GIOIA
COSTA CATALOGHI L'ASTRATTISMO
DI VIVIANI Il
teatro di Viviani è tuttoesposto: la scena esce dagli interni per riversarsi
nelle strade, nei vicoli, nei porti, nei quartieri. Lazione occupa interamente
lo spazio del dubbio, dellanalisi, della riflessione. E la polifonia di
voci, mestieri, caratteri e alterne fortune che ne emerge racconta per pennellate
i tratti più rilevati, colori più esposti, i suoni più forti.
Ciò che colpisce nella drammaturgia di Raffaele Vivani sono le emergenze:
tutto è raffigurato ed è raffigurato per specialità. I caratteri
(ovvero i tipi e le macchiette, come si dice ogni volta che si parla del suo teatro),
ma anche i suoni della lingua, gli umori dei vicoli, le temperature dei rapporti,
tutto è scelto in base a un tratto dominante che spicca dal contesto. Nel
grande mare della vita napoletana dalla quale trae le esistenze che mostra, Viviani
coglie ciò che fa superficie, ciò che esce dalla norma e si impone
per la sua differenza. La polifonia della scrittura di Viviani,
formula abusata che riassume i tratti caratteristici del suo modo di fare teatro,
pone in effetti una serie di limiti interpretativi: in pagina come in scena tutto
è talmente manifesto e orchestrato che identificare uno spazio ancora da
esplorare, che superi la raffigurazione o la descrizione, uno spazio analiticamente
neutro, è particolarmente difficile. Eppure, proprio nella polifonia di
Viviani si nascondono i tratti costitutivi della sua scrittura: raccogliendo le
voci di Napoli, Viviani compie una scelta significativa: ciò che mostra
non è mai psicologico, non vuole essere uninterpretazione, una possibile
lettura della realtà, ma porta in scena una scheggia del reale, amplificata.
Amplificata dalle voci, dai colori e dai caratteri. E proprio nellamplificazione
si nasconde unattitudine profondamente distante. La natura della macchietta
ne determina il destino: è un tratteggio, per grandi e significativi colpi
di spatola, dei tipi del mondo. Viviani, nei confronti di questo mondo che tutto
contiene e tutto determina, non manifesta un giudizio né distanza ma denuncia
la sua aderenza fatale, che gli permette di ridisegnare con tratti sicuri ogni
elemento appariscente, ogni emergenza. Ciò che volutamente esclude
dai suoi racconti sono le domande, le esplorazioni, gli scavi, la ricerca. Da
un punto di vista drammaturgico, questa attitudine sorprende: negli stessi anni
in cui Pirandello rivoluzionava la possibilità di abitare e quindi di popolare
la scena, e nel resto dellEuropa la ricerca delle avanguardie artistiche
era allapice delle sue potenzialità, in quegli anni Viviani fotografa
unepoca, così comè. E poi ritocca limmagine, per
abbellire una figura, dar rilievo a unaltra, cancellare unombra, accentuare
uno squilibrio. Non si allontana dal realismo, apparentemente. Ignora lesperienza
cubista, gli a-parte di ONeill, le rivoluzionarie possibilità offerte
dallarrivo in scena di personaggi spezzati. Viviani, invece, prende il mondo
così come sembra, ferito, certo, anche rotto, fessurato, inguaribile, ma
lo rende talmente esemplare da farlo somigliare alle immagini pensate per una
cartolina turistica. Questa pretesa aderenza al reale mostra, in realtà,
la sua profonda indifferenza nel ritrarre e leggere la realtà. La sua folla
tende a coprire faglie e debolezze di ciascuno per comporre un quadro dove gli
equilibri sono di masse: voci e corpi, musiche e caratteri, timbri e suoni compongono
un paesaggio, ma non un paesaggio figurativo. I suoi spaccati raggiungono
lastrattezza proprio dalleccesso di realismo che per il segno
sovraccarico perdono corpo, perdono fisicità, perdono contorno.
Ciò che resta è lidea del tipo, lipotesi del carattere,
la possibilità del suono. E lintero concerto delle sue pagine diventa
se letto così come luniverso di Totò il buono
di Zavattini, una storia spuntata sotto un cavolo che inizia a camminare nel mondo
animata da una vita altra, della quale si è perso ogni rapporto con lorigine.
Eppure mi sembra interessante sottolineare che è proprio Viviani lautore
napoletano che più di altri ha nutrito le scritture successive: dai soliloqui
melomani di Moscato al modo di popolare la scena di Tonino Taiuti, il nuovo teatro
napoletano si è alimentato spesso dei getti che continuano a nascere da
questo grande albero cittadino, indifferente alle mode e alle tendenze, che conserva
la sua struttura inalterata e la fa ascoltare a chi si siede alla sua ombra.
Per esempio lo spettacolo appena messo in scena da Mario Martone, I dieci comandamenti,
non ha perso alcuno degli stimoli della scrittura originaria. Martone ha accolto
Viviani con la sua guitteria, con il dolore che traspira dallopera, con
una costruzione scenica che ricrea un frammento di Napoli. Per farlo ha scelto
una compagnia di attori deccezione, tutta la tradizione napoletana traspira
dal gesto, dalle trasparenze della lettera, dalla costruzione. La scena aderisce
al progetto: il grande cubo multiabitabile che da una parte è scala, dallaltro
interno e in un lato vicolo è la riproduzione di un meccanismo scenico
che delega agli attori, alla loro generosità, tutto il potenziale visionario
della pagina. Perché Viviani permette di fermare la storia, lo faceva già
quando montava i suoi spettacoli, ed era per tenere gli attori: non lascia vuoti,
riempie gli interstizi, calca il colore, e non dà tregua a nessuno. Così
iperdefinito, il suo paesaggio può ricomporsi ogni volta che si torna a
guardarlo. E sempre il suo eccesso di realismo si avvicina allastrazione.
In oltre cinquantasette commedie, mai Viviani era arrivato a una tale precisione
nel racconto come nei Dieci comandamenti. Dal Decalogo di Kieslowski, ai Dieci
comandamenti torna lansia di dare un senso allinsensatezza del quotidiano,
attribuendo al dio denaro, al dio miseria o al dio ignoto la potenza di tracciare
un destino. Ciò che definisce la nostra epoca è limpossibilità
del simbolico. Non è, come si dice, il virtuale ad aver distrutto la potenza
del simbolico, ma il troppo pieno che non lascia spazio nemmeno alla paura. La
continua alimentazione del desiderio, che ci investe dalle strade nelle immagini
nei suoni e nei modelli (tavole perfette, esseri meravigliosi, abiti impeccabili,
macchine autosufficienti, occhiate che riassumono tutto ciò ch non si sa
più dire) non permette più nemmeno la paura. E senza timor non cè
felicità. Ce lo insegnava Kierkegaard: è solo quando ha il
tragico, che lessere è felice
. Forse, nel brusio della
fame, nei colori di voglie manifeste, nelle musiche che coprono il dolore nascosto
sotto i racconti, forse Viviani lascia aperta una possibilie felicità,
nel suo astrattissimo realismo che si acceca di prossimità. Relazione
al convegno Raffaele Viviani, Istituto Suor Orsola Benincasa, 2001 www.teatro.unisa.it
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