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STAMPA
domenica 23 luglio 2006 – il manifesto cultura
Ritornello filosofico per suono mobile
«Millesuoni. Deleuze, Guattari e la musica elettronica». Esplorazione
a più mani in un volume collettaneo curato da Roberto Paci Dalò
ed Emanuele Quinz per Cronopio
di Mario Gamba
Musica elettronica di derivazione «colta» o «extracolta»,
videomusica, post-post-avanguardie, jazz «informale» o polimorfo,
improvvisazione totale, impro-composizione, computer music, molteplicità,
ricerca, complessità, immersione/emersione per mezzo dei suoni
nei/dai linguaggi di un mondo formale in fermento: tutto non pervenuto
nei circoli dell’intellettualità italiana da rotocalco, da
premio letterario, da cattedra o da incarico prestigioso nel precariato
cognitivo. Non era così per Gilles Deleuze. Né per il suo
compagno Felix Guattari. Come si impara, se già non lo si sa, dalla
lettura di un prezioso libro delle edizioni Cronopio (Millesuoni. Deleuze,
Guattari e la musica elettronica, pp 184, 14,50 euro, curato da Roberto
Paci Dalò e Emanuele Quinz con contributi di Emanuele Quinz, Timothy
S. Murphy, Christoph Cox, Philippe Franck, Achim Szepanski, Guy-Marc Hinant,
Carlo Simula, Roberto Paci Dalò). Deleuze e Guattari scrivevano
sulla musica, ad esempio un intero capitolo, intitolato Il ritornello,
di Mille plateaux. Del resto scrivevano molto sulle arti, come è
noto (il film per Deleuze: un argomento ricorrente nel suo lavoro). Trovavano
nella musica molte occasioni per arricchire il loro pensiero, cercavano
di verificare la presenza di una mobile realtà nel loro pensiero
(non immaginario, non simbolico: invasione del reale, ricordavano spesso
a chi li classificava come «visionari») osservando e valutando
le diverse inclinazioni della musica.
Dalle loro riflessioni, anzi, invenzioni di concetti, è facile,
immediato, interessante ricavare suggestioni sul senso e sulle direzioni
possibili della musica d’oggi. Della musica in generale. Anzitutto,
per quanto riguarda una tensione verso la produzione di musica «senza
centri». Tensione ravvisabile, forse, già nei romantici (Schubert,
Brahms, Schumann), sicuramente nei post-romantici (Strauss, Mahler) e
poi, pienamente, come un mare aperto nel quale navigare per fare arte
dei suoni in sintonia col tempo presente, da Schömberg in avanti.
Con l’esaurimento della centralità tonale (non della tonalità
in quanto tale), fino alla meravigliosa Babele di oggi, nella quale i
musicisti amano o cercare una connessione costituente o abbandonarsi per
diventare clendestini per i poteri, ultravisibili e scambiabili per la
moltitudine.
Sul punto di una musica «senza centri», fatta di flussi, di
piani sonori ininterrottamente instabili, certo corrispondente ai concetti
di «corpo senza organi» e di desiderio – non il desiderio
di un oggetto preciso da raggiungere o possedere, sul quale posarsi, ma
una forma di vita aperta al divenire, all’esperienza di sempre nuove
intensità, all’ampliamento illimitato delle percezioni e
delle sensazioni – Millesuoni offre puntuali ricognizioni e una
tesi principale. Soprattutto nei due saggi più consistenti, firmati
da Emanuele Quinz e da Christoph Cox.
Cox, il vero ideologo nel gruppo di autori, va allo scopo, che sarebbe
la tesi, sua ma circolante un po’ in tutto il volume. Non ci va
dritto per fortuna, disegna cerchi e processi di avvicinamento, ma ci
va: la musica deleuziana per eccellenza è quella «elettronica
sperimentale» recentissima. Prima ci sono stati Ligeti e Berio,
Cage e i minimalisti della prima ora (Glass e Reich), ma nessuno come
i Pan Sonic, Dj Spooky, Scanner, Alva Noto realizza in musica le ipotesi
deleuziane. «Con l’avvento dell’elettronica sperimentale…tutte
le forze della deterritorializzazione musicale sono portate a congiungersi
e la musica a diventare definitivamente un CsO (corpo senza organi, ndr)».
Cox e altri in Millesuoni chiamano in questo modo, «elettronica
sperimentale», la musica elettronica di derivazione techno o house
o affini, senza disdegnare la dimensione pop vera e propria. Salta all’occhio
che definire «sperimentale» questa e non altre esperienze
di musica contemporanea, elettronica in perticolare, più o meno
recenti, basta pensare a uno Stockhausen o a un Nono o a un giovane compositore
prematuramente scomparso come Fausto Romitelli, suona piuttosto parziale,
forse gergale in ambienti formatisi nella cultura pop, ma non sono gli
unici ambienti significativi da considerare. Stridente è poi, in
Cox, quel «definitivamente», che certo al Deleuze teorico
dei «divenire» non sarebbe piaciuto.
Inevitabile, per Quinz, docente di estetica dei nuovi media all’università
Parigi 8 e all’Accademia di Brera, suscitare l’immagine, o
il concetto, del rizoma. «All’opposto dell’albero, il
rizoma non è l’oggetto di un processo di produzione, ma vive
in un tempo fluttuante, sospeso, procede per variazione, espansione, conquista,
cattura, puntura. In questo senso è un’antigenealogia. È
una memoria corta, o meglio un’antimemoria…La musica come
rizoma è un’antimemoria: non è più basata sulla
nozione di sviluppo o sulla trascendenza della composizione strutturale,
ma è puro flusso». Un primo spunto è suggerito da
queste poche frasi, sia pure un modo un po’ didascalico. Meglio
farla finita col culto, diffuso a sinistra, delle musiche «della
memoria», musiche folk o variamente contaminate col folk, musiche
delle identità, delle appartenenze, del territorio.
Ovvio che per Deleuze-Guattari i termini di memoria e territorio non designano
niente di fisico. Musica della memoria, cioè non frutto di processi
di continua trasformazione e instabilità, ma di criteri formalizzati
e convenzionali della grande accademia musicale, pop o «colta»
poco importa, è tanto quella folk, il cui consumo non è
ovviamente da proibire da parte di supposti «tribunali rivoluzionari»
deleuziani, ma anche la musica neoromantica dei Tutino e Ferrero dove
i riferimenti a precisi «territori» rock e ad altrettanto
precisi «territori» melodramma generano una miscela che ribadisce,
non trasforma, il «ritornello» deleuziano, cioè il
fatto musicale fisso. Così come è musica della memoria l’hip
hop di routine che straripa nell’iPod, il jazz neo-bop che satura
i programmi dei festival estivi, ma anche la musica di compositori della
nainstream «colta» come il reazionario cattolico James McMillan.
Un secondo spunto è offerto dal saggio di Quinz, se si ascoltano
le parole «variazione, espansione, conquista, cattura, puntura».
Sarebbe il caso di guardarsi da una sorta di «vulgata» dove
il concetto di flusso indica, in musica in questo caso (ma anche in politica,
è evidente), qualcosa in cui manca l’elemento del conflitto.
Così la musica deleuziana sarebbe un unicum di molecole sonore
e vi sarebbero assenti articolazioni, drammatizzazioni, contrasti, rotture.
Tutto in questa falsa visione si risolverebbe in un nirvana, in una trance
da pace dei sensi sonori.
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