricrearlo. È un’antropogenesi del teatro, che si fonde alla mia ossessione personale di vedere la parola: il linguaggio si può vedere sui libri, e anche a teatro si vede il dramma del linguaggio e dello spazio. Esiste un incrocio tra la parola e lo spazio che da nessuna parte meglio che in teatro si può osservare: il teatro come incrocio di tempo e spazio, incrocio della parola e dello spazio, luogo dove ritrovare una percezione plurale, dove le percezioni separate riescono a incrociarsi altrimenti e a ritrovarsi nel loro errare. Si arriva forse a riscoprire la percezione infantile dell’estraneità della lingua: estranea, e a noi consustanziale, perché credo che noi siamo fatti della nostra lingua e delle nostre parole, che sono come carne. Si ha l’impressione che il corpo sia nostro, ma al tempo stesso ci è estraneo. Si ha l’impressione che l’attore sia colui che porta il suo corpo di parole davanti a sé. L’attore ci fa abitare diversamente il nostro corpo: è un viaggio quello che ci invita a fare. Un viaggio di uscita dal corpo umano.
Domanda del pubblico
Il rapporto che lei stabilisce con la pittura e la parola è dettato da un movimento inconscio, oppure obbedisce a una deliberata strategia di lavoro?
Valère Novarina
Potrei esprimere la mia doppia attività di pittura e scrittura con la formula: “Dipingo per curarmi e scrivo per ritrovare il mio male”. La pittura ha un effetto curativo perché si rivolge al mondo esterno: dopo una giornata fra fogli e colori la sera c’è qualcosa sul muro, e sento che mi ha fatto bene. Ma i miei dipinti sono anche destinati a dare forza agli attori. Non concepisco il legame pittura-scrittura in maniera teorica, ma so che una alimenta l’altra. Esiste una frase di Sant’Agostino nel De Trinitate che mi sembra penetri il cuore della questione: “Il linguaggio si sente, ma il pensiero si vede”. È straordinario: di fronte a questa frase sono come davanti al mio problema, al problema degli uomini. Non posso spiegarlo, ma so che il legame fra le due è inestricabile. Pittura e scrittura si alimentano a vicenda, sono l’una assieme all’altra.
Domanda del pubblico
Trenta anni dopo la Lettera agli attori qual è oggi la sua idea della regia?
Valère Novarina
Ho sempre creduto che fosse l’attore a possedere il sapere profondo del testo: da quando ho fatto delle regie mi è parso di sapere che non era per me il contatto straordinariamente profondo con il testo che l’attore invece possiede. L’attore è obbligato a somatizzarlo, a respirarlo, a memorizzarlo completamente. L’attore ha il contatto con il testo, non il regista. L’utopia, o la mia concezione di ciò che dovrebbe essere la regia, è che tutto debba sorgere dal contatto tra il testo e gli attori: se dirigo uno spettacolo, io devo favorire questo incontro e, nella migliore delle ipotesi, devo essere il medico dell’attore. Ma, come un buon medico, non devo credere troppo nella medicina. Tutto fuoriesce dall’attore; è lui il vero creatore teatrale.
Domanda del pubblico
Dei suoi testi tradotti in italiano, quale amerebbe vedere in scena?
Valère Novarina
Nella messa in voce dello Spazio furioso e dell’Atelier volante,ho incontrato un attore con il quale avrei voglia di lavorare: abbiamo visto nascere qualcosa ieri con Sandro Lombardi, e sarei felice che quest’avventura potesse aprirsi ancora. Peraltro, non conosco molti attori italiani: una volta ho lavorato un poco con Walter Malosti. Ma voi avete, in Italia, uno straordinario attore con il quale lavoro mentalmente. Certo, è Carmelo Bene. La cosa più commuovente fra quello che ho visto di lui (commuovente nel senso che mette il cuore in marcia, lo fa muovere, trasforma in tempesta la neve morta che riposava nella sfera di vetro dell’anima…) la cosa che più mi ha commosso è quest’ultimo “Pinocchio”.
Al Teatro dell’Angelo, il 10 novembre 1998, ho visto Carmelo Bene uscire da sé come uno shite del teatro Nô e come un artista del circo. E poi, bisogna pur dirlo, non c’è niente di più bello del MITO DI PINOCCHIO. Val bene Faust e Don Giovanni… Noi siamo dei Pinocchio a rovescio: siamo di legno e dobbiamo liberarci di noi - liberarci dell’uomo e tornare ad essere maschere. L’attore davanti a noi è un animale che non si sottomette all’immagine umana.



< indietro

premessa | articoli | incontri | saggi | prefazioni
Valère Novarina |
immagini | nota biografica | mail